Economia

Ecco come alzare i salari: meno tasse e contrattazione collettiva

Salario minimo con la paghetta di Stato? La ricetta della sinistra è populista e contro ogni principio economico. A pagare il conto sarebbero comunque i lavoratori

Elly Schlein e salario minimo

L’art. 36 della Costituzione stabilisce il diritto di ogni lavoratore “ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa”. Salario minimo: si / no / non so. Questa pare essere oggi la risposta al provvedimento chiesto a gran voce dalle sinistre.

Di cosa si tratta? Del diritto ad avere garantito un salario minimo, al di sotto del quale non è possibile scendere. Ma nonostante sia evocato dalla Carta costituzionale, dal punto di vista economico non è possibile individuare una cifra esatta.

I contratti collettivi

La Costituzione afferma due principi generali, quelli di sufficienza e proporzionalità. Ma la scelta di non stabilire espressamente per legge un salario minimo fu fatta per non ostacolare l’iniziativa sindacale. Che, lo ricordiamo, è sempre stato oggetto di trattativa tra sindacati e aziende.

Ricordiamolo: i contratti collettivi stipulati in base all’art. 39, vale a dire dalle organizzazioni sindacali  riconosciute e quindi dotate di personalità giuridica, avrebbero dovuto estendere questo “diritto” a tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto stesso si riferisce.

Ma così non fu. E ciò aprì il problema dei tanti lavoratori che non ebbero il beneficio dell’applicazione di un contratto collettivo in quanto il datore di lavoro, non affiliato ad alcuna associazione, non era giuridicamente tenuto alla sua applicazione.

La giurisprudenza, tuttavia, ha colmato questo vuoto legislativo, perché nel caso della mancanza di una retribuzione pattuita dalle parti, è il giudice che la determina in esecuzione dell’art. 2099 del codice civile, ricavandola proprio dai minimi tabellari di cui ai contratti collettivi.

Retribuzioni basse

Torna in auge, in questi giorni, il tema di un salario minimo da definire una volta per tutte. Questione già affrontata dal governo Renzi con il jobs act, ma in modo insufficiente e a scadenza.

Nel grande svantaggio di non avere sin qui introdotto un salario minimo abbiamo il vantaggio di poter guardare all’esperienza degli altri Paesi. Ed è infatti osservando i partner europei che possiamo meglio comprendere e (poi) proporre azioni concrete e obiettive.

Affrontare il problema si rende urgente e necessario perché esiste una quota consistente di lavoratori che ha stipendi molto bassi, se non addirittura da fame. Ma occorre anche capire la ricaduta economica per aziende e famiglie. Non dimentichiamoci che parlare di 9€ l’ora nette significa parlare di 18€ lorde (come minimo) ed ecco che, allora, ciò diventa un impedimento all’occupazione.

L’opzione praticabile potrebbe essere quella di sgravi fiscali, detassazione del salario accessorio come tredicesime, straordinari, lavoro notturno e festivo. Ma l’obiettivo è affrontare il tema con un approccio sistemico globale al mercato del lavoro, in modo da contrastare i contratti pirata, che retribuiscono il lavoratore in misura inaccettabile.

La ricetta populista della sinistra

Pensare che per arrivare a garantire i 9€ l’ora debba intervenire lo Stato per 2€, come propone la sinistra di Conte e Pd, è quantomeno populista e contro ogni principio economico. Oltremodo, permetterebbe un uso distorto e disincentivante degli aumenti salariali, che costerebbe allo Stato italiano miliardi di euro.

Chi urla al sostegno dei lavoratori più deboli con questa propaganda sa bene che non è la giusta misura da proporre. Serve altro. Siamo tutti d’accordo che bisogna pagare meglio i lavoratori. O no? Chi è che vorrebbe il contrario? Ma il problema è trovare il modo, la strada giusta.

La proposta di intervento grazie ad un fondo pubblico in Legge di Bilancio è come dire a chi guadagna poco che prenderà un po’ di più se aumenteranno le tasse agli altri. E non si fanno le riforme sulla pelle e le tasche dei lavoratori e delle famiglie aumentando le tasse. Perché le tasse vanno abbassate. Come? Ad esempio detassando come già detto il salario accessorio e gli utili aziendali (perché no?) distribuiti ai lavoratori.

L’idea di far partecipare i lavoratori ai guadagni sarebbe un incentivo per tutti, in primis al valore del lavoro stesso, e di quel rapporto azienda-forza lavoro, più che mai imprescindibile, e se su questi utili non paghi le tasse, di fatto offri un aumento sostanziale.

Ma tutto ciò non piace ai populisti, che sbandierano il salario minimo come sempre con uno slogan che (indubbiamente) va a colpire il cuore di chi è ancora sotto la soglia del salario degno di un lavoratore, ma si guardano bene dallo spiegare che i conti poi li pagano tutti i contribuenti.

Facile così, no? Per loro sì, ma se vogliamo davvero affrontare in maniera seria la questione salari, gli strumenti sono due: contrattazione collettiva e riduzione delle tasse. Non sarà populista, non parlerà alla pancia dei lavoratori a basso salario, ma è l’unica via possibile.

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