Poco prima delle elezioni europee ci eravamo lasciati auspicando che il nuovo Parlamento che sarebbe uscito dalle urne avrebbe saggiamente riconsiderato le direttive più oltranziste in materia di Green Deal per mitigarne gli effetti devastanti sul sistema industriale e sociale dell’Unione: la direttiva “case green”, i nuovi PAC per l’agricoltura, il bando dei motori endotermici e delle caldaie a gas, il sistema dei certificati ETS e, in generale, l’intera strategia “net zero”.
Invece, pur avendo l’elettorato di Italia, Francia e Germania (Stati fondatori nonché struttura portante dell’Unione) dato indicazioni inequivocabili circa la sfiducia nei confronti di queste follie ideologiche, la neo-rieletta Ursula Von der Leyen ha spostato l’asse della maggioranza che la sostiene addirittura ancor più verso quelle follie, assicurandosi l’appoggio dei Verdi per consolidare il proprio potere.
Pertanto, duole dirlo ma abbiamo davanti cinque anni di inasprimento di questi deliri ideologici durante i quali le direttive che abbiamo citato cominceranno ad entrare via via in vigore e il cui effetto sarà accelerare ancor più il declino industriale e sociale. “Verso la decrescita infelice e oltre” sarebbe il titolo appropriato per il film distopico che ci apprestiamo a vivere sulla nostra pelle.
La madre di tutte le follie green
Tuttavia, è proprio in momenti bui come questi che occorre tenere i nervi saldi e tentare, se possibile, di dimostrare la natura profondamente sbagliata di queste politiche attraverso la forza dei numeri.
Non ci stancheremo mai di ripetere che è la stessa strategia “net zero”, la madre di tutte le follie green, ad essere intrinsecamente fallace. Ricordiamo brevemente che tale strategia consiste nell’obiettivo di raggiungere in Ue “emissioni nette zero” di gas serra (CO2 ma non solo) entro il 2050 eliminando l’uso di qualunque combustibile fossile, allo scopo di contenere il riscaldamento climatico globale a +1,5 °C entro la fine del XXI secolo.
In più occasioni abbiamo aspramente criticato il fondamento stesso di tale strategia, cioè il contenimento della temperatura media globale entro +1,5 °C attraverso la riduzione dei gas serra: lo abbiamo fatto criticando il concetto stesso di “riscaldamento globale” inferito dagli errori di misurazione delle temperature del passato (qui), stigmatizzando l’inversione del rapporto di causa-effetto tra aumento di CO2 in atmosfera e aumento della temperatura media globale (qui) e mettendo in guardia dagli errori logici e di comunicazione che nascono dal dare per scontato questo rapporto di causa-effetto (qui). Non da ultimo, criticando la temperatura presa a riferimento rispetto alla quale questi 1,5 °C sono calcolati, cioè l’asserita temperatura media globale che si è registrata subito dopo l’ultima mini-glaciazione dei primi dell’Ottocento.
Con un approccio cosiddetto “top-down” (cioè, partendo dalla situazione generale e arrivando a quella particolare), abbiamo inoltre anche dimostrato l’infattibilità dell’implementazione della strategia “net zero” a causa dei quantitativi inimmaginabili di materie prime necessarie per impiantare un sistema energetico basato solo sull’utilizzo delle fonti cosiddette “rinnovabili” (qui).
L’utopia delle “comunità energetiche”
Oggi quindi vorrei dimostrarvi che questa stessa strategia “net zero” è infattibile anche considerando un approccio cosiddetto “bottom-up” (cioè, partendo dalla situazione particolare e arrivando a quella generale). Per far questo, faremo ricorso a dei cosiddetti “esperimenti mentali”, cioè a situazioni teoriche al limite del paradossale (celeberrimi, a tal proposito, gli esperimenti mentali del “paradosso dei gemelli” di Albert Einstein e del “gatto di Schrödinger” di Erwin Schrödinger), con cui vorrei mostrarvi la follia della “net zero” anche sotto quest’altra prospettiva.
Quante volte avrete sentito dire che la soluzione all’eliminazione dei combustibili fossili è la produzione diffusa di energia rinnovabile attraverso una miriade di impianti domestici o comunque di piccole dimensioni che soddisfino le esigenze locali? Pensate che, su questo concetto, ci hanno costruito l’ennesimo scempio di economia sussidiata, quello delle cosiddette “comunità energetiche”.
