Ogni giorno siamo subissati da una quantità impressionante di informazioni sulla cosiddetta “transizione green”, le cosiddette “energie rinnovabili” e sulla necessità di elettrificare i consumi energetici per ridurre le famigerate emissioni di CO2, la versione atea e postmoderna del Maligno.
A nudo la truffa green
Non so voi ma io sono così disgustato dalle falsità propalate dal mainstream in merito all’asserita “emergenza climatica” da essermi riproposto di fare una premessa ogni volta che mi capiterà di dover parlare di argomenti che, direttamente o indirettamente, possono coinvolgere a vario titolo il clima del pianeta: e cioè che non vi è alcuna prova scientifica che un aumento di concentrazione della CO2 in atmosfera causi un aumento della temperatura media globale o una qualsivoglia altra modificazione climatica secondo un rapporto di causa-effetto.
Analogamente, non vi è alcuna prova scientifica che a una riduzione di concentrazione della CO2 in atmosfera corrisponda una riduzione della temperatura media globale o una qualsivoglia altra modificazione climatica secondo il medesimo rapporto di causa-effetto.
Chi afferma il contrario mente sapendo di mentire e, per fortuna, anche la comunità scientifica – quella con la “s” maiuscola – comincia a ribellarsi allo strapotere ideologico di quella esigua minoranza di “scienziati” che per quarant’anni hanno falsificato dati per sostenere surrettiziamente le più disparate tesi farlocche in tema di clima, spalleggiati dalla finanza speculativa internazionale cui la cosiddetta “agenda green” reca profitti spaventosi. Per fortuna, l’evoluzione reale del clima e la profonda crisi economica in cui siamo immersi fino al collo stanno mettendo finalmente a nudo la truffa “green” in tutto il suo pericoloso potenziale.
Questione di densità
Fatta questa doverosa premessa, mettiamo adesso da parte per un attimo la nostra indignazione civile e cerchiamo di capire meglio un’altra tessera del puzzle energetico: quali sono le densità di energia disponibili e quali le efficienze dei vari sistemi di generazione di energia elettrica? In altre parole, che abbondanza di disponibilità abbiamo di una certa fonte energetica e quanta parte di essa riesce ad essere convertita in energia elettrica con le attuali tecnologie?
Andiamo quindi con ordine e facciamo una carrellata sui principali sistemi di generazione partendo proprio dalle principali tecnologie “green” e finendo con le tanto vituperate “fonti fossili”. Seguitemi in questo excursus: sarò il vostro Virgilio – un po’ demodé, certo, ma pur sempre meglio degli altri divulgatori de noantri che imperversano sui media! – vi prometto che ne vedrete delle belle!
Idroelettrico
L’energia idroelettrica è stata la prima fonte di forza motrice utilizzata dall’uomo. I mulini ad acqua, per esempio, sono tra le macchine più antiche mai apparse nella civiltà occidentale e l’energia idroelettrica la prima fonte ad essere sfruttata per la produzione di energia elettrica, ben prima di carbone e petrolio. L’Italia può vantare alcune tra le più ardite realizzazioni di centrali idroelettriche, così come, purtroppo, il peggior esempio vivente dei disastri che si possono commettere in nome del profitto e dell’avidità: la diga del Vajont.
Il funzionamento di una centrale idroelettrica è abbastanza intuitivo: essa è composta da un bacino di raccolta dell’acqua – generalmente ottenuto chiudendo con una diga il corso naturale di un fiume e allagando quindi parte della vallata in cui esso scorre – dal quale, per mezzo di serrande di regolazione e una o più condotte forzate, essa viene fatta cadere per un certo salto a valle. L’energia potenziale gravitazionale dell’acqua si converte così in energia cinetica che aziona la rotazione delle turbine cui sono collegati i generatori elettrici.
Si tratta chiaramente di energia rinnovabile: il sole infatti è la causa prima del ciclo perenne dell’acqua la quale, evaporando e poi precipitando nuovamente sotto forma di pioggia, va a rimpinguare l’acqua nel bacino di raccolta, pronta per essere nuovamente utilizzata per produrre altra energia elettrica.
