Nell’ambito della cosiddetta “transizione green”, l’auto elettrica è quella che, a detta degli “esperti”, garantisce i rendimenti energetici più alti di tutta la categoria: quel 90 per cento sbandierato dai fan delle BEV (Battery Electric Vehicles) sbaraglia senza possibilità di replica i miseri rendimenti termodinamici delle auto a motore endotermico o ICE (Internal Combustion Engine), GPL, benzina e turbodiesel.
Eh sì, perché le prime e le seconde, quelle cioè che vanno con il tanto vituperato ciclo Otto, riescono a malapena a raggiungere il 25-30 per cento di rendimento termodinamico e le seconde arrancano a non più del 30-35 per cento, toccando il 40 per cento in condizioni realmente ottimali. Messa così sembrerebbe proprio che non vi sia storia: davanti a questi numeri, quale pazzo infatti potrebbe mai continuare testardamente a preferire le auto ICE rispetto alle BEV? Game, set e match, verrebbe proprio da dire!
Ma forse le cose non stanno proprio così, e allora armiamoci della nostra solita pazienza e richiamiamo la proverbiale serva ad aiutarci a fare due conti su come stanno effettivamente le cose. Seguitemi in questo excursus, ne vedrete delle belle!
La produzione di energia elettrica
Per calcolare i veri rendimenti di un’auto BEV partiamo dalle origini, e cioè dalla produzione del loro “carburante”: l’energia elettrica. In Italia, la produzione di energia elettrica è affidata a un mix di tecnologie di vario tipo, le principali delle quali sono:
• Centrali termoelettriche a carbone
• Centrali termoelettriche a gas
• Centrali termoelettriche a olio combustibile e suoi derivati
• Centrali termoelettriche a biomassa
• Centrali idroelettriche
• Parchi eolici
• Parchi fotovoltaici
Le prime tre sono non rinnovabili, bruciano cioè combustibili di origine fossile – rispettivamente carbone, gas naturale e olio combustibile e suoi derivati – convertendo una frazione dell’energia termica sviluppata in energia elettrica secondo il proprio ciclo termodinamico e rendimento associato; le successive quattro sono invece rinnovabili, utilizzano cioè fonti che, direttamente o indirettamente, derivano dalla radiazione solare che giunge sulla Terra.
A questi sette tipi principali di produzione si sommano poi altri piccolissimi contributi da parte di sistemi, per lo più sperimentali, tra cui citiamo, ad esempio, le turbine sottomarine che sfruttano le correnti dello Stretto di Messina e i soffioni boraciferi di Larderello, i cui valori di energia sul totale del fabbisogno nazionale sono tuttavia del tutto trascurabili. Completa infine il fabbisogno una certa quota di energia elettrica acquistata all’estero – Francia e Svizzera prevalentemente – per lo più da centrali nucleari.
Il rendimento della produzione di energia
Una volta elencate le tecnologie di produzione dell’energia elettrica dobbiamo adesso calcolare i rendimenti associati a ciascuna di esse. Tuttavia, se per le tecnologie rinnovabili ci limitassimo a calcolare il rendimento nudo e crudo come mera frazione dell’energia catturata dalla fonte primaria e trasformata in energia elettrica, questo approccio sarebbe per loro troppo penalizzante. Infatti, prendendo ad esempio un impianto fotovoltaico, sappiamo che esso a malapena riesce a catturare il 20 per cento della radiazione solare incidente. Stessa cosa per l’eolico che, in condizioni ottimali, è in grado di catturare non più del 40-42 per cento dell’energia associata alla corrente d’aria che investe il rotore della turbina.
Non ci resta allora che cambiare completamente prospettiva: seguitemi nel mio ragionamento.
Impianti a energia rinnovabile – Per la stima dei rendimenti dei vari sistemi di generazione a fonti rinnovabili, partiamo dall’assunto secondo il quale ciò che è prodotto da questi sistemi è tutto “grasso che cola” indipendentemente dal rendimento di trasformazione del particolare impianto rispetto alla sua specifica fonte rinnovabile in questione. Consideriamo cioè il rendimento delle fonti rinnovabili come convenzionalmente pari al 100 per cento, il che equivale a dire che tutto ciò che riusciamo ad avere è tutto guadagnato o, come si sente spesso dire in giro, “l’acqua, il sole e il vento sono gratis”.
