Economia

Direttiva “RED III”, quanto ci costerebbe il nuovo incubo distopico green

Quota rinnovabili alzata al 42,5 per cento entro il 2030. Obiettivi sempre più irrealizzabili e ad elevato rischio di scempio ambientale e di default finanziario

fotovoltaico costi green

Ha destato molto scalpore l’approvazione in via definitiva da parte del Parlamento europeo il 12 settembre scorso di una serie di misure per promuovere la diffusione delle energie rinnovabili. La nuova direttiva sulle energie rinnovabili, la cosiddetta “RED III”, incrementa di ulteriori 10,5 punti percentuali la quota vincolante di produzione da fonti rinnovabili da raggiungere entro il 2030 sul totale del consumo finale di energia di tutti gli Stati Membri, già fissata al 32 per cento nella precedente versione della Direttiva, la “RED II” che, ricordiamo, era entrata in vigore meno di due anni fa (il 30 novembre 2021), portandola quindi al 42,5 per cento con l’obiettivo auspicabile di raggiungere addirittura il 45.

La direttiva è stata approvata con 470 voti favorevoli, 120 contrari e 40 astensioni. I parlamentari italiani espressione delle forze di opposizione hanno votato tutti a favore mentre quelli governativi hanno votato in maniera discordante: a favore quelli di Forza Italia, contrari i leghisti e astenuti quelli di Fratelli d’Italia. Senza dubbio, non un bel segnale di compattezza.

Per entrare in vigore, il testo dovrà ora essere formalmente adottato dal Consiglio dell’Unione europea che, ricordiamo, è composto dall’insieme dei ministri di ciascuno Stato membro competenti in una data materia, in questo caso dell’energia.

Rischio scempio ambientale

La normativa prevede inoltre lo “snellimento” delle procedure per la concessione di permessi per nuovi impianti di energia rinnovabile, essenzialmente impianti fotovoltaici e centrali eoliche, e per l’adeguamento di quelli esistenti. Sempre secondo questa nuova direttiva, le autorità nazionali non potranno impiegare più di 12 mesi per autorizzare la costruzione di nuovi impianti di energia rinnovabile situati nelle cosiddette “zone di riferimento per le energie rinnovabili” e non più di 24 mesi al di fuori di esse. A tal proposito, varrà la norma del “silenzio assenso”.

Per chi non lo sapesse, quello delle “zone di riferimento per le energie rinnovabili” è uno dei (tanti) frutti avvelenati del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), secondo cui ciascuno degli Stati membri dovrà definire entro due anni le aree geografiche del proprio territorio che sono particolarmente favorite da certe risorse rinnovabili (sole, vento, biomasse, ecc.) entro cui promuovere lo sviluppo delle rispettive tecnologie.

Pertanto, ancorché essere ancora tutte da definire, non c’è da lavorare molto di fantasia per immaginare che queste zone saranno l’Italia meridionale per il fotovoltaico, il “triangolo d’oro dell’eolico” (il territorio compreso tra le province di Avellino, Foggia e Potenza) e la Sardegna per l’eolico, e il Nord Italia per le biomasse.

Il punto sarà capire in cosa consisterà questo “snellimento”, se in una migliore efficienza degli iter burocratici come sembrerebbe sulla carta, oppure se questo “snellimento” si tradurrà in un far west autorizzativo, un “liberi tutti” che consentirà ogni ulteriore scempio ambientale.

In altre parole, c’è il fondato timore che, nei prossimi anni, nelle aree in questione possa esserci la proliferazione esponenziale di ulteriori installazioni selvagge, di gran lunga peggiori di quelle che già oggi devastano quei territori con orride distese di pannelli fotovoltaici e disordinate accozzaglie di turbine, turbinoni e turbinette eoliche in ogni dove.

E-fuel, idrogeno e biomasse

Sempre secondo la direttiva in questione, nel settore dei trasporti la diffusione delle rinnovabili dovrebbe portare ad una riduzione del 14,5 per cento delle emissioni di gas serra entro il 2030 attraverso l’utilizzo di una quota maggiore di biocarburanti di seconda generazione o “2G biofuels” (per intenderci, quelli ottenuti non per mezzo di consumo di suolo esclusivamente dedicato a coltivazioni ad hoc ma attraverso la valorizzazione degli scarti agricoli) e a una quota più ambiziosa di carburanti rinnovabili di origine non biologica, come l’e-fuel e l’idrogeno, di cui tuttavia abbiamo già parlato nelle settimane precedenti mostrandone i grossissimi limiti.