Di cosa si tratta? Di un sistema idilliaco (sulla carta) di tanti piccoli “prosumer” (produttori e consumatori) che mettono in condivisione le loro risorse produttive per soddisfare le esigenze di consumo di tutta la cerchia locale di affiliati. Una comunità solo sulla carta, ovviamente, e solo perché qualche instancabile mente a Bruxelles ha pensato che questo avrebbe risolto – non si sa perché – il problema dell’intermittenza delle fonti rinnovabili (cosa del tutto errata, come vedremo) e dell’incontro di domanda e offerta di energia, costruendoci sopra il solito schema Ponzi di incentivi economici erogati, come al solito, a nostre spese.
Ecco, il nodo è arrivato al pettine: vi dimostrerò che l’indipendenza energetica con sole fonti rinnovabili è un’utopia irrealizzabile. Per far questo ricorreremo a due esperimenti mentali.
Irrealizzabilità di un sistema isolato alimentato con fotovoltaico
Supponiamo di avere una villetta monofamiliare in classe energetica “A” dotata di tutti i comfort domotici ed energetici, in particolare dotata di pompa di calore reversibile per il riscaldamento invernale e la climatizzazione estiva. L’analisi termotecnica dà come risultato un consumo atteso annuale di energia elettrica di circa 10.000 kWh, di cui 3.200 per i consumi generali domestici (luci, forno, cucina a induzione, phon, frigorifero, tv, computer, ecc.), 5.000 per il riscaldamento invernale e 1.800 per la climatizzazione estiva.
Supponiamo adesso di voler ricavare questo fabbisogno energetico solo da un impianto fotovoltaico isolato dalla rete elettrica (NB: non consentito dalle leggi vigenti in Italia!).
Sulla base dei dati effettivi orari di irraggiamento solare rilevati in un anno in corrispondenza della collocazione geografica della villetta, il calcolo porta alla necessità di un impianto fotovoltaico costituito da 16 pannelli al silicio monocristallino 1,75m x 1,15m (rendimento medio: 19,7%) della potenza nominale orientativa di 6,4 kWp in grado di soddisfare il fabbisogno annuo più un margine del 10% circa.
Veniamo ora alle dolenti note: data l’intermittenza giornaliera e stagionale della produzione fotovoltaica, è indispensabile ricorrere a una batteria di accumulo per il cui dimensionamento occorre valutare l’evoluzione annua della produzione/consumo. E qui occorre che vi teniate forte; il calcolo teorico porta infatti al seguente risultato:
In altre parole, per far fronte all’intermittenza giornaliera e stagionale della produzione da fotovoltaico, occorrerebbe una batteria di accumulo della capacità di 3.000 kWh grande quanto un container 40’ HC (12.192 x 2.895 x 2.438 mm) dal peso di 16 tonnellate pari al 30% dei consumi annui.
Ma non solo: affinché tutto si mantenga in equilibrio, occorrerà avviare l’impianto il 19 aprile alle ore 08:00, non un’ora di più e non un’ora di meno, il che consentirà di partire “in fase” e arrivare alla fine dell’anno con la carica residua nella batteria (1.862 kWh) necessaria e sufficiente per arrivare a 0 il 19 aprile dell’anno successivo e così via. Per esplicitare meglio la questione, ecco infatti cosa accade mediamente in un mese invernale:
Come si vede, il calcolo mostra che, dal 1° febbraio al 1° marzo, la carica accumulata nella batteria passa da circa 975 a 275 kWh. Ecco invece cosa accade mediamente in un mese estivo:
Dal 1° al 31 luglio, la carica nella batteria passa da circa 1.150 a poco meno di 1.750 kWh.
Pertanto, per compensare le intermittenze in un sistema isolato dalla rete dimensionato sulla base del fabbisogno annuo di energia, occorrerebbe una batteria esageratamente grande e costosa. Quest’ultima si riduce di dimensioni solo sovradimensionando l’impianto di produzione a valori via via crescenti (ameno >5 volte il fabbisogno energetico annuo) ma accettando di dissipare l’energia in eccesso (ricordate: siete senza rete). Ad esempio, sovradimensionando l’impianto a 60 kWp, la capacità della batteria necessaria si riduce a 50 kWh a patto che vengano però dissipati circa 82.000 kWh in eccesso.
