Economia

Non solo auto, nel baratro green intere filiere. Le lacrime di coccodrillo dei manager

L’automotive non è l’unica eccellenza industriale europea desertificata. Cosa dicono oggi i manager che hanno cavalcato le follie green? Ecco il fratello gemello di Cingolani

Auto elettriche Cingolani (1)

Quando si pensa ai disastri che sta causando la follia ideologica “finto-green” in Ue, subito la mente corre alla distruzione dell’industria europea dell’auto. È sotto gli occhi di tutti infatti il clamoroso fallimento dell’auto elettrica che, estintasi la fiammata iniziale legata essenzialmente agli acquisti da parte delle categorie più abbienti e delle società per il rinnovo (fortemente incentivato) delle flotte aziendali, nessuno vuole più acquistare nonostante gli ingenti incentivi economici che tuttora vengono generosamente elargiti dagli Stati membri.

La montagna costituita da anni di martellante pubblicità a tutti i livelli ha quindi prodotto il topolino di una fetta di mercato a una sola cifra, un vero e proprio fallimento epocale che era fin troppo facile pronosticare tenendo conto del buon senso: nessuno tra coloro che usano l’auto in maniera sistematica desidera infatti impelagarsi in una tecnologia che offre autonomia effettiva di percorrenza limitatissima, che necessita di tempi di ricarica della batteria biblici e che non ha alcun mercato dell’usato.

Le responsabilità dei CEO

Duole dirlo ma negli ultimi anni l’industria europea dell’auto è stata purtroppo nelle mani di una schiera di amministratori delegati inetti che hanno preferito adeguarsi supinamente alle follie ideologiche del Green Deal sperando in chissà quale rivoluzione industriale – non senza ricavare lauti guadagni personali da questa loro pedissequa fedeltà alla causa – e finendo miseramente oggi col pietire incentivi per la sopravvivenza o, peggio, ricattare i governi minacciando licenziamenti, come recentemente fatto da Carlos Tavarez, l’amministratore delegato di Stellantis.

In meno di un decennio, queste mezze calzette hanno provocato la distruzione del know-how di eccellenza che l’industria automobilistica europea poteva a buon diritto vantare sui motori endotermici e che ora è ridotto al lumicino a causa dei tagli ai finanziamenti interni in ricerca e sviluppo conseguenti al taglio della produzione di auto a motore endotermico, che ha trascinato con sé in questa rovinosa caduta anche tutto l’indotto. Insomma: un deserto tecnologico autoinflitto da cui sarà praticamente impossibile venire fuori nel breve/medio periodo.

Mesi fa, dalle colonne di questo stesso giornale, avevamo tentato di darci una spiegazione a questo approccio apparentemente incomprensibile (qui), spiegazione che oggi appare più attuale che mai.

Non solo automotive

Tuttavia, l’automotive non è l’unica eccellenza europea distrutta dalle follie finto-green; l’Ue sta perdendo competitività persino in settori impiantistici strategici in cui, fino a qualche anno fa, dettava legge in tutto il mondo. Parliamo di intere filiere industriali come quella siderurgica e quella delle centrali termoelettriche.

Impianti siderurgici

Le vicende dell’acciaio italiano sono plasticamente simboleggiate dal fallimento di trent’anni di politiche industriali dell’acciaieria di Taranto, negli anni ’80 il fiore all’occhiello della siderurgia europea ed oggi ridotta all’ombra di se stessa.

Non entreremo nel merito delle vicissitudini dell’ex “Italsider” di Taranto in termini di danno ambientale causato al territorio e beghe giudiziarie ad esso connesso, tutte cose che esulano dallo scopo di questo articolo e che potrete comunque seguire con molto più profitto leggendo i resoconti di bravissimi giornalisti, tra i quali vi consiglio senza dubbio la giornalista tarantina Annarita Digiorgio, ma ci limiteremo a registrare le patetiche contorsioni logiche legate al dilemma “green” di come renderlo a emissioni zero di CO2. Eh sì, perché, tuttora, esso trae il suo fabbisogno energetico bruciando carbon coke ma, nell’ottica finto-green, adesso dovrebbe essere rimpiazzato da “energia pulita”.

Sì ma quale? Le ipotesi sul tappeto sono due: riconvertendo tutto in elettrico e alimentando lo stabilimento di Taranto con l’energia elettrica prodotta dal fantomatico parco eolico offshore “Dorada” (ricordate? Tempo fa parlammo qui di questo costruendo ecomostro che devasterà la skyline delle coste salentine, da Manduria a Santa Maria di Leuca), oppure utilizzando il mitologico “idrogeno verde”, l’idrogeno ottenuto cioè per elettrolisi dall’acqua utilizzando energia elettrica prodotta da sole fonti rinnovabili.

Tuttavia, questa seconda ipotesi sarebbe ancora meno efficiente della prima in quanto, come è noto, i rendimenti di conversione dell’energia elettrica in idrogeno verde trasportato via idrogenodotto sono dell’ordine del 59 per cento. In altre parole, quasi la metà dell’energia elettrica da fonte rinnovabile così faticosamente prodotta (41 per cento) verrebbe persa nel processo di conversione.

