Lo scoppio della crisi afghana ha nuovamente riproposto i tanti problemi che stanno affrontando l’America, la Nato e le relazioni transatlantiche in una fase di continuo mutamento della politica internazionale. Se la leadership di Joe Biden – l’uomo deputato a “riportare Washington nel mondo” – è stata messa in seria crisi dalle immagini provenienti da Kabul, Bruxelles ha mostrato, ancora una volta, tutta la sua evanescenza in un teatro che ha visto per 20 anni i paesi dell’Unione europea affiancare gli Usa nel disastro che ha riportato i Talebani al potere.
Dapprima, l’Alto Rappresentante per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell – il diplomatico più irriso al mondo – non ha colto il cambiamento che ha visto i Talebani riconosciuti come interlocutori dalla Nato e dalla Presidenza Usa con gli accordi del 29 febbraio 2020, definendo gli studenti coranici “gli stessi di sempre” e soffermandosi sul miglioramento del loro inglese. Per quanto Baradar e i suoi propugnino sempre la stessa ideologia oscurantista e misogina, è imperativo rimarcare come oggi, a differenza di 20 anni fa, gli Usa si stiano rapportando al nuovo e costituendo regime afgano, come dimostra l’incontro – nemmeno tanto segreto – avvenuto tra i vertici dei Talebani e quelli della Cia.
A questo punto, non potendo mettere sul campo nessuna opzione militare o pressione diplomatica reale, Bruxelles ha rinverdito due suoi mantra: il tema umanitario, con il costante tentativo di apparire “più buoni” degli alleati “guerrafondai”, e in particolare degli americani che hanno creato la confusione attraverso cui sono riemersi i Talebani; e, quello, ormai pluridecennale, sulla necessità di dotarsi di una difesa e di un esercito europeo da parte dell’Unione.
Nel primo caso, l’Ue è andata incontro a una magra figura: la presidenza di turno slovena ha frenato bruscamente tutti i tentativi di ricollocare a breve i profughi afghani in fuga da Kabul. Si sono accodati a essa l’Austria, la Polonia e l’Ungheria, al coro di “evitiamo di ripetere gli errori fatti con i rifugiati della guerra in Siria”. Se in un primo momento la retorica dominante era quella di “salvare donne e bambini dai Talebani”, passata l’emozione del momento, riflessioni politiche più ciniche si sono, come ovvio, imposte, e hanno spostato la questione sull’aspetto securitario.
I profughi commuovono quando sono in Afghanistan: quando arrivano in Europa preoccupano e creano consenso per i movimenti anti-sistema e anti-europei. Uno scenario che le élite bruxellesi vogliono evitare. La sconfitta si è palesata ancor di più quando l’odiato premier britannico, Boris Johnson, ha annunciato dal giorno alla notte un programma di accoglienza per 20 mila afghani, di cui 5 mila già da quest’anno. Potere decidere in solitario sulla politica migratoria che più aggrada ha sicuramente favorito la celerità della scelta del governo di Londra.
Passato qualche giorno da questo sberleffo, abbiamo assistito al più classico dei déja vu: dalle pagine del Corriere della Sera il giornalista filo-europeo Federico Fubini ha intervistato lo stesso Borrell, che ha riproposto il tema di un esercito europeo per difendere il continente dall’arretramento degli Usa e dallo stato di difficoltà della Nato. Per la verità, qualcosa su quel fronte si è mosso, con un primo stanziamento nel Quadro Finanziario Poliennale per il sessennio 2021-2017 a favore di politiche orientate alla costruzione di una difesa europea. Un progetto voluto fortemente dalla Francia, il cui europeismo, a differenza di quello nostrano, si sostanzia in una presa d’atto che l’Ue è un moltiplicatore della potenza nazionale di Parigi, non una sostituzione di essa (un progetto che non tiene conto, peraltro, del fatto che gli Usa se ne vogliono sì andare dall’Afghanistan ma non hanno intenzione di mollare l’Europa come hanno fatto con Kabul).
Già, perché bisognerebbe dire a chiare lettere che per fare un esercito europeo poi, questo esercito dovrebbe servire a qualcosa. Siamo veramente disposti a vedere i “nostri ragazzi” andare a morire in Afghanistan, in Iraq o nel Sahel? A giudicare dalla risonanza con cui i media e l’opinione pubblica trattano le notizie dei caduti italiani – ma non solo – pare proprio di no. La stessa America, lo stesso contribuente americano, sembrano sempre più riluttanti nel pagare le guerre della superpotenza Usa sia in termini finanziari – le guerre costano – sia in termini di perdita delle vite umane. Figuriamoci un’Europa che sono anni che si bea di volere realizzare una sorta di kantiana “pace perpetua”, mancandole i mezzi militari per sostenere le missioni internazionali e puntando tutto sul primato del commercio e dell’economia in un presente astorico.
Ci sono, inoltre, implicazioni geopolitiche che non andrebbero sottovalutate. Un esercito europeo non potrebbe che essere un esercito a guida francese, unica potenza dell’Ue dotata di force de frappe. Un esercito europeo implicherebbe per forza di cose la costituzione di un reale esercito tedesco, integrato a quello di Bruxelles. Un esercito europeo implicherebbe, infine, una notevole cessione di potere degli Stati a Bruxelles, prodromo della formazione di un unico governo europeo. Un sogno che sembra più scollegato dalle realtà e dalle dinamiche geopolitiche in atto.
Anche nella crisi afghana Bruxelles ha parlato un linguaggio velleitario, evanescente, incapace di incidere sulla realtà. Ha preferito crogiolarsi nella disfatta dell’alleato Usa – ma come, poi? Non ci avevano detto che con Biden si andava d’amore e d’accordo? – per non dovere ammettere la propria impotenza politica e militare. Per potersi giocare la carta dell’intervento umanitario è mancata la politica, e per potersi giocare la carta della politica è mancato lo Stato con le sue articolazioni militari. Molti attribuiscono l’impotenza europea proprio ai poteri che ancora gli Stati tengono per sé e pensano che tutto verrà risolto con la nascita degli Stati Uniti d’Europa. Il che dimostra come il velleitarismo abbracci tutto il progetto.