La differenza di quota tra il bacino di raccolta e il cosiddetto “punto morto inferiore” dove sono alloggiate le turbine di solito si aggira intorno ai 300 metri. Pertanto, la densità di energia disponibile è molto bassa, 0,82 kWh/m3. Il rendimento di una centrale idroelettrica è dato dal prodotto di quattro fattori:
- rendimento idraulico;
- rendimento volumetrico della turbina;
- rendimento meccanico del gruppo turbina-generatore;
- rendimento elettrico del generatore.
Complessivamente, esso è compreso nell’intervallo 50-70 per cento. Ciò significa che la frazione di densità di energia potenziale gravitazionale convertibile in energia elettrica è compresa nell’intervallo 0,41 – 0,57 kWh/m3. A titolo di esempio, al più grande bacino idroelettrico italiano, situato in provincia di Cuneo e dalla capacità di 42 milioni di m3d’acqua, è associata un’energia elettrica producibile massima di circa 20,6 GWh, corrispondenti grosso modo a 34 minuti di consumo italiano di energia elettrica.
Un’ultima considerazione: l’energia idroelettrica è l’unica, tra tutte le energie rinnovabili, in cui il fluido motore è regolabile a piacimento dall’uomo attraverso la regolazione delle saracinesche di apertura/chiusura delle condotte forzate, un fattore niente affatto trascurabile.
Eolico
Come l’energia idroelettrica, anche l’energia eolica è una fonte antica di forza motrice: i mulini a vento erano infatti spesso l’unica alternativa a quelli – più affidabili – ad acqua laddove non esistevano corsi d’acqua sfruttabili ma, in compenso, c’erano forti venti. In Italia vi sono mirabili esempi di mulini a vento nelle saline del trapanese che un tempo erano utilizzati per la lavorazione del sale.
Come forza motrice per la produzione di energia elettrica, invece, l’energia eolica è apparsa sulla scena molto più tardi dell’idroelettrico: tralasciando infatti i dispositivi ad asse verticale messi a punto intorno agli anni Trenta del XX secolo, buoni oggi solo per fare un po’ di “greenwashing” visti i loro bassissimi rendimenti, i primi aerogeneratori – vi prego, non chiamateli “pale eoliche”! – ad asse orizzontale commerciali sono apparsi negli anni ’70 del secolo scorso.
Da allora sono stati fatti passi da gigante in termini di progresso tecnologico: oggi gli aerogeneratori, a differenza dell’opinione diffusa, sono un mix di quanto di meglio le tecnologie industriali, meccaniche, elettriche e di controlli automatici possano offrire. Naturalmente, parliamo degli aerogeneratori degni di questo nome, non quell’accozzaglia di macchinette di piccola taglia degli anni ’80 cui è stata data una mano di vernice e spacciate per “repowered” – perché dire “di terza mano” pareva troppo brutto! – che hanno selvaggiamente invaso tutte le aree disponibili come conseguenza della scellerata legge Renzi del 2014 sul cosiddetto “minieolico”. No, di quelle macchinette bisognerebbe avere il coraggio di fare piazza pulita prima o poi.
Anche nel caso dell’eolico, purtroppo, le densità di energia disponibili sono bassissime. Ad esempio, nei siti caratterizzati da una velocità del vento media annua di 5 m/s (18 km/h, niente affatto comuni), per ciascun m2 di area spazzata dal rotore parliamo di 1.300 kWh/m2/anno disponibili, di cui, per la legge di Betz, il massimo sfruttabile è il 59 per cento, cioè 767 kWh/m2/anno. Il rendimento di un aerogeneratore è dato dal prodotto di tre fattori:
- rendimento aerodinamico delle pale;
- rendimento della trasmissione meccanica;
- rendimento elettrico del generatore/convertitore di frequenza (quest’ultimo solo dove presente).
