Economia

Come rispondere ai dazi di Trump: nuovi mercati, meno tasse

Sgombriamo il campo da alcune mistificazioni. Ai dazi, che sono tasse sui consumatori, oltre che una forma subdola di proibizionismo, si deve rispondere con più libertà

Trump Ursula

Non si fa neanche in tempo a distrarsi pochi secondi che il mondo cambia. Oggi abbiamo politici della sinistra post-comunista che citano tesi di Adam Smith contro il protezionismo. E il partito che un tempo fu liberista e rappresentante degli imprenditori del nord che invece tifa per i dazi di Trump. In mezzo a questa confusione stordente, il dibattito sui dazi americani e sulle inevitabili rappresaglie dell’Ue è tutto meno che facile da affrontare. Ma è meglio, prima, sgomberare il campo da alcune mistificazioni.

Effetti sulle Borse

Mistificazione numero uno: non è affatto detto che i dazi provochino subito un effetto sulle borse. Chi spiega il tracollo della borsa americana, spesso, fa troppa confusione fra cause politiche e cause economiche. La spiegazione politica è la più semplice (metto i dazi, quindi crolla la borsa) e però può essere sbagliata, perché a questo punto non si spiega il continuo alternarsi di euforia e panico, per altro sempre più frequenti, anche slegati da eventi politici e dalla stessa “economia reale” (quella non finanziaria).

Come spiega bene l’economista Maurizio Milano, durante la recessione da Covid le borse erano euforiche. Quindi il crollo dei titoli in borsa può avere altre cause, soprattutto legate alla liquidità circolante. E la liquidità circolante è una scelta tecnica (o politica) delle banche centrali.

Inflazione non automatica

Mistificazione numero due: i dazi provocano inflazione. Non è detto. Non subito, non automaticamente. L’inflazione dipende da molti altri fattori, prevalentemente all’attività delle banche centrali e dello Stato. Se lo Stato aumenta la spesa pubblica e la banca centrale pompa liquidità sul mercato, abbiamo più inflazione, che è un fenomeno eminentemente monetario.

I dazi sono aumentati nel corso della prima amministrazione Trump, ma non hanno provocato inflazione (prima della pandemia di Covid).

Effetti sul gettito

Mistificazione numero tre: i dazi portano più soldi nelle casse di Stato. Questo è un argomento che viene spesso usato da chi è a favore dell’aumento delle tariffe, incluso Trump. Ma non è automatico: più tariffe scoraggiano le esportazioni. Quindi, essendoci meno merci e servizi da tassare alla dogana, il gettito può addirittura diminuire. Insomma, meglio non far conto sui dazi per compensare una riduzione delle imposte dirette e indirette sui propri cittadini, perché i conti potrebbero non tornare.

Protezionismo non vuol dire efficienza

Mistificazione numero quattro: i dazi servono all’industria nazionale. Nella seconda metà dell’Ottocento la corsa al protezionismo è stata condotta da nazioni che si stavano rapidamente industrializzando, ciascuna intenta a proteggere i propri produttori nazionali. Ma a parte qualche pericoloso effetto collaterale (la Guerra Civile Americana e poi la stessa Prima Guerra Mondiale), la corsa al protezionismo non garantisce affatto una maggior efficienza.

Protegge produttori esclusivamente perché sono miei connazionali, non perché siano i migliori e sicuramente non perché servano meglio la domanda interna, cioè quel che i consumatori chiedono. Può addirittura produrre una selezione al ribasso, perché protegge i capitalisti consociativi con più entrature politiche, privandoli di una stimolante concorrenza.

Tasse e coercizione

Fatta piazza pulita di questi giudizi affrettati, serve demolire la più grande delle mistificazioni: che i dazi o il libero mercato facciano bene o male al “Paese”, inteso come Stato, o come gruppo di Stati (nel caso dell’Ue), o blocco geopolitico. Ma si dimentica che non è lo Stato l’attore del mercato, bensì l’individuo. Un mercato è uno scambio fra individui. Sempre. Ed è un gioco a somma positiva: rinuncio a quel che mi interessa meno per ottenere quel che mi interessa di più, l’uno guadagna soldi, l’altro guadagna beni o servizi che gli servono.

