A volte capita che delle questioni minori finiscano per catalizzare l’attenzione e assumere un alto valore simbolico. In un dibattito politico molto polarizzato capita spesso ed è questo il caso delle polemiche sull’obbligo del Pos per gli esercenti.
Per una serie di motivi la misura concepita dal governo Meloni di abolire non l’obbligo in sé per i pagamenti al di sotto dei 60 euro, ma la sanzione, è davvero improbabile che sortisca effetti percepibili in termini di comportamenti. Vuoi per l’obbligo stesso, vuoi per la pandemia, ormai dai commercianti ai tassisti quasi tutti si sono adeguati e difficilmente tornerebbero indietro privandosi del Pos.
Due visioni
Eppure, ieri lo scontro politico e mediatico tra i favorevoli e i contrari all’obbligo è stato caldissimo. Vale la pena di tornarci, perché ad Atlantico Quotidiano diamo enorme importanza alle battaglie culturali e qui, di rado così chiaramente, sono in gioco due visioni opposte: da una parte chi crede nel libero mercato, nella libertà degli attori economici, dall’altra chi ritiene che lo Stato debba usare il suo potere coercitivo per influenzarne i comportamenti, anche se fino a prova contraria nulla di illecito viene commesso.
Il colmo, come vedremo, viene raggiunto quando si pretende di giustificare una politica dirigista con l’esito “liberale” che produrrebbe.
La libertà delle parti
Il Pos è un servizio dietro il quale ci sono tecnologia e lavoro per far sì che funzioni. Ha quindi i suoi costi ed è legittimo che le banche richiedano un corrispettivo, che non si può definire “strozzinaggio”. D’altra parte, proprio in quanto servizio a pagamento, obbligare qualcuno ad avvalersene è una imposizione statalista, che non ha nulla di liberale. Su questo non dovrebbe esserci discussione.
Dovrebbe restare alle parti, chi vende e chi acquista, nella loro libertà contrattuale, definire anche le modalità del pagamento. Più in concreto, chi vende ha il “potere” di stabilire il prezzo e indicare le modalità di pagamento, ma chi compra ha il “potere” di non accettare né il primo né le seconde e rivolgersi ad un altro venditore.
Si chiama mercato. Ed è ciò che favorisce l’incontro tra l’esigenza del venditore di vendere massimizzando i suoi guadagni e l’esigenza del consumatore di comprare al miglior prezzo e alle condizioni più favorevoli.
L’intruso
Non si vede con quale diritto (ripeto: in un’ottica liberale) un terzo attore, lo Stato – che già depreda entrambi del 22 per cento del valore dello scambio per il solo fatto di esistere, un vero e proprio “pizzo” – dovrebbe imporre ad entrambi una modalità di pagamento che richiede l’acquisto di un servizio offerto da un altro privato.
Tutto da dimostrare l’effetto anti-evasione (ma se fosse così rilevante, e così trascurabili i costi, potrebbe rimborsarli lo Stato). Qualcuno vi vede piuttosto l’interesse di una forte lobby, ma non è qui che vogliamo arrivare.
Le commissioni bancarie
Quali che siano le commissioni richieste dalle banche, pare tra l’1 e il 3 per cento, non si tratta di cifre trascurabili come suggeriscono i sostenitori dell’obbligo. In modo fuorviante, infatti, si rapportano queste percentuali al lordo della transazione, ovvero all’incasso.
Ma alla somma incassata va innanzitutto sottratto il 22 per cento di Iva. Sul restante bisogna considerare il costo della merce e i costi di attività del venditore. I margini di guadagno variano molto a seconda della categoria di bene o servizio, ma è chiaro che l’utile è una frazione, spesso minima, di quanto incassato.
Poniamo il caso di un pagamento di 60 euro, il limite indicato dal governo. Se anche la commissione per l’uso del Pos fosse dell’1 per cento, in realtà quei 60 centesimi incidono molto di più dell’1 per cento sull’utile del commerciante, che può essere di 20, o anche 10 euro, fino ad arrivare al caso limite citato da Confesercenti: “Un rifornimento di benzina di 50 euro, pagato con alcune carte di credito, porta addirittura al di sotto dello zero il margine del benzinaio”.
A rimetterci, nella maggior parte dei casi, non è solo il negoziante ma anche il consumatore. Proprio come l’Iva, la commissione bancaria, un costo legato non al bene ma alla modalità di pagamento, porta via “valore” a entrambi.
Tutti i costi di un bene o servizio contribuiscono infatti alla formazione del prezzo finale. Negli Stati Uniti non è raro imbattersi in stazioni di rifornimento che riportano un prezzo maggiorato per chi paga con carta.
Ma il prezzo finale non è qualcosa nella totale disponibilità dell’esercente, non è che può traslare automaticamente qualsiasi tassa o costo occulto, perché il bene o servizio rischia poi di non venderlo.
Se conviene, non c’è bisogno di obblighi
Insomma, se un servizio è più comodo per tutti a costi accettabili si diffonde senza obblighi. Ma questo dovrebbe avvenire nella libera contrattazione tra le parti.
Che il Pos sia più comodo per il consumatore non ci piove. Ma anche per i commercianti la gestione del contante ha i suoi grattacapi, tanto è vero che l’uso del Pos si è diffuso moltissimo negli ultimi anni anche senza obblighi, come mostrano inequivocabilmente i dati di Confesercenti.
“Strumento di libertà”
Però lo Stato non si accontenta, vuole esercitare il controllo totale e per questo insegue fino all’ultimo dei recalcitranti, per quanto ciò possa risultare anti-economico. Esattamente come ha fatto con i vaccini anti-Covid.
Si può legittimamente essere a favore dell’obbligo del Pos, ma quello che non possiamo proprio accettare è che si pretenda di farlo passare come uno “strumento di libertà”. Sarebbe la stessa operazione mistificatoria che fu compiuta con il Green Pass. Anche allora si pretendeva di presentarlo come “strumento di libertà”.
E infatti sono gli stessi a provarci di nuovo con l’obbligo del Pos… Sarà anche a fin di bene, ma un obbligo resta un obbligo e toglie libertà, non la aumenta. La rimozione dell’obbligo restituisce libertà alle parti su una transazione che dovrebbe riguardare solo loro.