Vladimir Putin sta puntando contro di noi un’arma, quella del gas, che noi stessi gli abbiamo passato. E gliel’abbiamo passata carica.
Certo che ha giocato, dalla primavera 2021, con gli stoccaggi europei, tenendoli bassi per far aumentare i prezzi e riempire le sue casse in vista dell’aggressione all’Ucraina. Certo che sta ripetendo lo stesso gioco in questi giorni, tagliando i flussi per impedirci di riempire gli stoccaggi per il prossimo inverno e mantenere così i prezzi alti.
Le sanzioni, certo, contribuiscono. Le importazioni di petrolio si riducono, l’offerta di carburanti si restringe e i prezzi aumentano.
La falsa promessa green
Ma se la dipendenza europea dal gas russo, tedesca e italiana in particolare, si è enormemente accresciuta negli ultimi 15 anni – ancor di più paradossalmente dopo la prima aggressione russa all’Ucraina, nel 2014 – si deve ad una scelta deliberata da parte dell’Europa, guidata da Berlino.
La scelta di perseguire politiche energetiche dettate dall’ideologia green, che si basa sulla teoria catastrofista, millenarista, dei cambiamenti climatici provocati dall’azione umana.
L’agenda Greta è stata adottata e perseguita con furore ideologico. Una cura da cavallo.
Il ricatto di Putin, le sanzioni, l’hanno esacerbata, ma la crisi energetica è dovuta fondamentalmente ad un altro fattore: il disinvestimento nelle fonti fossili, sulla base della falsa promessa che fonti come solare ed eolico, inaffidabili, potessero sostituirli rapidamente.
La distorsione del mercato
Invece di lasciare che fosse il libero mercato a guidare gli investimenti verso le fonti e le tecnologie più efficienti e mature (rinnovabili o non) per la produzione di energia elettrica, da oltre un decennio abbiamo visto aumentare le restrizioni governative e le restrizioni direttamente degli investimenti, tramite i criteri ESG, nella produzione e nel trasporto di combustibili fossili.
Giganteschi attori nazionali e sovranazionali, come Stati Uniti e Unione europea, hanno programmato, pianificato, incentivato e disincentivato, mobilitando enormi masse di denaro pubblico, prefiggendosi scadenze precise di decarbonizzazione – come la recente decisione Ue di vietare la produzione di auto con motori a scoppio entro il 2035.
La spinta è arrivata sia dal basso, da movimenti giovanili spintanei, sia dall’alto, da prestigiosi forum internazionali, come il WEF di Davos con i suoi ideologi del Great Reset.
All’ultima riunione, uno dei relatori, guarda caso il presidente della multinazionale cinese Alibaba, Michael Evans, ha addirittura annunciato l’arrivo di un “tracciatore di impatto di carbonio individuale. Non lo abbiamo ancora operativo, ma è qualcosa su cui stiamo lavorando”. L’emergenza climatica e la transizione green come ultimi pretesti per il controllo totalitario.
L’effetto di questa spinta è stato il progressivo disinvestimento dalle fonti di energia più affidabili e continue, fossili e nucleare, e dall’industria della raffinazione.
Non c’è miglior affare per la finanza, pensiamo ai grandi fondi, che un investimento garantito nei prossimi decenni dal decisore pubblico. Se so in anticipo che l’intero Occidente punterà sulle rinnovabili con l’obiettivo di disfarsi completamente delle fonti fossili in un tempo relativamente breve, non ho dubbi su dove investirò trilioni di fondi pensione.
Pensate anche all’industria automotive: si trova bell’e pronta una strategia industriale senza rischi, una strada obbligata (essendo i motori a scoppio e i carburanti destinati all’estinzione per scelta politica), miliardi di incentivi e persino la strategia di marketing gratuita.
Crisi dell’offerta
Peccato che siamo ancora lontanissimi dal momento in cui, semmai arriverà, le fonti rinnovabili saranno davvero in grado di sostituire – per quantità e continuità – fossili e nucleare. Questo ha portato ad una contrazione dell’offerta, rimasta sotto traccia durante il biennio del Covid ma resa oggi evidente dall’aumento della domanda.
Una transizione green accelerata, troppo rapida, alla quale l’innovazione tecnologica non riesce a stare al passo, non ha fatto altro che aumentare la necessità di energia elettrica affidabile, di cui le economie avanzate hanno bisogno.