Quando lo Stato si intromette, anche se crede di farlo per il bene dei suoi cittadini, trucca il gioco e fa perdere (soldi o merci) a chi potrebbe o vorrebbe scambiare liberamente. In teoria i dazi servono allo Stato per condurre le sue guerre economiche, nella pratica sono sempre e solo tasse imposte ai consumatori.

Se, per esempio, impongo dazi del 200 per cento sui vini italiani, sto costringendo un consumatore americano a pagare una bottiglia di lambrusco il 200 per cento in più di quel che l’avrebbe pagata sino a ieri. Questa politica serve a costringere gli americani a scegliere il vino della California piuttosto che quello dell’Emilia Romagna, ma sto comunque costringendo un consumatore, con misure politiche coercitive, a privarsi di una libera scelta.

I prodotti tipici, come formaggi e vini caratteristici delle nostre filiere agro-alimentari, sono quelli che fanno più notizia, ma tutto sommato sono quelli che hanno un impatto inferiore sulle scelte e sulla vita dei consumatori. Dazi su quei prodotti costringono i consumatori a orientarsi su prodotti simili e i veri appassionati a spendere quattro volte tanto. Mentre obbligano i produttori (come se non avessero già abbastanza difficoltà) a cercare altri mercati in cui vendere a prezzi non così distorti dallo Stato di destinazione.

Ma proviamo a pensare alla fabbrica che non può più permettersi di comprare acciaio e alluminio. O alle industrie tecnologiche che non possono più permettersi chip e semi-conduttori. Per non parlare dell’economia dei servizi, basati sulle conoscenze che sono, per definizione, diffuse e disperse. In un mondo globalizzato dove (finalmente!) si era arrivati a una vera divisione del lavoro ben distribuita in tutto il pianeta, è difficile pensare di tornare alla rigidità industriale ottocentesca, dove tutto, dall’inizio alla fine, doveva essere prodotto entro i confini del proprio Stato.

Se ai dazi di Trump, l’Ue risponderà a sua volta con altri dazi, la tragedia verrebbe raddoppiata. Consumatori americani verrebbero colpiti dai dazi Usa, consumatori europei verrebbero colpiti dai dazi di rappresaglia dell’Ue. E allora che fare? Giusto qualche consiglio, ovviamente non richiesto.

Cosa fare?

Primo: aprire ai produttori e ai consumatori europei nuovi mercati. Basta fare i choosy su agricoltura e paure ambientaliste, apriamo il mercato Ue al Mercosur, per accedere all’enorme mercato dell’America Latina. Basta cincischiare con l’India sull’agricoltura (tanto non la convinceremo mai ad aprire il suo mercato agricolo), facciamo un accordo di libero mercato Ue-India su tutte le altre merci e servizi. L’India, da sola, ha tre volte tanto la popolazione europea, un mercato di sbocco immenso.

Questo giusto considerando due accordi i cui negoziati sono già in corso ed escludendo anche l’ipotesi, pericolosa, di riaprire alla Cina. Che non chiede solo i soldi, ma anche l’anima, cioè l’influenza politica.

Secondo: fare dell’Europa un paradiso fiscale. Prima di tutto incentivando gli Stati membri a detassare le imprese che sono più colpite dai dazi americani. Se Trump rovina loro il mercato, imponendo delle tariffe, è inutile aggiungere anche le nostre tasse nazionali.

Poi, permettendo a ogni Paese di fare come l’Irlanda, cioè di imporre poche o nessuna imposta sulle multinazionali che vogliono aprire sedi e stabilimenti sul tuo territorio, in modo che producano e diano lavoro qui, da questa parte dell’Oceano. Se l’Ue vuole reggere la competizione con gli Usa di Trump deve, prima di tutto, smettere di essere punitiva con chi, come l’Irlanda appunto, attira imprenditori con tassazioni più basse.

Terzo: aprire il mercato al Regno Unito e risolvere tutti i contenziosi (molto spesso solo di principio e inutili sul piano pratico) che si sono aperti dalla Brexit in poi. Una grande area di libero scambio con il Regno Unito serve anche a riunificare l’Europa, al di là delle strette maglie dell’Ue.

Insomma, ai dazi, che sono tasse sui consumatori, oltre che una forma subdola di proibizionismo, si deve rispondere con più libertà. Ma non c’è da aspettarselo, almeno non da questa classe dirigente europea.