Le nuove misure varate dovrebbero anche andare a sostegno dell’uso delle biomasse, garantendo tuttavia al tempo stesso che “la raccolta di biomassa venga effettuata in modo da evitare impatti negativi sulla qualità del suolo e sulla biodiversità”. Che cosa vuol dire? Ormai siete sufficientemente scafati da sapere che, quando in questo tipo di documenti vengono citate parole chiave come “biodiversità”, “inclusività”, “resilienza” et similia, con ogni probabilità si tratta di fuffa green!

Le contraddizioni

La prima grossa incongruenza di questa direttiva riguarda l’obiettivo di riduzione dei gas serra nell’autotrazione. Più in particolare, c’è un’evidente discordanza tra la RED III e il regolamento ratificato a marzo a maggioranza dai ministri dell’energia, che prevede il divieto di produzione e di immatricolazione di veicoli dotati di motore endotermico a partire dal 2035 (con l’eccezione delle supercar purché alimentate con e-fuel o, forse, con biocarburanti).

Infatti, secondo la direttiva RED III, una riduzione nel 2030 del 14,5 per cento di gas serra significa, vuoto per pieno, una riduzione del 14,5 per cento del parco veicoli circolanti con motore endotermico. Invece, stando al regolamento che prevede il divieto di motori endotermici a partire dal 2035 e ipotizzando una decrescita lineare dei relativi veicoli, nel 2030 dovremmo già aver ridotto il relativo parco circolante del 60 per cento.

In cosa si traducono per l’Italia gli obiettivi della RED III per il 2030? Abbiamo visto in precedenza nell’articolo dedicato alla strategia net zero che il fabbisogno energetico totale del sistema tecnologico italiano oggi vale all’incirca 1.222 TWh/anno, di cui 317 TWh di consumi elettrici, 175 TWh per l’autotrazione e 730 TWh di consumi termici (fossili) per l’industria pesante e per il riscaldamento (domestico e non).

Produrre il 42,5 per cento di energia da fonti rinnovabili entro il 2030 equivale quindi a dire che dovremmo portare la produzione di energia elettrica da tali fonti, che oggi è circa 100 TWh/anno, alla quota di 520 TWh/anno. Occorrerà cioè incrementare la produzione di elettricità rinnovabile a regime di 420 TWh/anno, cioè di +60 TWh/anno per ciascuno dei 7 anni che ci separano dal 2030.

Questo semplice dato ci permette di constatare anche una grossa incongruenza tra gli obiettivi della RED III e quelli della net zero. Infatti, mentre per quest’ultima dovremmo incrementare la produzione di energia rinnovabile di 1.122 TWh/anno in 27 anni (da oggi al 2050), cioè di +41,5 TWh/anno ogni anno fino al 2050, per la RED III dovremmo incrementarla invece di +60 TWh/anno ogni anno fino al 2030: all’incirca una volta e mezzo l’obiettivo già irrealizzabile della net zero nei prossimi 7 anni.

Nuovi impianti necessari

Quanto al numero di impianti necessari, seguendo la stessa metodologia di calcolo seguita per gli obiettivi net zero, avremmo bisogno di costruire e installare i seguenti impianti:

  • 3.200 nuove turbine eoliche da 2 MW di targa (6,4 GW di targa) ogni anno, per un totale di 22.400 turbine eoliche installate al 2030 (44,8 GW di targa). Per paragone, oggi in Italia ci sono 7.289 turbine eoliche di taglia analoga.
  • 164 km2 di nuovi pannelli fotovoltaici al silicio monocristallino (23,4 GWp) ogni anno, per un totale di 1.148 km2 (164 GWp) installati al 2030. Per paragone, oggi l’insieme di tutti gli impianti fotovoltaici italiani assomma a circa 300 km2 (42,8 GWp).
  • 12 nuove centrali a biomasse da 10 MW ogni anno, per un totale di 84 centrali installate al 2030, per alimentare le quali occorrerebbero a regime poi ulteriori 12 milioni di tonnellate l’anno di cippato di legno, un terzo di tutta la produzione annua nostrana. Per paragone, oggi ci sono in Italia 76 centrali analoghe.