L’unica cosa che, nell’ottica generale della cosiddetta “transizione green” – che è peraltro l’unico motivo “etico” in ossequio al quale occorrerebbe utilizzare le auto BEV al posto delle ICE – dovremo premurarci di fare sarà quella di decurtare idealmente, dal totale dell’energia che l’impianto produrrà durante tutta la sua vita, la parte che è stata spesa per costruire l’impianto stesso la quale, ovviamente, servirà a “ripagare” proprio quell’energia.
In buona sostanza, ci apprestiamo a definire come “rendimento” di un impianto ad energia rinnovabile non già quello legato alle particolari modalità di cattura dell’energia dalla sua fonte bensì quanta energia l’impianto riuscirà a “regalarci” in più rispetto a quella necessaria per costruirlo.
Per fare questo calcolo ci viene in aiuto il concetto di EROEI (Energy Return On Energy Invested). Questo numero esprime infatti il rapporto tra l’energia totale che verrà prodotta da quell’impianto lungo tutta la sua vita e quella che è stato necessario spendere al tempo “0” per costruire quell’impianto. Si tratta quindi di un numero maggiore di 1 il cui inverso – minore di 1 – ci dà la misura di quanta parte dell’energia che verrà prodotta dovrà essere idealmente “accantonata” per ripagare quella necessaria a costruirlo. In altre parole, il fattore:
ⴄeq = 1 – EROEI-1
ci darà il rendimento equivalente di quella fonte rinnovabile nell’accezione che abbiamo testé definito. In letteratura sono tabulati i vari valori di EROEI per ogni fonte rinnovabile.
Impianti a energia non rinnovabile – L’approccio definito per le tecnologie rinnovabili può in teoria estendersi anche a quelle non rinnovabili. Tuttavia, queste operano nell’arco della loro lunga vita sull’utilizzo (combustione) di flussi pressoché incalcolabili di combustibili fossili – la vita di una centrale termoelettrica può infatti arrivare anche ai 100 anni (si veda a tal proposito la gloriosa centrale di Porto Marghera) – così che l’energia che è servita al tempo “0” per costruire la centrale finisce con l’essere solo una frazione infinitesimale di tutta l’energia bruciata nell’arco della vita della centrale stessa. Pertanto, per gli impianti che utilizzano energia non rinnovabile, il rendimento di conversione così come l’abbiamo definito nell’accezione precedente finisce col coincidere sostanzialmente con quello termodinamico tipico di ciascuna tipologia di centrale termoelettrica.
Una volta fatta chiarezza sull’approccio di base, vediamo adesso i rendimenti delle singole fonti elencate nel paragrafo precedente.
- Centrali termoelettriche a carbone – Il rendimento termodinamico di una centrale termoelettrica a carbone vale all’incirca il 45 per cento. In altre parole, il 45 per cento dell’energia termica sviluppata dalla combustione del carbone in caldaia viene convertito in energia elettrica.
- Centrali termoelettriche a gas – Il rendimento termodinamico di una centrale termoelettrica turbogas si aggira intorno al 65 percento. In altre parole, il 65 per cento dell’energia termica sviluppata dalla combustione del gas in caldaia viene convertito in energia elettrica.
- Centrali termoelettriche a olio combustibile e suoi derivati – Il rendimento termodinamico di una centrale termoelettrica a olio combustibile si aggira intorno al 40 per cento, un po’ più basso di quello delle centrali a carbone.
- Centrali termoelettriche a biomassa – Essendo la biomassa una fonte rinnovabile, in ossequio a quanto enunciato in precedenza, utilizziamo per essa il concetto di EROEI. Una centrale a biomassa ha un EROEI che si aggira nell’intorno di 3 – 5. Mettendoci nel punto medio 4, avremo un rendimento equivalente del 75 per cento (1 – 1/4 = 0,75 = 75 per cento).
- Centrali idroelettriche – Una centrale idroelettrica ha un EROEI decisamente migliore di una a biomassa e vale all’incirca 50. Il rendimento equivalente sarà quindi del 98 per cento (1 – 1/50 = 0,98 = 98 percento).
