La notizia è arrivata nel silenzio della notte, mentre Wall Street dormiva e i mercati asiatici erano in piena attività. Il rendimento del decennale americano ha toccato il 4,5 per cento. Un numero che ai non addetti ai lavori può sembrare insignificante, ma che nei corridoi del potere finanziario globale ha fatto scattare più di un allarme.
Quando i rendimenti dei Treasury salgono, i loro prezzi crollano. E quando i prezzi dei Treasury crollano, trilioni di dollari di ricchezza globale evaporano nel nulla digitale dei mercati. Non si tratta di mera speculazione: è la risposta del mercato ad un nuovo capitolo nel confronto tra le due superpotenze economiche del pianeta.
Le super tariffe contro la Cina, annunciate con determinazione dall’amministrazione Trump, hanno innescato quello che gli analisti chiamano “ricalibrazione del rischio”. In parole povere: gli investitori globali stanno riconsiderando quanto sia sicuro prestare denaro al governo degli Stati Uniti in un mondo dove le due maggiori economie sono in rotta di collisione.
Un campo di battaglia imprevisto
“Prima ripuliremo il Deep State, combatteremo la cultura woke e smantelleremo la burocrazia federale”. Questa era la narrazione dominante durante la campagna elettorale, la promessa che aveva galvanizzato milioni di elettori conservatori. L’America culturale prima dell’America economica: questo sembrava essere il piano.
Eppure, nella prima fase della nuova amministrazione, le priorità sembrano essersi radicalmente riconfigurate. La prima grande offensiva non è stata lanciata contro la burocrazia di Washington o contro i campus universitari, ma contro il cuore dell’apparato produttivo cinese.
Questa scelta ha una sua logica strategica: assicurare prima la forza economica dell’America per poi avere le risorse necessarie a combattere le battaglie culturali interne. Ma è una strategia non priva di rischi, soprattutto quando si consideri la complessa architettura finanziaria che lega Washington a Pechino.
L’arma segreta di Pechino
Nel grande scacchiere della geopolitica economica, la Cina detiene un’arma che raramente viene mostrata ma che tutti sanno essere presente: oltre 800 miliardi di dollari in titoli del Tesoro americano. Una cifra colossale che rende Pechino uno dei principali creditori esteri degli Stati Uniti.
Questa realtà crea un paradosso strategico degno di Sun Tzu: gli Stati Uniti stanno sfidando economicamente un Paese che potrebbe teoricamente destabilizzare il loro sistema finanziario. È come dichiarare guerra a chi tiene in mano le chiavi della propria cassaforte.
Finora, la Cina ha usato questa leva con estrema cautela. Una vendita massiccia di Treasury danneggerebbe non solo l’economia americana ma anche quella cinese, in un classico scenario “perdente-perdente”. Ma cosa accadrebbe se Pechino decidesse che il danno economico vale la pena se può indebolire la posizione negoziale americana?
Il debito pubblico americano ha raggiunto la cifra astronomica di 35 trilioni di dollari. Una montagna di obbligazioni che deve essere costantemente rifinanziata. Se i compratori globali dovessero improvvisamente chiedere rendimenti più alti per compensare il rischio geopolitico, le conseguenze si propagherebbero attraverso l’intera economia americana, dai mutui immobiliari fino ai prestiti per le piccole imprese.
La promessa del reshoring: realtà industriale o miraggio tecnologico?
“Riporteremo le fabbriche in America”. È una promessa potente, che risuona particolarmente nelle ex cinture industriali del Midwest, devastate da decenni di deindustrializzazione. Ma il mondo della produzione del 2025 non è più quello degli anni ’70 o ’80.
Le moderne linee di produzione sono dominate da robot e Intelligenza Artificiale. Una fabbrica che trent’anni fa impiegava 5.000 operai oggi può funzionare con 500 tecnici specializzati. Il reshoring, per quanto necessario per la sicurezza nazionale, difficilmente potrà replicare l’occupazione industriale di massa del secolo scorso.
Questa è la scomoda verità che sia Democratici che Repubblicani preferiscono evitare: anche se la produzione tornasse fisicamente in America, i posti di lavoro creati sarebbero fondamentalmente diversi, richiedendo competenze che molti lavoratori americani attualmente non possiedono.