Per ovviare all’intermittenza della generazione da fonti rinnovabili occorrerà prevedere delle batterie di accumulo distribuite sul territorio. Il criterio empirico di dimensionamento segue la regola: C = E/365, dove C è l’energia di accumulo ed E è l’energia prodotta totale. Nel nostro caso sarà: C = 520/365 = 1,42 TWh, equivalenti a 13,5 milioni di m3 (30 milioni di tonnellate) di batterie al piombo-acido da distribuire sui 302mila km2 di superficie italiana e da sostituire in media ogni 1.500 cicli di carica/scarica (24 ore), cioè ogni 4 anni.

Adeguamento della rete

La nostra rete di distribuzione attuale gestisce, come visto, 317 TWh/anno di energia elettrica con flusso medio di potenza pari a 30 GW circa e picchi fino a 50 GW. Dovendo tuttavia gestire 520 TWh/anno, cioè poco meno del doppio dell’attuale consumo di energia, è lecito aspettarsi che anche la potenza media e quella di picco nello scenario “RED III” debbano quindi essere il doppio delle attuali, cioè 60 GW medi con punte di 100 GW.

Ciò comporta la necessità di raddoppiare l’intera rete elettrica, cioè di installare i seguenti nuovi elettrodotti:

  • 60.000 km di nuovi elettrodotti in Alta Tensione (AT – 220 e 330 kV) sorretti da 200.000 tralicci di 30 tonnellate ciascuno, i cui conduttori, ciascuno di sezione 50 mm2, sono disposti ai vertici di un triangolo equilatero di lato 400 mm (rame impiegato: 1,35 tonnellate/km, acciaio: 100 tonnellate/km).
  • 350.000 km di nuovi elettrodotti in Media Tensione (MT – 10-20 kV) che utilizzano tipicamente cavi MT 3x120mm2 (rame impiegato: 3,23 ton/km) sorretti generalmente ma non necessariamente da pali in cemento armato di 5 metri di altezza.
  • 780.000 km di nuovi elettrodotti in Bassa Tensione (BT – 380 V) che utilizzano tipicamente cavi BT 3x120mm2 (rame: 3,23 ton/km) sorretti generalmente ma non necessariamente da pali in cemento armato di 5-6 metri di altezza.

Lista dei materiali

I materiali principali che sarebbe necessario approvvigionare per implementare gli obiettivi della RED III sono i seguenti (tenetevi forte!):

  • Batterie al piombo-acido: 30.000.000 tonnellate.
  • Calcestruzzo: 18.000.000 tonnellate.
  • Acciaio: 12.500.000 tonnellate.
  • Vetro: 9.200.000 tonnellate.
  • Rame: 3.900.000 tonnellate.
  • Alluminio: 1.200.000 tonnellate.
  • Fibra di vetro: 560.000 tonnellate.
  • Silicio: 540.000 tonnellate.
  • Tedlar / EVA: 500.000 tonnellate.
  • Zinco: 5.000 tonnellate.

Questa vera e propria “lista dei desideri” ci porta alla mente un’altra famosa lista di materiali, la cosiddetta “lista del molibdeno” di mussoliniana memoria, il che conferma il famoso motto marxiano secondo cui la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa.

Chi paga il conto?

Chi pagherà tutto questo? Tutti noi, ovviamente, sotto forma di:

  • Sussidi Ue per i produttori di impianti eolici e fotovoltaici;
  • Sussidi nazionali per chi decide di installare un impianto a energia rinnovabile;
  • Tariffe incentivanti nazionali per chi produce energia elettrica da fonti rinnovabili.

Tralasciando la prima voce, di difficile valutazione, oggi in Italia chi vuole installare un impianto fotovoltaico viene sussidiato dallo Stato attraverso credito d’imposta per una quota pari al 70 per cento del valore dell’impianto (con un massimale di 96.000 euro) in 10 anni (ex “superbonus 110 per cento”); chi volesse invece installare un impianto eolico di potenza di targa fino a 200 kW (il cosiddetto “minieolico”) viene sussidiato dallo Stato attraverso credito d’imposta per una quota pari al 65 per cento del valore dell’impianto (con un massimale di 100.000 euro) in 10 anni.

Infine, lo Stato attraverso il GSE riconosce tariffe incentivanti molto vantaggiose per chi produce energia rinnovabile i cui costi, una volta venduta l’energia ritirata, vengono spalmati sul totale dell’energia elettrica consumata e quindi pagati dai consumatori in bolletta attraverso una maggiorazione che oggi, abbiamo calcolato, vale circa 3,12 €cent/kWh, la quale, in media, incide su ogni famiglia per 110 euro l’anno.