Mentre gli ultimi due fattori variano molto poco in funzione del carico, il rendimento aerodinamico delle pale, detto “Cp”, è un parametro fortemente legato al tipo di profilo alare, al rapporto tra la velocità periferica delle estremità di pala e la velocità del vento e al tipo di strategia di regolazione adottata. Per regimi bassi di velocità del vento, tipicamente fino agli 11-12 m/s (40-43 km/h), l’obiettivo è estrarre quanta più energia possibile e, quindi, le pale vengono sfruttate alla loro massima efficienza aerodinamica (fino al 45 per cento) mettendole in posizione perpendicolare alla direzione del vento.
Per velocità maggiori di 11-12 m/s, invece, l’obiettivo è quello di mantenere la potenza estratta dal vento il più possibile costante e pari al valore nominale di targa dell’aerogeneratore. Ciò in quanto a un aumento della velocità del vento corrisponde sì un aumento della potenza estraibile ma anche un aumento dei carichi sull’intera struttura. Pertanto, si preferisce perdere un po’ di potenza riducendo l’efficienza aerodinamica del rotore (attraverso la modulazione dell’angolo di passo delle pale) in cambio del mantenimento delle sollecitazioni meccaniche entro i limiti di progetto.
Il risultato di questo complesso approccio è che il rendimento complessivo medio di un aerogeneratore è paradossalmente più basso per velocità del vento medie annue più alte e viceversa. Mediamente, nei siti italiani possiamo dire che esso si attesta intorno al 30 per cento. Ciò significa che la frazione di densità di energia del vento convertibile in energia elettrica è all’incirca 390 kWh/m2/anno. A titolo di esempio, l’aerogeneratore Vestas V172 (7,2 MW di targa, diametro rotore 172 metri, altezza torre in 6 versioni da 114 a 199 metri) potrà mediamente produrre in un anno circa 9 GWh, corrispondenti a 15 minuti di consumo italiano di energia elettrica.
Fotovoltaico
Il fotovoltaico, l’unica tecnologia rinnovabile completamente statica, nasce con la scoperta nel 1905 dell’effetto fotoelettrico che valse ad Albert Einstein il premio Nobel per la fisica nel 1921. Esso si basa sulla capacità di alcuni materiali di convertire una parte dell’energia luminosa incidente in energia elettrica. Tralasciando i particolari (se volete, potete approfondire qui), la tecnologia oggi più consolidata è quella che si basa su pannelli al silicio monocristallino.
Anche nel caso del fotovoltaico, come per idroelettrico ed eolico, la densità di energia disponibile è molto bassa. Trattandosi dell’energia della radiazione solare, oltre ad avere un’evoluzione diurna, essa dipende fortemente dalla latitudine e dal periodo dell’anno, sia in termini di potenza massima che di energia totale.
Ragionando in termini medi, in Italia la radiazione solare massima allo zenit del solstizio d’estate varia nell’intervallo 1.000 – 1.100 W/m2 in funzione della latitudine. Allo zenit del solstizio d’inverno essa si riduce invece all’intervallo 400 – 500 W/m2, sempre in funzione della latitudine. L’energia solare disponibile annua varia invece dai 900 kWh/m2/anno delle regioni settentrionali ai 1.700 kWh/m2/anno dell’estremo Sud Italia. In termini medi, possiamo supporre che essa valga 1.300 kWh/m2/anno.
Non essendoci parti in movimento, il rendimento di un impianto fotovoltaico dipende da due soli fattori:
- rendimento di conversione fotoelettrica;
- rendimento elettrico dell’inverter di collegamento alla rete.
Mentre il secondo fattore è pressoché costante, il rendimento di conversione fotoelettrica è estremamente variabile con l’età del pannello e la sua temperatura di esercizio: in un pannello nuovo al silicio monocristallino esso vale circa 18 – 22 per cento. Tuttavia, il rendimento degrada abbastanza rapidamente con l’età in ragione di circa l’1 per cento/anno; sicché, dopo 20 anni – vita media di un impianto fotovoltaico – esso giunge all’80 per cento del rendimento iniziale, cioè 14 – 17 per cento.