Irrealizzabilità di un sistema isolato alimentato con fotovoltaico ed eolico
Supponiamo di avere la stessa villetta dell’esperimento mentale precedente, sempre isolata dalla rete, ma che stavolta sia alimentata da due impianti di energia rinnovabile: fotovoltaico ed eolico. La speranza è infatti che, combinando le due fonti rinnovabili, l’una possa compensare l’intermittenza dell’altra e viceversa, di modo che la potenza prodotta risultante sia più costante nel tempo di quella ottenuta solo mediante fotovoltaico e che quindi risenta meno delle forti variazioni giornaliere e stagionali di quest’ultimo.
Sulla base dei dati effettivi orari di radiazione solare e velocità del vento rilevati in un anno in corrispondenza della collocazione geografica della villetta e supponendo di suddividere in parti uguali il contributo al fabbisogno energetico tra fotovoltaico ed eolico, il calcolo porta alla necessità di un impianto fotovoltaico costituito da 8 pannelli al silicio monocristallino 1,75m x 1,15m (rendimento medio: 19,7%) della potenza nominale orientativa di 3,2 kWp e da una micro-turbina eolica di 2,5 kW di potenza nominale avente la seguente curva di potenza:
La somma dei due contributi è in grado di soddisfare il fabbisogno annuo più un margine del 10% circa, come nel primo esperimento mentale. Purtroppo, però, anche in questo caso i calcoli portano alla necessità di una batteria di accumulo significativamente grande, di capacità poco più della metà della precedente, 1.700 kWh, ma pur sempre di dimensioni spropositate e pari a circa il 17% dei consumi:
In questo caso, affinché tutto si mantenga in equilibrio, occorrerà avviare l’impianto il 5 marzo alle ore 07:00, il che consentirà di partire “in fase” e arrivare alla fine dell’anno con la carica residua nella batteria (1.237 kWh) necessaria e sufficiente per arrivare a 0 il 5 marzo dell’anno successivo e così via. Per esplicitare meglio la questione, ecco infatti cosa accade mediamente in un mese invernale:
Il calcolo teorico mostra che, dal 1° febbraio al 1° marzo, la carica accumulata nella batteria passa da circa 700 a poco più di 100 kWh. Ecco invece cosa accade mediamente in un mese estivo:
Dal 1° al 31 luglio, la carica nella batteria passa da circa 580 a poco meno di 775 kWh.
Pertanto, anche in un sistema isolato dalla rete alimentato da due fonti rinnovabili indipendenti dimensionate secondo il fabbisogno annuo di energia, per compensare le intermittenze occorrerebbe una batteria esageratamente grande e costosa. Come per il caso precedente, quest’ultima si riduce di dimensioni solo sovradimensionando l’impianto di produzione a valori via via crescenti (almeno >5 volte il fabbisogno energetico annuo) ma accettando di dissipare l’energia in eccesso. Ad esempio, sovradimensionando l’impianto fotovoltaico a 30 kWp e la turbina eolica a 25 kW, la capacità della batteria necessaria si riduce a 50 kWh a patto che vengano però dissipati circa 90.000 kWh in eccesso.
Il non detto della “net zero”
Quale conclusione possiamo trarre dai due esperimenti mentali che abbiamo testé esaminato? Che la sommatoria di energie dal carattere fortemente intermittente resta a sua volta anch’essa fortemente intermittente. Riportato in termini generali (l’approccio “bottom up” appunto), la produzione globale di energia rinnovabile, in Italia come nel resto del mondo, segue il medesimo andamento fortemente intermittente, sia giornaliero che stagionale.
Ciò che compensa tale intermittenza e fa coincidere istante per istante la domanda di energia con l’offerta sono proprio i sistemi di generazione a fonti fossili che oggi sono asserviti completamente a fungere da complemento alle rinnovabili, il che ha come conseguenza un’incidenza dei loro costi indiretti sul totale di gran lunga superiore a quella che si avrebbe se le centrali fossero sempre utilizzate alla loro massima capacità, com’era nei piani iniziali della loro costruzione.