- Parchi eolici – Una turbina eolica singola ha, in condizioni ottimali, un EROEI = 20 che porta a un rendimento equivalente del 95 per cento (1 – 1/20 = 0,95 = 95 per cento). Tuttavia, in un parco eolico c’è sempre una reciproca interferenza tra le varie turbine a causa del cosiddetto “effetto scia” che fa perdere una certa quantità di energia producibile. Questo fenomeno è pressoché ineliminabile, soprattutto nei parchi eolici in cui le turbine siano distanziate l’una dall’altra a meno di 5 diametri di rotore, e vale mediamente all’incirca il 5 per cento della somma delle energie teoricamente producibili dalle singole turbine (rendimento quindi pari al 95 per cento). Inoltre, un altro fattore significativo è il fattore di disponibilità delle turbine che, nelle condizioni ottimali di manutenzione, si attesta intorno al 96 percento. Il rendimento complessivo di un parco eolico sarà pertanto il prodotto di questi tre rendimenti, e cioè 87 per cento (0,95 ∙ 0,95 ∙ 0,96 = 0,87 = 87 per cento).
- Parchi fotovoltaici – Abbiamo visto tempo fa che un singolo pannello fotovoltaico al silicio monocristallino ha un EROEI = 1,95 che porta a un rendimento equivalente del 49 per cento (1 – 1/1,95 = 0,49 = 49 per cento). Tuttavia, un parco fotovoltaico è soggetto a quattro ulteriori fattori di perdita di energia:
• Perdite per effetto “shadowing”, quando cioè uno o più pannelli e/o oggetti esterni fanno ombra sugli altri pannelli (circa il 2 – 5 per cento);
• Perdite di accoppiamento tra le varie stringhe di pannelli (circa 3-4 per cento);
• Perdite nella circuiteria in corrente continua (1-2 per cento);
• Perdite negli inverter DC/AC (4 – 6 per cento).
Pertanto, il rendimento complessivo di un parco fotovoltaico sarà il prodotto di questi cinque rendimenti. Mettendoci nel punto medio di ciascun intervallo, avremo quindi un rendimento complessivo del 43 per cento (0,49 ∙ 0,965 ∙ 0,965 ∙ 0,985 ∙ 0,95 = 0,43 = 43 per cento).
Il mix energetico nazionale
Una volta analizzati i rendimenti delle singole fonti di produzione di energia elettrica, vediamo adesso come esse si compongono nel mix energetico nazionale. I dati del GSE in merito ci dicono che il nostro “fuel mix” nel 2022 è stato di:
• Carbone: 9,43 per cento
• Gas: 46,92 per cento
• Olio combustibile e suoi derivati: 6,81 per cento
• Rinnovabili: 36,84 per cento, di cui:
o Biomasse: 8,31 per cento
o Idroelettrico: 13,57 per cento
o Eolico: 10,13 per cento
o Fotovoltaico: 4,83 per cento
Dai dati precedenti possiamo quindi calcolare la media pesata del fuel mix, ottenendo così il rendimento equivalente di produzione di energia elettrica in Italia:
ⴄprod = 0,45∙0,0943+0,65∙0,4692+0,40∙0,0681+0,75∙0,0831+0,98∙0,1357+0,87∙0,1013+0,43∙0,0483
Cioè:
ⴄprod = 67,9%
Questo valore ci dice che il rendimento medio di generazione di energia elettrica ai vari punti di produzione è il 67,9 per cento dell’energia delle fonti primarie.
Dalla produzione alle colonnine
Una volta prodotta, l’energia elettrica viaggia attraverso i cosiddetti “elettrodotti” in alta tensione (150-220 kV) che la trasportano lungo le linee dorsali principali che attraversano la Penisola in lungo e in largo. A questi si affiancano i cavi sottomarini che collegano le isole – Sicilia e Sardegna – al continente. Il tutto forma una rete di distribuzione in alta tensione dalla quale si diramano una miriade di stazioni di trasformazione AT/MT (150-220 kV / 15 – 20 kV), nelle quali il valore della tensione viene ridotto appunto a 15 – 20 kV, da ciascuna delle quali si diramano a loro volta i cavi in media tensione che distribuiscono l’energia elettrica a livello territoriale. Il sistema di distribuzione viene infine completato dalle cabine di trasformazione MT/BT (15-20 kV / 380 – 220 V) nelle quali la tensione viene infine ridotta al valore adottato da tutti gli utilizzatori finali a noi familiari.
