Economia

Extraprofitti, ecco perché è un autogol: politico, giuridico, economico

Intaccata la percezione positiva dei mercati e contraddetti i principi di “fisco amico” affermati nella delega fiscale. Innocente cedimento estivo o sbandata più grave?

Conferenza stampa al termine del Consiglio dei ministri n. 47

Come temevamo con la convocazione dell’ultimo Consiglio dei ministri prima della pausa agostana, il governo Meloni conclude la sua prima stagione lasciando un diffuso senso di amarezza per il carattere demagogico e statalista di diverse sue misure, tra cui una improvvisa (e improvvida) tassazione sugli extra-profitti delle banche.

Speravamo che la stagione della tassazione dei c.d. extra-profitti fosse stata archiviata con il voto dello scorso settembre, che ha dato un’ampia maggioranza alla coalizione di centrodestra. Ritenevamo ingenuamente che questo genere di misura appartenessero allo strumentario concettuale del Movimento 5 Stelle e del Pd, e non anche di una coalizione che tra i suoi slogan elettorali ha sempre presente la rivendicazione di non ostacolare chi vuole fare impresa e di realizzare un “fisco amico”.

Le opposizioni esultano

Peraltro, vi è un primo elemento nelle reazioni registrate dalla comunicazione della misura che potrebbe indurre ad una più meditata riflessione: hanno sostanzialmente espresso condivisione i partiti di opposizione, i quali hanno anzi sottolineato di avere proposto tale misura da mesi e criticato (giustamente dal loro punto di vista) la tardività del provvedimento. Hanno reagito violentemente i mercati finanziari registrando forti perdite.

A prescindere da ogni altra considerazione, se i tuoi avversari esultano e i tuoi possibili riferimenti sociali disapprovano, forse la scelta compiuta non è delle migliori. Perlomeno, varrebbe la pena porsi il problema.

Mercati spiazzati

Entrando nel merito della misura, vi è un primo elemento critico che va evidenziato: essa determina l’inversione del sentimento di mercato che potrà essere attribuito causalmente all’operato del governo Meloni.

Non sorprende, al riguardo, che il responsabile della strategia multi-asset globale di JP Morgan Chase Bank, John Bilton, abbia dichiarato a Bloomberg Tv che la misura solleva preoccupazione “sulle motivazioni della politica economica italiana”, aggiungendo che “questo ovviamente indurrà gli investitori a fare una pausa di riflessione quando si tratta di valutare il rischio sul debito italiano rispetto a quello tedesco”.

Ciò sembra paradossale, poiché, fino a poche settimane fa, le forze di maggioranza e il presidente del Consiglio rivendicavano, con giusto orgoglio, la bontà della loro azione di governo anche in virtù dei positivi risultati borsistici.

Si sosteneva che non c’era stato il temuto crollo dei mercati per una presunta inaffidabilità del governo e, anzi, la Borsa era salita parecchio, ottenendo nel 2023 la migliore perfomance continentale (e una delle migliori a livello mondiale) e ritoccando con il suo indice principale, appena un paio di settimane fa, quota 29.000 punti: un livello che mancava dal 2008. E tutto faceva pensare che, dopo una fisiologica presa di posizione, l’indice potesse di slancio superare quota 30.000 punti. Tutto questo è svanito in un batter d’occhio.

Ovviamente il problema non è il pesante ribasso subito dai titoli bancari, ma, per l’appunto, la diversa percezione che ora hanno i mercati del governo italiano, dimostratosi inaffidabile e stupidamente ostile nei confronti delle logiche di mercato.

Decennio perduto

Difatti, l’idea stessa di tassare gli extra-profitti denota una latente diffidenza verso il mercato e le sue dinamiche, nonché un certo populismo demagogico. Basti pensare che l’individuazione di un extra-profitto richiede necessariamente una strumentale selezione temporale. Infatti, per definire un qualsiasi profitto come extra è comunque necessario fare riferimento ad un precedente riferimento temporale, ma ciò può condurre a risultati significativamente diversi.

Ad esempio, nel caso delle banche, si registra un elevato incremento dei profitti nell’ultimo anno con riferimento al precedente che era contraddistinto da tassi tenuti arbitrariamente troppo bassi, essendo pari allo zero o addirittura negativi. Se si allarga il riferimento temporale, ad esempio, assumendo l’ultimo decennio, noteremmo che le banche europee, e soprattutto italiane, hanno avuto una scarsa redditività in virtù della politica monetaria espansiva della Bce e di stringenti requisiti di capitale richiesti dall’Eba.

Ciò ha comportato che gli azionisti delle banche hanno subito restrittive politiche remunerative del loro investimento, culminate nel biennio pandemico con il divieto di distribuzione di dividendi per assicurare la solidità degli istituti. Quindi se si amplia il riferimento temporale, assistiamo ad una modesta redditività delle banche con una robusta ripresa solo nell’ultimo anno che certo non consente il recupero di questo decennio perduto.

Certezza del diritto

Un altro elemento da considerare è l’affidamento degli investitori sulla base dei dati finanziari che sono periodicamente comunicati dalle società quotate. Non si può escludere, infatti, che la comunicazione dei brillanti risultati finanziari degli ultimi trimestri abbiano indotto molti investitori, anche piccoli investitori, a esporsi sui titoli bancari per l’attesa di importanti ritorni sotto forma sia di rialzo dei titoli sia di distribuzione di dividendi. Anche perché in un mercato finanziario maturo ci si immagina che non intervenga a sorpresa una tassazione straordinaria con efficacia retroattiva solo perché un settore va bene, dopo avere molto sofferto.

