Economia

La libertà si perde a pezzi: la lenta agonia del “green dream”

Cosa c’è dietro l’insensato limite dei 30 km/h. L’illusione emissioni zero sta affondando dopo l’urto con l’iceberg della realtà, ma ci sta trascinando con sé

Bologna 30

Ormai non si nascondono più nemmeno dietro l’alibi dell’inquinamento o degli incidenti stradali. Certo, non mancano questi riferimenti, ma sempre più evidente come siano solo dei pretesti. Il sindaco di Bologna Matteo Lepore, solo l’ultimo di una lunga lista, ha giustificato il nuovo limite dei 30 km/h in città con l’obiettivo di “cambiare lo stile di vita individuale delle persone”. Così, senza alcun pudore, dritto al punto. Se devi andare a prendere le sigarette ci vai a piedi. Decide il sindaco per cosa è consentito prendere la macchina.

Umanità nuova

Ora, la domanda che dovrebbe sorgere spontanea ma che invece quasi nessuno pone: ma spetta ad un sindaco cambiare il nostro stile di vita, o dovrebbe forse impegnarsi ad amministrare la città – cosa nient’affatto semplice? Ora abbiamo non solo la politica europea e nazionale, ma persino quella locale che pretende di forgiare “l’uomo nuovo”, una nuova umanità. Un disegno che nasconde in sé i germi del totalitarismo, sebbene ovviamente un limite di velocità non sia paragonabile ad un gulag. Non siamo ancora a quel punto, ma la strada l’abbiamo imboccata.

E se mettiamo insieme tante piccole imposizioni di questo tipo, se uniamo i puntini, la figura non è certo rassicurante. Oggi è il limite dei 30 km/h, ma che dire del bando delle auto a combustione che incombe nel 2035, delle Ztl sempre più estese, delle fasce A, B o C, di autovelox e telecamere disseminate ovunque? E ancora il folle ETS, l’idea di impronta carbonica e, sullo sfondo, si staglia la sagoma minacciosa del sistema di credito sociale.

Anche coloro che si oppongono a divieti e obblighi, come alternative propongono dispositivi premiali per chi “si comporta bene”. Ma comporta bene rispetto a chi e a cosa? Rispetto a politiche del tutto discutibili, per non dire irrazionali, dettate dall’ideologia o dalla moda del momento, senza alcun fondamento scientifico né logico.

Ed è evidente che il biennio pandemico ha rappresentato una sorta di finestra di Overton per imporre misure sempre più restrittive finalizzate al controllo dei comportamenti. Un biennio in cui i cittadini sono stati abituati a sacrificare un pezzo alla volta le loro libertà per la “sicurezza” – si tratti di un virus o di un incidente stradale, la logica è la stessa.

L’iceberg della realtà

C’è però più di un segnale che suggerisce che l’ideologia green, con il suo obiettivo di emissioni zero, stia affondando dopo l’urto con l’iceberg della realtà. Il problema è che ci sta trascinando a fondo con sé.

Come ha osservato Francis Menton sul suo blog, la fine dell’illusione green potrebbe non arrivare con uno o più Paesi fanatici delle emissioni zero che andranno a sbattere contro il muro delle rinnovabili, patendo scarsità e blackout continui, quindi diciamo per improvviso shock energetico.

Declino industriale

La fine del green dream (o nightmare) potrebbe somigliare più ad un declino lento ma costante dell’attività economica e della prosperità. In questo scenario, gli alti prezzi dell’energia determinati da tasse e restrizioni verdi spingono le grandi industrie a chiudere, la manifattura a contrarsi, e man mano che i buoni posti di lavoro scompaiono e i prezzi aumentano, le persone diventano gradualmente e inesorabilmente più povere.

Sembra lo scenario che stiamo già vivendo in Europa, anche alla luce delle recenti crisi industriali nel Regno Unito e in Germania – ma anche in Italia – ciascuna di esse per effetto dei prezzi dell’energia intenzionalmente spinti al rialzo nel perseguimento dell’obiettivo emissioni zero.

Menton cita l’imminente chiusura delle acciaierie di Port Talbot nel Galles, con la perdita di 2.500 posti di lavoro. “Port Talbot è stato sacrificato al dio arrabbiato di Net Zero”, è il titolo di un articolo di Allison Pearson sul Daily Telegraph:

Il prezzo elevato dell’energia nel Regno Unito rende Port Talbot non competitivo (…) Questo credo assurdo e misantropico (net zero, ndr) chiama i lavoratori britannici che perdono il lavoro “progresso”, mentre il loro carbonio verrà ora emesso in India e Cina. Il Regno Unito sarà ora l’unica nazione del G7 senza produzione di acciaio di prima classe. Fanno sul serio? Si potrebbe quasi avere l’impressione che la nazione fosse governata da una quinta colonna che ne pianificava la caduta.

L’industria dell’acciaio è particolarmente sensibile ai costi energetici. I settori ad alta intensità energetica sono i primi a risentire delle politiche climatiche, ma non saranno gli unici. Le loro difficoltà vanno anzi considerate come degli indicatori del danno che presto o tardi verrà trasferito a tutti gli altri settori economici. Le politiche climatiche unilaterali dell’Ue e del Regno Unito stanno rendendo impossibile per l’industria pesante essere competitiva.

Crisi tedesca

I dati della produzione industriale tedesca in graduale declino sembrano confermare questa tendenza. “Cosa è andato storto in Germania?”, si chiede un articolo del Times del 19 gennaio. La risposta è semplice: un mix di crisi autoinflitta dei consumi e di declino industriale altrettanto autoinflitto, causati da obblighi insensati ed elevati prezzi dell’energia derivanti dalla cosiddetta “transizione green”. Industria e consumatori sono letteralmente tormentati da tasse e burocrazia green sempre più pressanti e onerosi.

Politico osserva che nei 15 anni trascorsi dalla recessione del 2008, l’economia Usa è cresciuta di circa il 76 per cento, mentre l’economia tedesca è cresciuta solo del 19 per cento. Lo stesso periodo della Energiewende tedesca, che ha triplicato i prezzi dell’elettricità rispetto a quelli statunitensi.

Forse il brusco risveglio di uno shock energetico sarebbe preferibile ad un declino lento ma costante, nel quale siamo già immersi, che potrebbe non lasciarci il tempo di cambiare rotta prima che il danno diventi irreparabile.