L’energia elettrica fa quindi un lungo viaggio prima di arrivare a noi, un viaggio che può essere anche di centinaia di chilometri. Lo scotto da pagare per questa mirabile e capillare distribuzione – del tutto simile al sistema di arterie, vene e capillari che distribuiscono il sangue all’interno del nostro organismo – sono purtroppo le perdite di energia elettrica sotto forma di calore (il cosiddetto “effetto Joule”) lungo i cavi di distribuzione (quelle stesse perdite che paghiamo in bolletta alla voce “perdite di rete”), nonché le perdite sotto forma di calore nei trasformatori AT/MT e MT/BT.
Mediamente, le perdite complessive di energia elettrica nel sistema di distribuzione si aggirano intorno al 2 per cento lungo la tratta in alta tensione, 4 per cento lungo quella in media tensione e 10 per cento lungo quella in bassa tensione. In totale quindi, le perdite di rete valgono circa il 16 per cento dell’energia trasportata. In altre parole, il rendimento di trasporto dell’energia elettrica vale:
ⴄtr = 1 – 0,16 = 0,84 = 84 per cento
Questo vale ovviamente per ogni possibile utilizzo dell’energia elettrica, compresa la ricarica della batteria di un’auto elettrica.
Per tutto quanto visto finora, pertanto, il rendimento alla colonnina di ricarica sarà pari al rendimento di produzione moltiplicato per il rendimento di trasmissione precedentemente calcolati:
ⴄcol = ⴄprod ∙ ⴄtr = 0,679 ∙ 0,84 = 0,57 = 57 per cento
Ma il conto delle perdite di un’auto elettrica non finisce qui. Occorre infatti considerare ancora quattro fattori:
• Perdite di energia nel ciclo di carica/scarica della batteria di bordo;
• Energia necessaria per costruire la batteria, in parte compensata dal minor dispendio di energia per la costruzione di un’auto BEV rispetto a un’analoga ICE (30 perc ento in meno di componenti);
• Rendimento del gruppo motore elettrico + azionamento;
• Maggiori perdite di energia meccanica per attrito volvente di un’auto BEV rispetto a un’analoga auto ICE dovute al maggior peso dell’auto causato dal peso della batteria.
Perdite nel ciclo di carica/scarica della batteria
In una batteria agli ioni di litio, il rendimento in un ciclo di carica/scarica, cioè il rapporto tra l’energia estraibile dalla batteria carica e l’energia somministrata per caricarla vale all’incirca il 90 per cento, comprendente anche il rendimento dell’elettronica di carica e scarica.
Il numero massimo di cicli di carica/scarica di una batteria agli ioni di litio, cioè il numero di cicli che, con il loro inevitabile degrado elettrochimico, causano la progressiva riduzione della capacità della batteria fino a giungere all’80 per cento del suo valore iniziale (soglia inferiore che è considerata nell’industria automobilistica quella di vita della batteria) è all’incirca 2.000, valore dichiarato per le batterie di ultima generazione.
Energia necessaria per costruire la batteria
Abbiamo visto tempo fa che la costruzione di una batteria agli ioni di litio, l’elemento fondamentale delle BEV che è poi anche l’elemento che differenzia in maniera sostanziale un’auto BEV da una ICE, richiede una grande quantità di energia, all’incirca 1.300 kWh per ogni kWh di capacità della batteria.
Il minor dispendio di energia per la costruzione di un’auto BEV dovuto alla minore componentistica di bordo vale invece all’incirca 15 MWh per un’auto del segmento “C”. Immaginando di spalmare questo risparmio di energia sulla batteria (nell’ipotesi che essa abbia una capacità di 50 kWh), si ha un risparmio di 15.000 / 50 = 300 kWh per ogni kWh di capacità della batteria. Il bilancio porta quindi a un aggravio finale di circa 1.000 kWh per ogni kWh di capacità della batteria.
Adottando il medesimo approccio già utilizzato per valutare il rendimento delle tecnologie rinnovabili, per “ripagare” questa energia dovremo immaginare di spalmarla sul numero di cicli di vita della batteria. Avremo quindi un “accantonamento” di energia, e quindi una perdita equivalente, di 1.000 / 2.000 = 0,50 kWh per ogni kWh caricato. In altre parole, per l’auto elettrica occorrerà considerare una perdita equivalente del 50 per cento di energia, cioè un rendimento equivalente del 50 per cento.
Rendimento del gruppo motore + azionamento
L’elemento di forza della trazione elettrica è rappresentato senza dubbio dal rendimento del gruppo motore + azionamento che, nelle condizioni ottimali di coppia e di potenza erogata, può raggiungere anche il 96 per cento.