La pandemia ha certamente dimostrato la pericolosità di dipendere dalla Cina per prodotti essenziali come antibiotici, dispositivi medici e componenti elettronici critici. Ma la risposta a questa vulnerabilità strategica richiede una politica industriale sofisticata, non solo tariffe punitive.
L’anello debole: i baby boomer e la trappola finanziaria
In questa grande partita geopolitica c’è una categoria di americani particolarmente vulnerabile: i baby boomer prossimi alla pensione o già pensionati. Questa generazione ha investito massicciamente nei mercati finanziari americani, con 401(k) e fondi pensione pesantemente esposti ai Treasury e all’S&P 500.
L’ironia della situazione è palpabile: molti degli stessi americani che hanno sostenuto con entusiasmo una linea più dura verso la Cina sono quelli che hanno più da perdere da una guerra commerciale che destabilizzi i mercati finanziari. Una generazione che ha vissuto il più lungo bull market della storia potrebbe trovarsi a fronteggiare una tempesta finanziaria proprio quando non ha più il tempo di recuperare le perdite.
In un Paese dove la copertura sanitaria è prevalentemente legata a polizze private, una crisi nei risparmi pensionistici potrebbe rapidamente trasformarsi in una crisi sanitaria. I costi medici in America continuano ad aumentare a un ritmo che supera l’inflazione generale, costringendo molti anziani a dipendere dai propri investimenti per coprire spese non coperte da Medicare.
Dilemma Fed: la trappola della stagflazione
Nel cuore di questo scenario si trova la Federal Reserve, l’istituzione che più di ogni altra ha il compito di mantenere la stabilità finanziaria americana. Le tariffe commerciali, per loro stessa natura, tendono ad aumentare i prezzi dei beni importati. Contemporaneamente, l’incertezza generata dalle tensioni commerciali può rallentare gli investimenti e la crescita economica.
Questo mix di inflazione più alta e crescita più bassa – la temuta stagflazione – rappresenta il peggior incubo per qualsiasi banca centrale. Se l’inflazione aumenta, la Fed dovrebbe alzare i tassi di interesse. Ma se la crescita rallenta, dovrebbe abbassarli. Cosa fare quando entrambi i problemi si presentano simultaneamente?
“La politica monetaria è come guidare un’auto guardando solo nello specchietto retrovisore”, diceva il famoso economista Milton Friedman. In questo caso, la Fed potrebbe trovarsi a guidare non solo guardando indietro, ma anche con una fitta nebbia davanti.
Rischio a lungo termine: la de-dollarizzazione
Oltre l’orizzonte immediato dei rendimenti dei Treasury e dell’inflazione si staglia una minaccia più profonda e strutturale: la potenziale erosione del ruolo del dollaro come valuta di riserva mondiale.
Per decenni, il dominio del dollaro ha conferito agli Stati Uniti quello che l’economista francese Valéry Giscard d’Estaing chiamò “un privilegio esorbitante”: la capacità di finanziarsi a tassi favorevoli e di far pagare ad altri Paesi le conseguenze della propria politica monetaria.
Ma questo privilegio non è scolpito nella pietra. Cina, Russia e altre potenze emergenti stanno attivamente cercando di ridurre la loro dipendenza dal dollaro, sviluppando sistemi di pagamento alternativi e aumentando le loro riserve in oro e altre valute.
Una guerra commerciale prolungata potrebbe accelerare questo processo, spingendo più Paesi verso un sistema finanziario multipolare dove il dollaro è solo una delle valute di riferimento, non più la valuta dominante. Le conseguenze per la capacità americana di finanziare il proprio deficit sarebbero profonde e durature.
La lezione dimenticata
La storia economica offre un precedente inquietante dell’attuale situazione. Nel 1930, in piena Grande Depressione, il Congresso americano approvò il Tariff Act, meglio noto come legge Smoot-Hawley, che impose dazi elevati su oltre 20.000 beni importati.
L’intento era proteggere i lavoratori e le industrie americane dalla concorrenza estera. Il risultato fu una serie di ritorsioni da parte di altri Paesi che contribuirono a far crollare il commercio globale del 66 per cento tra il 1929 e il 1934, aggravando e prolungando la depressione economica.
Certamente, l’economia globale del 2025 è radicalmente diversa da quella del 1930, e le tariffe attuali sono più mirate e selettive. Ma il principio di base – che le guerre commerciali tendono a danneggiare tutte le parti coinvolte – rimane valido.
