La vittoria di Javier Milei alle elezioni presidenziali argentine dello scorso 19 novembre è stata salutata con molto favore dai mercati e offre buone aspettative rispetto a un concreto cambiamento nelle politiche economiche dei prossimi quattro anni.
Un’agenda radicale
Il futuro presidente, che entrerà in carica il 10 di dicembre, ha presentato agli elettori un’agenda estremamente ambiziosa – per certi versi utopica, ma non sta a noi deciderlo in anticipo – per risolvere la drammatica situazione economica che il Paese attraversa.
Con un tasso d’inflazione che sfiora il centocinquanta per cento e quello della povertà che registra il massimo storico da oltre 15 anni (39 per cento), che si ripercuotono nei severi giudizi delle agenzie di rating (CCC– per Standard & Poor’s, Ca per Moody’s), Milei dovrà sicuramente porre un grande impegno per inserire un radicale cambio di marcia, ed è indubbiamente il candidato più adatto allo scopo.
Certo, alcune delle sue proposte hanno dettato scalpore e sconcerto, anche tra i suoi sostenitori. Sarà possibile per lui abbandonare il peso argentino e sostituirlo con il dollaro americano, come ha detto di voler fare? Davvero l’Argentina dispone delle riserve valutarie e della disciplina fiscale adeguate per sostenere una simile scelta? E sarà in grado di far chiudere i battenti alla Banca centrale argentina, accusata di aver prodotto il disastro, in un tempo in cui tutti i maggiori esperimenti di finanza decentralizzata godono di scarsa fiducia e sembrano avere già mostrato la corda?
Un’opinione molto interessante sul punto, pubblicata sul Wall Street Journal a firma di Joseph C. Sternberg, sposta parzialmente il piano di lettura dall’agenda elettorale di Milei al sentiment generale dei cittadini, o almeno di quelli che hanno votato per l’economista libertario. Gli elettori non sanno se Milei riuscirà a “dollarizzare” l’Argentina, ma sanno di trovarsi nel mezzo di un pasticcio finanziario e sembrano essere a conoscenza del fatto che per venirne fuori qualcuno dovrà pagare.
La crisi greca
La stessa convinzione la ebbero i cittadini greci nel 2019, quando alle elezioni politiche bocciarono Alexis Tsipras e mandarono al governo Kyriakos Mitsotakis. La Grecia certamente aveva vissuto, nei dieci anni precedenti, una situazione di crisi profondamente differente, ma sia le cause che la soluzione di quella crisi non sembrano poi troppo diverse rispetto a quelle che sembrano vedersi oggi in Argentina, e coinvolgono appunto l’adozione di una valuta più forte e credibile per i mercati rispetto a quella di partenza.
Dopo l’adozione dell’euro nel 2001, che le permise di raggiungere la stabilità valutaria del marco tedesco, la Repubblica ellenica si trovò prima ad accogliere flussi entusiastici di investimenti e poi ad essere travolta dallo shock post-2008, che fece venire a galla i risultati della gestione irresponsabile dei conti pubblici da parte della sua classe politica. Per la Grecia furono creati (dalla famigerata Trojka) piani di salvataggio provvisti di condizionalità estremamente gravose, e tutti ricordiamo quella fase travagliata in cui tutta l’Europa fu trascinata.
I cittadini greci mal tollerarono le imposizioni di Bruxelles e di Washington, respinsero a maggioranza le richieste di riforme in un referendum popolare e mandarono al governo la coppia Tsipras-Varoufakis che prometteva espressamente il ritorno alla vecchia dracma per sfruttare un tasso di cambio più favorevole ed evitare tagli ai salari e repressione dei consumi interni.