Perdite per maggiore attrito meccanico
Poiché un’auto BEV è più pesante dell’analoga auto ICE, essa sarà soggetta a maggiori perdite di energia per attrito volvente. Infatti, mentre la componente di energia meccanica resistente legata alla viscosità dell’aria è invariante rispetto al tipo di motore, dipendendo solo dalla forma e dal coefficiente aerodinamico (Cx) dell’auto (nonché dalla velocità al cubo e dal tempo di percorrenza), quella legata all’attrito volvente aumenta all’aumentare del peso della vettura.
Per fare questo calcolo, riferiamoci a un’auto che abbia una batteria a bordo che pesi 300 kg: è il caso, ad esempio, di molte auto del segmento “C”. Supponendo che l’analoga versione ICE abbia un serbatoio di 50 litri, la differenza di peso tra le due auto varierà nell’intervallo tra i 250 e i 300 kg, rispettivamente a serbatoio pieno e vuoto dell’auto ICE. Riferendoci alla situazione di serbatoio pieno a metà, potremo quindi supporre che la differenza media di peso sia pari a 275 kg. Se quindi l’auto ICE pesa mediamente 1.600 kg, quella BEV peserà mediamente 1.875 kg.
La componente di attrito volvente è direttamente proporzionale al peso della vettura e al coefficiente di attrito volvente. Di conseguenza, la componente di energia meccanica resistente dipenderà dal prodotto di questi due fattori per la velocità della vettura e per il tempo di percorrenza:
Eres = μv ∙ m ∙ g ∙ v ∙ T
Dove:
Eres: energia meccanica resistente dovuta all’attrito volvente;
μv: attrito volvente, tipicamente pari a 0,015;
m: massa dell’auto, 1.600 e 1.875 kg, rispettivamente per l’auto a motore endotermico e la BEV.
g: accelerazione di gravità (9,81 m/s2)
v: velocità dell’auto (in m/s)
T: tempo di percorrenza (in secondi).
Le due energie meccaniche resistenti legate al solo attrito volvente saranno:
EICEres = μv ∙ mICE ∙ g ∙ v ∙ T
EBEVres = μv ∙ mBEV ∙ g ∙ v ∙ T
La differenza di energia meccanica resistente sarà quindi:
∆Emres = μv ∙ (mBEV – mICE) ∙ g ∙ v ∙ T
Che equivarrà a una perdita percentuale di energia rispetto all’auto ICE pari a:
∆Emres / EICEres = (mBEV – mICE) / mICE
La maggiore perdita per attrito volvente dell’auto BEV dipenderà cioè percentualmente unicamente dall’incremento di massa rapportato a quella dell’auto ICE.
Con i numeri indicati nell’esempio, avremo una perdita di:
∆Emres / EICEres = (1.875 – 1.600) / 1.600 = 0,172 = 17,2 percento.
In un’auto del segmento “C” che viaggia alla velocità di crociera nell’intervallo 60 – 120 km/h, le perdite di energia per attrito volvente rappresentano rispettivamente il 67 e il 34 per cento del totale delle perdite.
Mettendoci come sempre al centro dell’intervallo, possiamo affermare che, mediamente, le perdite per attrito volvente rappresentano, per la quasi totalità dei casi, il 50 per cento delle perdite totali.
In altre parole, lo svantaggio del maggior peso di un’auto BEV rispetto a una ICE si traduce in una maggiore perdita di energia pari alla metà di quel 17,2 per cento calcolato più sopra, cioè dell’8,6 per cento, con un rendimento equivalente pari a:
100 – 8,6 = 91,4 per cento.
Tiriamo le somme
Tenendo conto di tutte le considerazioni fatte finora, il rendimento complessivo di un’auto elettrica “plant to wheel” varrà in definitiva:
ⴄtot = 0,57 ∙ 0,90 ∙ 0,50 ∙ 0,96 ∙ 0,914 = 0,225 = 22,5 per cento
Scopriamo così che il vero rendimento di un’auto elettrica è persino inferiore a quello di un’auto a benzina con motore aspirato, per intenderci, il tanto famigerato ciclo Otto.
Sbalorditi? Alla luce di questo risultato sconvolgente siete ancora disposti a fare della facile ironia sui rendimenti delle auto a motore endotermico? Chi avrà segnato in realtà il match point?