E quando le centrali termoelettriche verranno spente nel 2050 in forza della “net zero strategy”? Come per il caso domestico esaminato, l’unico modo che si avrà per compensare gli squilibri e avere dei sistemi di accumulo ragionevoli sarà sovradimensionare di almeno 5 volte i sistemi di generazione e, anziché semplicemente dissipare l’eccesso di energia prodotta, utilizzarla per ottenere vettori energetici – e-fuel e idrogeno verde, per esempio – con la consapevolezza tuttavia che circa tre quarti dell’eccesso di energia verranno comunque persi in calore nel ciclo di vita dei vettori stessi, come avevamo già esaminato nel caso dell’e-fuel (qui) e dell’idrogeno verde (qui).
Ma sovradimensionare di almeno 5 volte gli impianti di generazione significherebbe moltiplicare di un analogo fattore il fabbisogno già spropositato di materie prime che avevamo stimato qui, il che, in un mondo normale, farebbe accantonare immediatamente ogni velleità di “net zero”, sempre che invece coloro che sostengono questa follia non desiderino per l’umanità un nuovo medioevo tecnologico.
Il cordone ombelicale con “mamma rete elettrica”
Per finire, vediamo cosa succede a quella villetta del nostro primo esperimento mentale se invece di immaginarla isolata dalla rete la collegassimo ad essa. In tal caso, avremmo una delle tante realizzazioni sparse per la penisola basate su un impianto fotovoltaico domestico e batteria di accumulo.
Avendo una rete elettrica a disposizione da cui poter prelevare l’energia nei periodi di minore produzione e a cui poter cedere energia in quelli di maggior produzione, combinando un sistema di accumulo relativamente contenuto possiamo ottenere un impianto che è in grado di autosostenersi per più dell’80% del fabbisogno energetico. Per il dimensionamento ottimale seguiamo due strade possibili: minimizzazione dell’energia prelevata dalla rete e minimizzazione del tempo di ritorno dell’investimento.
(1) Minimizzazione dell’energia prelevata – Facendo variare la potenza nominale dell’impianto fotovoltaico e la capacità della batteria di accumulo otteniamo questa famiglia di curve:
Se ci prefiggiamo l’obiettivo di non prelevare più del 20% di energia del fabbisogno annuo dalla rete, scopriamo che la prima curva che soddisfa a tale requisito è quella verde (batteria di accumulo 15 kWh) a fronte di una potenza nominale dell’impianto di 20 kWh (crocetta verde sul grafico).
(2) Minimizzazione del tempo di ritorno dell’investimento – Introducendo nel calcolo le funzioni di costo dell’impianto fotovoltaico e della batteria in funzione rispettivamente della potenza nominale e della capacità, otteniamo quest’altra famiglia di curve:
Da qui si evince che la curva che minimizza il tempo di rientro dell’investimento – supponendo di accedere al bonus fotovoltaico 50% per impianti fino a 20 kWp e considerando la tariffa di 4,6 cent/kWh riconosciuta dal GSE per il cosiddetto “ritiro dedicato” che entro la fine del 2024 soppianterà del tutto quella dello “scambio sul posto” – è quella corrispondente a un impianto di 6 kWp e batteria di 10 kWh (6 anni – crocetta verde sul grafico).
Tuttavia, tornando sul grafico precedente, con questa configurazione l’energia prelevata dalla rete sarebbe più del 40% del totale (crocetta rossa sul primo grafico). Viceversa, con i parametri ottimizzati per ridurre al 20% l’energia prelevata dalla rete, il tempo di rientro dell’investimento sarebbe di 6 anni e 10 mesi (crocetta rossa sul secondo grafico).
Allora, come sempre accade nei casi di ottimizzazione con più di un parametro, scegliamo una ragionevole via di mezzo tra le due configurazioni e consideriamo salomonicamente un impianto da 15 kWp e batteria da 15 kWh (pallini verdi su entrambi i grafici) che consente di prelevare dalla rete il 22% del fabbisogno di energia e di avere un tempo di recupero dell’investimento di 6 anni e mezzo.
In tal caso, a titolo esplicativo, il diagramma energetico di una tipica quindicina invernale sarà fatto così:
Mentre quello di una tipica quindicina estiva sarà fatto così:
E, infine, il diagramma di accumulo nella batteria avrà questo andamento:
Tutto questo, lo ripetiamo, è possibile perché c’è il cordone ombelicale con “mamma rete” che sostiene la domanda con le centrali termoelettriche brutte e cattive. Ma cosa sarà invece degli impianti domestici fatti così quando queste verranno spente?