Eppure, tutto questo rumore non portò assolutamente a nulla: non ci fu nessun ritorno alla dracma, la Grecia rimase nell’euro (Varoufakis invece andò a casa) e nonostante il mix di riforme richiesto dalla Trojka abbia portato ad esiti non proprio così positivi (si è mai vista una tassazione elevata in grado di generare crescita?) alla fine i mercati recuperarono un po’ di fiducia in Atene, perché in fin dei conti ciò che era necessario dimostrare era un impegno credibile per la crescita economica, e fintanto che quel piano poteva essere valutato come credibile dagli investitori nazionali e internazionali, questi lo avrebbero finanziato.
Gli elettori greci chiusero la parentesi del governo Tsipras capendo che quando l’economia va fuori rotta è chiaro che qualcuno deve pur pagare.
Oggi anche l’Argentina si trova a fare i conti con un elenco di medicine amare da assumere stilato dal Fondo monetario internazionale in cambio di sostanziosi prestiti (il debito di Buenos Aires con il Fmi, negoziato nel 2018 e rinegoziato nel 2022, ammonta già a 44 miliardi di dollari): si chiede di ridurre sensibilmente la spesa pubblica e di aumentare la pressione fiscale (un mix di ingredienti che poco hanno a che fare l’uno con l’altro, ma che viene riproposto ogni volta, sembra quasi più per ragioni di equilibrio politico che di vera efficienza economica).
Qualcuno dovrà pagare
L’inflazione in Argentina aiuta sicuramente qualche impresa pubblica decotta la cui unica utilità è fornire poltrone per gli amici del governo; a farne le spese sono però i risparmiatori e le energie più vibranti del tessuto economico. Il cuore della carta – se si vuole geniale – della proposta di “dollarizzazione” avanzata da Javier Milei, non è la “dollarizzazione” in sé, ma la promessa che a fare le spese degli errori della classe politica peronista corrotta sarà la classe politica peronista corrotta stessa.
Le grandi aziende di stato, i poltronifici pubblici e le varie sacche di inefficienza collegate agli apparati di governo sconteranno l’operazione di risanamento attraverso un estesissimo piano di privatizzazioni – che si rende per forza di cose necessario, volendo immaginare l’obiettivo dell’adozione del dollaro (ma anche se non lo si volesse immaginare) –, mentre i cittadini e le imprese smetteranno di vedersi soffocati dal peso (lato sensu) ormai insostenibile dell’inflazione, o direttamente del peso (stricto sensu, cioè la valuta).
Funzionerà? Be’, in Grecia qualcosa è successo. Proprio un mese fa il governo conservatore di Kyriakos Mitsotakis ha ottenuto un risultato storico: per la prima volta da oltre dieci anni Standard & Poor’s ha innalzato il rating di Atene da high yield (familiarmente junk) ad investment grade, con un bel BBB– che rappresenta un traguardo agognato per lungo tempo e ottenuto con la fatica di un decennio di dura disciplina di bilancio, ma che non sarebbe stato probabilmente possibile raggiungere se davvero la Grecia avesse rinunciato alla base stabile dell’euro e avesse deciso di rifugiarsi nella trappola “comoda” ma letale della svalutazione e del torchio dei biglietti (per usare una celebre immagine einaudiana) che geme senza tregua.
Afuera inflazione e spesa pubblica!
Milei lo dice chiaro e tondo: afuera l’inflazione, afuera la svalutazione, afuera lo spendaccionismo socialista. E imbracciando la sua motosierra cercherà – lui, il loco, il pazzo – di riportare quel minimo di responsabilità, quel minimo di rigore nella gestione della finanza pubblica di cui il suo Paese ha bisogno come l’aria.
Che si tratti di “dollarizzare” o di “blockchainizzare” tutto quanto – oppure no – non fa differenza: i cittadini, eleggendolo, hanno voluto dare un messaggio molto chiaro. Non sono disposti a pagare oltre per le colpe della politica. E quindi sono disposti ad accettare il cambiamento, anche se è doloroso, purché porti chi si è comportato con maggiore responsabilità a soffrire di meno di chi è stato irresponsabile. Proprio come in Grecia.