Inoltre, il rendimento dipende fortemente anche dalla temperatura di esercizio, riducendosi dello 0,5 per cento/°C per temperature al di sopra dei 25 °C. Per fare un esempio, un pannello fotovoltaico nuovo che si trovi in estate a lavorare a una temperatura di esercizio di 60 °C avrà un rendimento ridotto del 17,5 percento rispetto al valore a freddo, cioè, in termini assoluti, nell’intervallo 14,8-18 per cento.
Tutto questo fa sì che, su base media ventennale, il rendimento dell’impianto fotovoltaico sia complessivamente non più grande del 15 per cento. Ciò significa che la frazione di densità di energia solare convertibile in energia elettrica è all’incirca 195 kWh/m2/anno.
A titolo di esempio, il più grosso impianto fotovoltaico italiano in provincia di Foggia, un mostro di 45 ettari di estensione, potrà mediamente produrre in un anno 87,75 GWh, corrispondenti a 2 ore e 24 minuti di consumo italiano di energia elettrica.
Le fonti fossili
A differenza delle fonti rinnovabili, le fonti fossili sono caratterizzate da elevatissime densità di energia. Esse sono costituite dagli idrocarburi, catene complesse di composti organici a base di idrogeno e carbonio. Affinché questi ultimi si leghino insieme a formare le lunghe catene delle molecole di idrocarburi, occorrono notevoli temperature, pressioni ed energia, parte della quale viene immagazzinata sotto forma di legami elettrochimici e restituita successivamente al momento della loro combustione.
Gli idrocarburi si sono formati in natura nel corso delle ere geologiche in tempi lunghissimi, nell’ordine dei milioni di anni, durante i quali, a seguito degli sconvolgimenti della crosta terrestre in ere remote, enormi quantità di sostanze organiche animali e vegetali si sono ritrovate sepolte sotto spessi strati di roccia, sottoposte alle fortissime pressioni dovute al peso degli strati soprastanti e al calore degli strati profondi del mantello. Gli idrocarburi hanno catturato così una piccolissima frazione di quelle terribili condizioni ambientali immagazzinandola, per l’appunto, nei loro legami elettrochimici.
I principali combustibili fossili utilizzati per la produzione di energia elettrica sono carbone, gas e olio combustibile.
Carbone
Il carbone è un combustibile fossile costituito da una roccia sedimentaria di colore nero o bruno scuro. La sua formazione risale a circa 345 milioni di anni fa, quando un clima caldo e umido e un’elevata concentrazione di CO2 favorirono la crescita di alberi giganti (guarda caso!) i quali, dopo la loro morte, si accatastavano in ampie fasce di legname che non veniva degradato a causa dell’assenza di funghi e batteri specifici, al tempo ancora non sviluppati. Venutesi poi a trovare ricoperte da altri sedimenti, e sottoposte a pressioni elevate in assenza di ossigeno, queste fasce di legname diedero origine, nel corso di milioni di anni, ai giacimenti di carbon fossile.
Il carbone ha una densità di energia disponibile di circa 8,3 MWh/m3. Una centrale termoelettrica a carbone con caldaia cosiddetta “ultra-supercritica” può raggiungere rendimenti fino al 48 per cento. Sicché, la frazione di densità di energia convertibile in energia elettrica è di 4 MWh/m3.
A titolo di esempio, la più grossa centrale a carbone italiana, quella di Torrevaldaliga Nord (CV), ha una potenza complessiva di 3 x 660 = 1.980 MW e a pieno regime può bruciare fino a 3 x 110 = 330 ton/h di carbone. Essa è in grado di produrre in un anno fino a 17.340 GWh, corrispondenti a 20 giorni di consumo italiano di energia elettrica.
Gas naturale
Il gas naturale è costituito da idrocarburi gassosi che si trovano nel sottosuolo, da dove fuoriescono spontaneamente o sono estratti mediante perforazioni. Esso è composto per l’85 per cento da metano (CH4) e per il restante 15 per cento da altri gas come etano, propano, butano, pentano, azoto e idrogeno solforato. La sua densità di energia vale all’incirca 10,5 kWh/m3 in condizioni standard (temperatura 15 °C e pressione 1.013,25 millibar).