Tre scenari, dal compromesso alla crisi
Come potrebbe evolversi questa complessa situazione? Possiamo delineare tre scenari principali:
- Lo scenario del compromesso strategico: Dopo una fase iniziale di tensioni e test reciproci, Stati Uniti e Cina raggiungono un nuovo equilibrio commerciale. Le tariffe vengono utilizzate come leva negoziale, non come politica permanente. I mercati, dopo una fase di volatilità, si stabilizzano su nuovi livelli di equilibrio. Questo è lo scenario più favorevole e, storicamente, il più probabile.
- Lo scenario del confronto contenuto: Le tensioni commerciali persistono ma rimangono sotto la soglia della crisi sistemica. L’economia globale si frammenta progressivamente in sfere di influenza, con catene di approvvigionamento riconfigurate per ridurre le interdipendenze critiche. L’America affronta costi di aggiustamento significativi ma gestibili, con settori vincitori e perdenti chiaramente definiti.
- Lo scenario della crisi finanziaria: Le tensioni commerciali innescano una reazione a catena nei mercati finanziari. La Cina riduce significativamente i suoi acquisti di Treasury, costringendo la Fed a interventi massicci per stabilizzare il mercato obbligazionario. I costi di finanziamento per il governo e per le imprese americane aumentano bruscamente, innescando una recessione. Questo scenario, benché meno probabile, non può essere escluso, soprattutto se errori di comunicazione o calcoli politici dovessero portare a un’escalation incontrollata.
Strategia, non solo tattica
Il confronto economico con la Cina è una partita che si gioca simultaneamente su molteplici scacchieri: commerciale, finanziario, tecnologico, geopolitico. Una mossa su un tavolo inevitabilmente influenza gli equilibri sugli altri.
La sfida per l’amministrazione Trump non è tanto se affrontare gli squilibri commerciali con la Cina – un obiettivo largamente condiviso anche al di là delle divisioni partitiche – quanto come farlo minimizzando i contraccolpi sul sistema finanziario domestico e sugli alleati internazionali.
Il vero test di leadership sarà trovare un equilibrio tra determinazione e flessibilità, tra pressione e dialogo, tra interessi economici immediati e posizionamento strategico a lungo termine. Una politica commerciale efficace deve essere integrata in una strategia economica complessiva che includa investimenti in ricerca, formazione, infrastrutture e reti di sicurezza sociale.
Tra ambizioni culturali e realtà economiche
All’inizio del nuovo mandato, molti sostenitori si aspettavano che le priorità dell’amministrazione sarebbero state la lotta al Deep State, il contrasto alla cultura woke e lo smantellamento della burocrazia federale. Queste battaglie culturali e istituzionali restano sicuramente nell’agenda, ma sembrano essere state momentaneamente superate dall’urgenza della ridefinizione dei rapporti economici con la Cina.
Questa scelta potrebbe rivelarsi saggia se una posizione economica rafforzata fornisse le risorse e la stabilità necessarie per affrontare poi le sfide interne. Ma potrebbe anche rivelarsi rischiosa se l’instabilità finanziaria finisse per compromettere la capacità di implementare qualsiasi altra riforma significativa.
Conclusione: posta in gioco oltre l’economia
La “danza pericolosa” tra il Dragone e l’Aquila sui mercati globali è molto più di una disputa commerciale: è una ridefinizione del potere economico mondiale per i prossimi decenni. Una partita dove la posta in gioco comprende non solo bilance commerciali e quote di mercato, ma il futuro stesso del sistema economico occidentale.
Il rendimento del 4,5 per cento sui Treasury americani è un segnale che merita attenzione. Non è ancora un allarme rosso, ma certamente una luce gialla che lampeggia sul cruscotto dell’economia americana. Ignorarla in nome di obiettivi politici a breve termine potrebbe rivelarsi un errore strategico costoso.
L’America ha tutte le risorse – economiche, tecnologiche, umane – per affrontare con successo questa sfida epocale. Ma il successo richiederà una combinazione di fermezza strategica e flessibilità tattica, di visione a lungo termine e pragmatismo nelle scelte quotidiane.
Il Dragone e l’Aquila continueranno la loro danza sui mercati globali. Resta da vedere se questa danza si trasformerà in un elegante balletto di reciproco adattamento o in un pericoloso combattimento con conseguenze imprevedibili per entrambi i contendenti e per l’intero sistema economico mondiale.