E mentre tutto il resto, dal carbone al nucleare, veniva dismesso, questa non poteva che essere prodotta dall’unica fonte rimasta: il gas. E il gas non poteva che arrivare dall’unico fornitore che nel frattempo non stava disinvestendo: la Russia. E che, con una politica “alla cinese” di prezzi bassi, mirava a creare dipendenza.
Oltre a spingere a produrre di meno da noi, abbiamo favorito la concentrazione dell’offerta in mano ad un solo fornitore. No alle trivelle, no ai rigassificatori, no al carbone, no al petrolio, no al nucleare. Cosa resta, se non il gas di Putin?
L’unico periodo in cui questo processo ha subito quanto meno una battuta d’arresto, è stato quello della presidenza Trump, che diede grande impulso alla produzione nazionale oil & gas mantenendo i prezzi bassi. La sanzione più efficace contro Mosca.
Ora con Biden si trovano nei guai anche gli Stati Uniti. Se in campagna elettorale l’attuale presidente aveva promesso di chiudere l’industria petrolifera, ora è costretto a esortarla ad aumentare produzione e capacità di raffinazione per raffreddare i prezzi alla pompa, che stanno mandando su tutte le furie gli americani. Ma si sente rispondere come gli ha risposto ieri il ceo di Chevron.
Verso il razionamento
Tornando in Europa, per far fronte al taglio delle forniture russe e riempire gli stoccaggi in vista dell’inverno, in Germania hanno deciso (un ministro dei Verdi) di riaccendere le centrali a carbone (chissà perché non le centrali nucleari), mentre in Italia si parla di piano di emergenza e razionamenti.
Il Comitato di emergenza sul sistema gas che si è riunito ieri pomeriggio al Ministero della transizione ecologica, con i tecnici Mite, Arera, Snam, Terna, alla fine ha deciso di non passare allo stato di allarme, ma ciò non esclude interventi drastici. L’attuale livello di preallarme infatti già consentirebbe di adottare le eventuali misure necessarie. Oggi il ministro Cingolani incontra Eni ed Enel.
Dopo aver sottovalutato per settimane il problema stoccaggi, si corre ai ripari. Tra le ipotesi si vocifera di un blackout notturno dell’illuminazione pubblica e delle utenze domestiche, forse anche delle industrie energivore a ciclo continuo.
Serve un piano di razionamento nazionale che ci faccia risparmiare, per stoccarli, 30 milioni di metri cubi di gas al giorno, secondo le stime di Gianclaudio Torlizzi, di T-Commodity. Per Davide Tabarelli (Nomisma) è inevitabile fermare le industrie. Ma non illudiamoci: razionamento vuol dire recessione.
I competenti
È lunare che il ministro Roberto Cingolani sostenga, ancora ieri, che “i prezzi del gas salgono non perché manca la materia prima, ma perché qualcuno dietro una tastiera ha deciso di farci pagare di più”. L’obiettivo, evidentemente, è sostenere la proposta di price cap, un tetto al prezzo, avanzata dal premier Draghi. Ma se il problema non dovesse essere “qualcuno dietro una tastiera”, il gas andrà dove viene venduto meglio.
Adesso il ministro Cingolani parla anche della necessità di disaccoppiare i prezzi dell’energia prodotta da rinnovabili dai prezzi del termoelettrico, che fissano i prezzi di tutta l’energia venduta nella Borsa elettrica.
Se mai dovessero farlo, ciò avrà probabilmente l’effetto di far scoppiare la bolla delle rinnovabili, dimostrando quanto fosse gonfiata dagli incredibili margini di profitto garantiti fino ad oggi, anche da questo sistema di prezzatura.
Il futuro è delle auto elettriche? Ma è lo stesso ministro Cingolani a rendersi conto che “il futuro con il litio non è molto diverso dal futuro (e presente, ndr) con il gas fornito dalla Russia”. Un futuro di dipendenza dalla Cina. Ne sono consapevoli già oggi, come ieri ne erano consapevoli per il gas. Ma questo non li ha fermati ieri e non li fermerà oggi, temiamo.
La via d’uscita
Qualcuno chiederà mai conto a chi, incurante di qualsiasi principio di sicurezza nazionale, con le sue scelte ci ha precipitati in questa crisi?
Certo, la guerra in Ucraina e il ricatto di Putin hanno aggravato il problema, ma la causa scatenante, sia della dipendenza dal gas russo, sia della crisi dell’offerta, è l’ideologia gretina.
Quindi, non ne usciremo se non usciremo dalla transizione green. E se transizione green ha da essere, che si affermi senza l’imposizione dei poteri pubblici, secondo criteri di efficienza e convenienza che solo il mercato può riconoscere.