Una centrale turbogas a ciclo combinato può raggiungere rendimenti fino al 68 per cento. Sicché, la frazione di densità di energia convertibile in energia elettrica è di 7,1 kWh/m3.
A titolo di esempio, la più grossa centrale turbogas italiana a ciclo combinato, quella Edison di Porto Marghera (VE), ha una potenza di 780 MW e a pieno regime può bruciare fino a 110.000 m3/h di gas naturale. Essa è in grado di produrre in un anno fino a 6.832 GWh, corrispondenti a 8 giorni di consumo italiano di energia elettrica.
Olio combustibile
L’olio combustibile appartiene alla categoria dei distillati pesanti ottenibili dal petrolio ed è un prodotto petrolifero in via di disuso per la produzione di energia elettrica. Esso trova prevalentemente impiego nell’alimentazione delle caldaie delle centrali termoelettriche a carbone durante il transitorio di accensione (che può durare anche fino a 72 ore).
Cogenerazione
Accanto alla produzione di energia elettrica, uno dei vantaggi rappresentato dalle centrali termoelettriche a combustibili fossili è la possibilità di utilizzare il calore residuo della combustione per utilizzi domestici di teleriscaldamento. In tal caso, il rendimento globale dell’impianto è dato dalla somma tra il rendimento della produzione di energia elettrica e il rendimento del teleriscaldamento.
I sistemi più efficienti di teleriscaldamento possono arrivare a recuperare fino al 60 per cento del calore prodotto dalla combustione per la generazione di energia elettrica. Sicché, ad esempio, nel caso precedente della centrale turbogas a ciclo combinato, il 60 per cento del 32 percento di calore residuo, corrispondente al 19,2 percento, verrebbe recuperato dal sistema di teleriscaldamento, di modo che il rendimento complessivo della cogenerazione sarebbe: 68 percento (elettrico) + 19,2 percento (termico) = 87,2 per cento.
Confronto impietoso
Dalla carrellata che abbiamo fatto sulle principali fonti di produzione di energia elettrica, è adesso chiaro che le tecnologie cosiddette “rinnovabili” sono afflitte da un duplice ordine di problemi: bassissime densità di potenza disponibili e bassi rendimenti di conversione.
Entrambi questi fattori fanno sì che, a parità di fabbisogno energetico e tralasciando per un attimo l’ulteriore enorme problema dell’intermittenza delle fonti rinnovabili, l’estensione fisica degli impianti a energia rinnovabile sia almeno di due ordini di grandezza superiore di quella degli impianti a energia fossile. Il confronto è impietoso.
Ad esempio, per produrre la stessa energia annua della Centrale di Torrevaldaliga Nord – estensione 70 ettari – occorrerebbero:
- 9.000 ettari di terreno completamente occupati da pannelli fotovoltaici, oppure
- 1.950 aerogeneratori Vestas V174 disposti a una distanza minima l’uno dall’altro di non meno di 5 diametri di rotore (870 m, valore derivante dalle buone pratiche ingegneristiche), che andrebbero a disporsi su un’area di 90.000 ettari occupandone fisicamente 500, oppure
- un mix delle prime due.
Illusione green
L’illusione dell’“agenda green” – che si sta rivelando un bluff colossale – è quella di pretendere di costringere l’umanità a dover passare da un modello tradizionale di produzione dell’energia “energy-intensive”, quello dei combustibili fossili, a uno di tipo “material-intensive”, quello delle fonti cosiddette “rinnovabili”.
Tuttavia, poiché i fabbisogni di materie prime viaggiano di pari passo con l’estensione degli impianti, l’esperienza degli ultimi venti anni dimostra al di là da ogni ragionevole dubbio che questo secondo modello di produzione è insostenibile proprio per via degli ordini di grandezza di questi fabbisogni.