Nell’ultimo anno abbiamo assistito ad una pressoché continua accelerazione dell’inflazione su entrambe le sponde dell’Atlantico. Una fiammata dei prezzi che ha molteplici cause, tra le quali un ruolo più che rilevante lo hanno avuto le politiche di espansione monetaria e di deficit spending, a cui possiamo aggiungere politiche di transizione ecologica fortemente ideologiche e strutturalmente inflazionistiche, molteplici rotture delle catene di approvvigionamento nonché, da ultime in ordine cronologico, le tensioni sui prezzi energetici ed alimentari scatenate dalla guerra in Ucraina.
Le risposte diverse di Fed e Bce
Dinanzi ad aumenti dei prezzi inediti negli ultimi quarant’anni, le banche centrali dell’Unione europea e degli Stati Uniti stanno fornendo risposte assai diverse, che inevitabilmente daranno vita a diverse curvature dei prezzi. Mentre la Fed ha deciso di intervenire con determinazione sia sul fronte dei tassi che su quello del quantitative easing, la Bce si è limitata, per ora, a un flebile balbettio. E, prevedibilmente, nei prossimi mesi il comportamento dei prezzi comincerà a divergere.
Il problema, peraltro, non risiede solo nelle diverse risposte fin qui fornite al rincaro della vita, ma anche nelle condizioni “di contesto” entro cui le manovre restrittive verranno realizzate. Difatti, la Fed ha inviato chiari segnali di come sia disposta ad accettare i potenziali effetti avversi delle proprie decisioni, non lasciandosi intimorire ma anzi quasi dando il benvenuto alla significativa correzione di borsa che ha accompagnato la propria svolta monetaria. Insomma, la Federal Reserve ha detto chiaro e forte che è ben consapevole di come un aumento dei tassi e lo stop alle operazioni di acquisto su vasta scala di asset comportino una diminuzione dei prezzi delle azioni. E, alla prova dei fatti, ha dimostrato di saper andare dritta per la sua strada.
Bce ostaggio di interessi nazionali incompatibili
Sarebbe invece arduo dire lo stesso di una Bce ostaggio di interessi nazionali tra loro incompatibili, coi Paesi del Sud condizionati da debiti pubblici colossali, e Paesi del Nord che invece non sono disposti (almeno non tanto quanto il Club Med) a scaricare il costo di tanta prodigalità pubblica su patrimoniali contrabbandate sotto falso nome (leggasi: inflazione). E uno scetticismo affine anima di certo anche i mercati, che potrebbero rivelarsi piuttosto diffidenti rispetto alla possibilità che la Bce, qualora dovesse trovarsi dinanzi a reazioni “robuste” da parte degli stessi mercati o a un periodo di contrazione economica, possa fare dietrofront e ricominciare a stampare moneta a ruota libera.
Le politiche fiscali
C’è, poi, un ulteriore problema. Per essere maggiormente credibili, le manovre restrittive di politica monetaria dovrebbero essere accompagnate da riduzioni del deficit, così da inviare il messaggio che non ci sarà bisogno di una precipitosa correzione di rotta volta a evitare tempeste finanziarie sui debiti pubblici, con collegato aumento dei tassi di interesse sul debito. Sebbene in questo caso la posizione degli Stati Uniti non sia particolarmente solida, di certo i mercati sono assai più preoccupati da un’Europa del Sud oberata da debiti imponenti e con potenziali di crescita economica ben più rachitici di quelli Usa.
In conclusione, se i governi nazionali non accompagneranno la Bce con manovre correttive di bilancio, tagliando la spesa e le tasse, ci sono buone probabilità che l’inflazione continuerà a flagellarci ben più a lungo di quanto ci si possa augurare.