Partiamo dalla definizione ufficiale sul sito innovazione.gov.it:
Il Dipartimento per la trasformazione digitale è la struttura di supporto alla Presidenza del Consiglio dei Ministri per la promozione ed il coordinamento delle azioni del Governo finalizzate alla definizione di una strategia unitaria in materia di trasformazione digitale e di modernizzazione del Paese attraverso le tecnologie digitali.
Che, da almeno una quindicina d’anni, si siano moltiplicate le iniziative di vari governi per estendere le procedure informatiche a sempre più settori della pubblica amministrazione lo sappiamo tutti.
Un futuro come condanna
Tralasciando le considerazioni generali circa l’effettiva necessità di fare sempre più ricorso a mezzi e procedure informatiche nella nostra vita quotidiana, perché c’incaglieremmo subito nello scoglio di valutazioni estremamente soggettive e discordanti tra la popolazione, direi che un buon punto di partenza potrebbe essere dare per scontato che con l’informatica e la cibernetica dovremo sempre più confrontarci negli anni futuri.
Che ci piaccia o meno, al netto della capacità individuale di ciascuno di noi a districarsi tra computer e documenti virtuali, questo è il futuro. Non parlo, sia ben chiaro, di un miglior futuro, bensì di futuro in senso lato, immanente come una condanna divina ed imprescindibile, perché siamo stati proprio noi a tanto faticare per trovare qualcosa di non umano che si occupasse delle incombenze umane, facendole per nostro conto.
Nessuno ci ha imposto di fidarci dei pc e nessuno al mondo avrebbe potuto vietarci di farlo. È un processo evolutivo della storia umana e della nostra civiltà. Se non si facesse questa premessa, ossia mettendo in dubbio l’ineluttabilità del crescente utilizzo dei calcolatori elettronici nella vita sociale, commetteremmo lo stesso errore in cui incorsero quelli che negavano un futuro alle prime macchine complesse della civiltà industriale, illudendosi di poter riportare il mondo alla civiltà agricola, pastorale ed artigianale dei primi millenni della storia.
Bene. Superata questa tutt’altro che trascurabile difficoltà di metodo, ossia dando per scontato che sempre più compiti che videro una persona fisica a fare qualcosa di specifico siano sempre più spesso affidata ad un computer, resta, tuttavia, la sconfinata prateria di teorie su “come” e “in quale contesto” utilizzare le nuove tecnologie informatiche di cui disponiamo.
Diavolerie burocratiche
Mettiamo che lo Stato italiano, nel cui territorio si rivendica con orgoglio la nascita del primo personal computer al mondo, uscito dagli stabilimenti Olivetti di Ivrea, voglia stare in prima fila e mostrare al mondo che, oltre a saperli costruire bene, i computer li sappiamo usare altrettanto bene, seppure con un ritardo notevole rispetto ad altre nazioni europee. Mettiamo anche che abbia deciso di informatizzare buona parte della burocrazia. Ci sta, niente da dire.
Ma esattamente qui facciamo cascare uno dei miei ormai tradizionali asini, che chi mi legge da qualche anno sa che impietosamente utilizzo per le mie figure allegoriche. Il nostro povero e simpatico somaro cade subito perché gli manca la stalla giusta ed i giusti mezzi di sostentamento. Mi spiego con una vicenda di questi giorni, capitatami personalmente, come ad altri milioni di connazionali capita ogni giorno.
La nuova CIE (acronimo di carta d’identità elettronica) è uno dei casi pratici che dimostra un’ipotesi di mancanza di corretto “ambiente di lavoro” nel quale dovrebbe operare. Nelle intenzioni ministeriali (diciamolo con parole semplici: nelle intenzioni della burocrazia di Stato) tale importante documento d’identità, anzi “il” documento d’identità, dovrebbe consentire un più facile accesso dei cittadini agli enti che regolano la sua posizione fiscale, contributiva, sanitaria e via discorrendo.
Se non che, come avviene in modo del tutto sovrapponibile per lo SPID (altra diavoleria inventata per avere accesso diretto alle nostre pratiche senza rivolgersi ad uno sportello tradizionale), tali e tante sono le misure di sicurezza informatica richieste da rendere talmente ostico, complesso, oltre che frustrante il suo utilizzo da ottenere fatalmente due risultati: (1) si lascia perdere e si fa a meno di conoscere la nostra situazione esatta, oppure: (2) si va allo sportello fisico con le code, i disguidi e le difficoltà di spostamento che ben sappiamo.