E sinceramente stupisce che di ciò non abbiano consapevolezza delle forze politiche che, appena qualche giorno fa, hanno approvato una importante legge delega di riforma fiscale che, tra l’altro, prevede tra i suoi criteri direttivi la valorizzazione del principio di legittimo affidamento e del principio di certezza del diritto (art. 4, co. 1, lett. b) del disegno di legge delega approvato definitivamente e in attesa di pubblicazione).

Crediamo sia retorico chiedersi se una misura fiscale così dirimente (si parla di un impatto stimato dai 3 ai 10 miliardi di euro: l’ampiezza della forchetta dipende dal fatto che ancora non è noto il testo normativo) sia conforme al principio di affidamento del contribuente (ma anche dell’azionista) e di certezza del diritto.

Le finalità “sociali”

Infine, non convincono le dichiarate finalità sociali della nuova tassa. Si dichiara che i proventi dovrebbero confluire su un fondo per coloro che soffrono l’impennata dei mutui a tasso variabile e per la copertura del prossimo taglio dell’Irpef. Con riferimento alla finalità di copertura, è evidente che una misura una tantum non può essere una copertura sufficiente e durevole di uno strutturale taglio di tasse, ma anche sul piano concettuale appare surreale volere coprire una riduzione fiscale con una nuova tassa.

Se si vuole seriamente percorrere la strada della riduzione fiscale, come il governo dichiara di volere fare (e come noi speriamo faccia davvero) si deve porre necessariamente il problema della riduzione della spesa pubblica, senza la quale nessuna effettiva contrazione complessiva del carico fiscale sarà sostenibile.

Il tema della riduzione della spesa pubblica pone anche l’altro profilo della finalità sociale della tassa, facendo riferimento alla sostanziale giustizia sociale di una spesa assistenziale. Al riguardo, senza nessuna rigidità dogmatica, se appare socialmente giusto che uno Stato si faccia carico di chi è incapace di provvedere a sé stesso, non appare altrettanto il fatto che lo Stato debba coprire le scelte finanziarie sbagliate di chi è stato incauto quando non troppo avido.

Mutui a tassi variabili

Come dicevamo, abbiamo vissuto un decennio di tassi straordinariamente bassi, con addirittura un periodo di tassi negativi. Chiunque abbia dunque contratto un mutuo in questo arco temporale aveva la consapevolezza che i tassi nel medio-lungo periodo sarebbero potuti salire. Certo, è vero che nessuno poteva immaginare la violenta rapidità con cui questi sono saliti nell’ultimo anno, ma comunque i tassi non potevano che salire. Pertanto, sarebbe stato opportuno, come in realtà moltissimi hanno fatto, stipulare mutui a tasso fisso o surrogare il tasso variabile precedentemente contratto.

Non si capisce perché, adesso, coloro che hanno accettato di pagare una rata di mutuo un po’ più alta, scegliendo un tasso fisso durante la stagione di tassi di interesse bassi, debbano pure accollarsi le scelte sbagliate di chi si è preoccupato solo di avere la rata del mutuo più bassa anche quando poteva facilmente intuire che in futuro avrebbe pagato sempre di più.

In definitiva, non sembra necessario richiamare noti dibattiti dottrinali sul ruolo dello Stato in economia per affermare che comunque una corretta declinazione dell’intervento sociale non deve coprire anche le scelte individuali compiute per errati calcoli economici e finanziari. Altrimenti perché non ristoriamo coloro che aprono attività commerciali che falliscono o continuiamo a sussidiare chi non vuole lavorare?

Fine della luna di miele

Stupisce piuttosto che questa maggioranza che sembrava avere chiaro questo concetto, anche con la revisione del reddito di cittadinanza in un’ottica di maggiore giustizia sociale effettiva (appunto sostenere chi ha bisogno e non anche chi invece potrebbe benissimo compiere una qualsiasi attività lavorativa), finisca con riproporre misure che potevano benissimo far parte del programma elettorale dei suoi avversari.

Speriamo si sia trattata di una provvisoria concessione alla demagogia e venga corretta nel corso della conversione in legge, altrimenti temiamo che potrebbe essere l’inizio della fine della luna di miele del governo con i mercati e anche con l’opinione pubblica.

Infatti, questo genere di misura può avere un effetto benefico solo nell’immediato, ma nel medio tempo non risolve mai i problemi strutturali e comportano soverchianti effetti negativi, come una minore capitalizzazione delle banche (peraltro si osserva che ieri la banca più penalizzata è stata MPS di cui proprio il Tesoro è il principale azionista) e la migrazione di capitali verso altri lidi ritenuti più affidabili per gli affari.

D’altronde, se la Borsa italiana capitalizza oggi così poco non è solo colpa della normativa societaria, come forse qualcuno crede, ma perché l’ambiente complessivo non è propizio alle attività finanziarie e produttive, a cominciare dalla tassazione.

Questo governo ha già dichiarato di volere intervenire per rivitalizzare il mercato dei capitali al fine di veicolare una parte importante del risparmio italiano in favore dello sviluppo economico del Paese. La tassazione sugli extra-profitti, al di là delle buone intenzioni, va in tutt’altra direzione.

A settembre vedremo se è stato solo un innocente cedimento estivo al populismo demagogico o un preoccupante sbandamento dirigistico della maggioranza di governo. O in termini più politici, se Giorgia Meloni intende consolidarsi come leader di una forza/coalizione liberalconservatrice o farsi risucchiare in logiche economiche da destra sociale con probabile erosione del suo consenso. Non sarebbe la prima volta che analisi politiche sbagliate di un successo elettorale conducono al suo successivo tramonto.

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