Gli impianti di grande taglia, sia eolici che fotovoltaici, non godono invece di alcun sussidio sotto forma di credito di imposta se non per i massimali suindicati. C’è quindi da scommettere che, in assenza di modifiche alle normative nazionali, questo porterà alla proliferazione di tanti piccoli impianti, sia eolici che fotovoltaici, atti a poter accedere ai pieni benefici di legge.

Pertanto, se le norme non cambieranno, il timore più che fondato è che, anziché avere l’installazione di 22.400 turbine eoliche da 2 MW, che pure avrebbero un impatto ambientale devastante, si avrà invece la proliferazione di un numero maggiore di 224.000 turbine di potenza minore di 200 kW: una vera e propria selva oscura di macchinette semoventi, un vero sfregio all’ambiente che, questo sì, dovrebbe scatenare l’ira funesta degli adepti di Ultima Generazione e simili.

I conti in tasca agli italiani

Facciamoci adesso due conti della serva per determinare l’ordine di grandezza degli oneri per lo Stato e per i consumatori. Il costo di un impianto fotovoltaico di piccola taglia si aggira intorno ai 2.500 €/kWp. Pertanto, i 164 GWp previsti a regime dalla direttiva RED III, frazionati in impianti di piccola taglia, costeranno all’incirca 410 miliardi di euro, il 70 per cento dei quali, 287 miliardi di euro, a carico dello Stato in 10 anni.

Il costo di un impianto minieolico (20-200 kW) si aggira intorno ai 1.500 €/kW. Pertanto, i 44,8 GW previsti a regime dalla direttiva RED III, frazionati in impianti di piccola taglia, costeranno 67,2 miliardi di euro, il 65 per cento dei quali, 43,68 miliardi di euro, a carico dello Stato in 10 anni.

Con le normative vigenti, lo Stato italiano dovrà quindi sobbarcarsi un onere complessivo di 330,68 miliardi di euro, che saranno spalmati da oggi al 2040 (per gli impianti installati nel 2030) in ragione variabile col numero delle installazioni stesse e dei rispettivi piani di decontribuzione annua ma che in media costeranno circa 19,5 miliardi di euro l’anno per 17 anni.

E i consumatori? Beh, per loro il conto è presto fatto: se per una produzione odierna di circa 100 TWh l’anno di energia rinnovabile il costo in bolletta è di circa 3,12 €cent/kWh che, mediamente, per ogni famiglia comporta una spesa annua di 110 euro, quando l’energia rinnovabile prodotta sarà 520 TWh l’anno, il sovraprezzo sarà, vuoto per pieno, 16,2 €cent/kWh che si ripercuoteranno in una spesa media annua per famiglia di 572 euro. Facile fare le direttive coi portafogli degli altri, no?

Il ruolo del Parlamento europeo

Come si spiega l’enorme confusione e parossismo normativo sulle rinnovabili che ha caratterizzato tutta la presidenza di Ursula Von der Leyen, travolgendoci da tutte le parti, così come l’analoga frenesia a livello di G20? Non dimentichiamo infatti che solo qualche giorno fa l’Italia ha sottoscritto in sede di G20 un impegno se possibile ancora più naïf circa la triplicazione della produzione di energia da fonti rinnovabili entro il 2030.

La domanda allora nasce spontanea: come mai i parlamentari europei non si sono accorti di tutte queste discrepanze tra le varie direttive da essi stessi votate?

Le risposte possibili sono due: o essi non hanno la benché minima idea della reciproca congruità ed armonizzazione delle misure a loro sottoposte – e con essi anche tutti i loro consulenti tecnici – e quindi non hanno la benché minima idea di quello che votano, oppure essi stessi per primi non credono a tutti questi obiettivi irrealizzabili. Francamente, non so quale delle due risposte sia la più grave.

In conclusione, l’impressione che si ricava dall’osservazione del varo convulso e frettoloso di tutte queste misure incongruenti tra di loro è che il Parlamento europeo voglia far presto e approvare quante più misure possibili prima della scadenza della legislatura il prossimo anno. Delirio ideologico? Acquiescenza con le potentissime lobby green che imperversano a Bruxelles? Pagamento delle “cambiali elettorali” nei confronti dei loro sponsor? Ai posteri l’ardua sentenza.