Armi spuntate
In pratica ci dicono: siccome l’oceano del web è infestato da milioni di pirati che possono farvi gravi danni, vi dotiamo di cannoni, corazze, bombe di ogni genere per contrastarli, ma non vi diamo la possibilità di raggiungere quella destinazione seguendo rotte meno pericolose, perché la rotta la scegliamo noi e solo quella avete. Quali cannoni, quali corazze? Vediamoli.
Password che diventano inefficaci in un tempo che varia dai pochi minuti ai pochi mesi, codici di verifica che arrivano (talvolta in ritardo prima che scada la password) per posta elettronica o sul telefonino, confusione tremenda e sconsolante sui termini attribuiti alle caselle da compilare elettronicamente (che non vengono identificate sempre con lo stesso nome, e sbagliarsi è quasi inevitabile), applicazioni per smartphone che dannatamente fanno comparire la tastiera proprio sovrapposta al codice da indicare, per cui inizia un penoso e spesso infruttuoso “scrolling” in su e giù del già piccolo schermo del telefonino, così come l’obbligo di usare gli odiosi sistemi di sicurezza aggiuntivi “captcha” o come diavolo si chiamano, dovendo cliccare su parti di sfocate immagini che contengano carote, semafori, orsi polari e chi ne ha più ne metta.
A proposito di questa cretinata del captcha (li odio talmente da nemmeno aver voglia di cercare su Google come si chiamino correttamente) sarebbe carino se qualcuno mi dicesse se le sole ombre delle bicilette da cliccare facciano parte della categoria eletta, oppure se l’ombra dell’oggetto da cliccare non faccia testo. Ma stiamo scherzando?
Volete semplificare la vita alla gente obbligandoli a fare il giochino dei semafori per poter proseguire nella via crucis della procedura? Fate una prova voi stessi. Cercate sullo store ufficiale delle applicazioni di Stato (per solo sistema Android; chi usa un iPhone è ricco e deve soffrire) per accedere ai vostri documenti con la CIE o con lo SPID e leggete i commenti degli utenti che le hanno provate. Non dico altro, fate la prova.
Le impronte digitali
Qualcuno pensa che lasciare due impronte digitali (da ripetersi tre volte per ciascun dito indice di ambo le mani) per ottenere la nuova carta d’identità elettronica possa, almeno, servire a immettere milioni di impronte digitali nel sistema internazionale AFIS (Automated Fingerprint Identification System) e così utilmente ampliare il database mondiale delle impronte digitali, con ovvio vantaggio di velocemente identificare con le impronte chi commetta gravi reati? Si sbaglia.
Le impronte vengono unicamente memorizzate all’interno di quella carta d’identità e nemmeno il Comune che le rilascia le può catalogare. Il tabaccaio che vi fa prendere le sigarette alla macchinetta con l’impronta digitale, o il titolare della palestra che vi fa entrare col medesimo sistema può catalogare le impronte digitali (con le stringenti modalità sulla privacy del GDPR, sia chiaro) mentre il Comune no. Mi si dirà, sul punto, che aver associato i propri dattilogrammi alla CIE permetterà un veloce accesso a non meglio specificate funzioni avanzate. Ma li vedete i pensionati mettere il dito sul sensore per entrare all’INPS o all’Agenzia delle Entrate?
Crash delle reti informatiche
Ultimo (ma, probabilmente, questa è soltanto la prima parte del discorso) elemento di enorme criticità: la rete informatica su cui si basano tutti gli enti pubblici, le poste e le banche, va in tilt certamente più volte ogni settimana. Mi si dia prova del contrario pubblicando i loro valori strumentali MTBW (mean time between failures) e ben volentieri ritirerò questa affermazione.
Se la rete informatica (elefantiaca, spesso obsoleta, gestita male e pochissimo controllata) cade, tutte nostre brave smart card ce le possiamo mettere in tasca. La cosa grave, anzi gravissima, è che non tutti gli enti hanno lasciato la possibilità di presentare domande cartacee e nella stessa forma avere la risposta, magari con una superatissima, ma finora efficace, lettera.
Sicurezza nazionale
Ho scritto molto, anche su queste pagine, su quei motivi di opportunità e sicurezza nazionale che consiglierebbero di non fare unicamente affidamento, parlando di servizi pubblici essenziali, sulla interconnessione internet. Sul punto, è nota la preoccupazione ed il monito dei servizi d’intelligence del mondo intero: un attacco informatico su vasta scala potrebbe avere effetti letteralmente devastanti. Ma noi, che la sappiamo lunga, affidiamo sempre più cose importanti esclusivamente alla rete internet, in nome della transizione informatica. Complimentoni…