In attesa che questo busillis venga risolto, lo stabilimento di Taranto continua ovviamente a bruciare carbon coke ma a capacità ridottissima (meno di un quarto della sua massima capacità produttiva) mentre il rimanente fabbisogno di acciaio è soddisfatto da quello proveniente dal sudest asiatico che lo produce bruciando, neanche a dirlo, quello stesso carbon coke che noi non vogliamo più avere tra i piedi.

In altre parole, per paura della CO2 emessa, il brillantissimo risultato ottenuto in questi ultimi vent’anni è stato quello di ridurre significativamente la produzione italiana di acciaio ed imporre la trasformazione in elettrico a tappe forzate del grosso delle acciaierie, di modo che oggi il 75 per cento dell’acciaio (16 milioni di tonnellate annue) è prodotto con l’energia elettrica, appunto, a prezzi elevatissimi. È il caso degli acciai speciali e di alta qualità che hanno raggiunto ormai costi proibitivi.

I numeri fanno accapponare la pelle: in soli 20 anni, siamo passati da 31,6 milioni di tonnellate di acciaio prodotto nel 2006 a 20 milioni di tonnellate di acciaio prodotto nel 2023, un calo del 37 per cento.

Centrali termoelettriche

Un altro settore che è stato fortemente impattato dalle follie finto-green è quello delle centrali termoelettriche a carbone che, contrariamente all’idea ottocentesca in stile “padrone del vapore” che la stragrande maggioranza della gente ha al riguardo, oggi sono tra le installazioni industriali più sicure ed ambientalmente compatibili che vi siano.

Ciò in quanto i sistemi di ambientalizzazione a loro corredo – sistemi di cattura e abbattimento delle ceneri leggere (cicloni, elettrofiltri, economizzatori, ecc.), sistemi di trasporto e stoccaggio delle ceneri di fondo caldaia, sistemi di desolforazione (DeSOx), sistemi di riduzione degli ossidi di azoto (DeNOx), ecc. – garantiscono la rispondenza alle più restrittive normative Ue in vigore in materia di emissioni di composti azotati (NOx), composti solforosi (SOx), monossido di carbonio (CO), polveri sottili (PM10 e PM2.5) e ogni altra emissione nociva per la salute umana e per l’ambiente. Giova in tal proposito menzionare brevemente quali sono i limiti di legge odierni:

SOx:

  • Limite medio giornaliero: 125 µg/m3, da non superare più di 3 volte all’anno
  • Limite medio orario: 350 µg/m3, da non superare più di 24 volte l’anno

NOx:

  • Limite medio orario: 200 µg/m3, da non superare più di 18 volte all’anno
  • Limite medio annuo: 40 µg/m3

CO:

  • Limite medio giornaliero: 10 mg/m3

PM10:

  • Limite medio giornaliero: 50 µg/m3, da non superare più di 35 volte all’anno
  • Limite medio annuo: 40 µg/m3

PM2.5:

  • Limite medio annuo: 25 µg/m3

Il controllo legale di queste emissioni viene effettuato in tempo reale direttamente alla sommità della ciminiera per mezzo di un sistema di misura di proprietà dell’ARPA competente (Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente), il quale è indipendente dal resto dei sistemi di centrale. Tale sistema di contabilizzazione legale condivide i dati istante per istante con la sala controllo della Centrale per le relative eventuali contromisure da mettere tempestivamente in atto in caso di superamento di uno o più di questi limiti.

La fobia della CO2

La produzione di energia elettrica ottenuta utilizzando il carbone come combustibile porta con sé un livello di emissioni di CO2 di circa 0,8 kgCO2/kWh, emissioni di CO2 che – vale la pena ripeterlo – per nessun motivo sono da considerarsi come “inquinanti”.

Tuttavia, a causa della fobia ingiustificata per le parole “carbone” ed “emissioni di CO2 indotta da vent’anni di lavaggio del cervello da parte del mainstream, abbiamo finito per autoinfliggerci anche lo spegnimento delle centrali a carbone italiane che, ribadiamolo, sono invece il fiore all’occhiello della nostra impiantistica e che – è opportuno ricordarlo – furono tutte profondamente revisionate negli anni 2000-2010 proprio per rispondere alle sempre più stringenti normative Ue e per le quali furono spese decine di miliardi di euro di fondi italiani ed europei.

Soldi andati quindi letteralmente in fumo per il rifacimento delle centrali di Torre Valdaliga Nord, Brindisi Sud, Fiumesanto, Sulcis, Monfalcone, La Spezia, Fusina, solo per citare le principali.

I costi nascosti di eolico e fotovoltaico

Una delle obiezioni che spesso si sente a proposito della produzione di energia elettrica dal carbone è, oltre che naturalmente i livelli di CO2 emessa, anche quella del costo di generazione che sarebbe molto più alto delle tecnologie rinnovabili. In effetti, se si analizza il costo livellato dell’energia (Levelized Cost of Energy – LCOE) per fonte di generazione, quello da carbone è apparentemente, insieme al fotovoltaico domestico, il doppio di quello calcolato per i parchi eolici e fotovoltaici (140 euro/MWh contro 70 euro/MWh – pag. 131 qui).

Tuttavia, il computo dell’LCOE per le tecnologie rinnovabili implementate su vasta scala – i parchi eolici e fotovoltaici, appunto – non tiene conto dei costi “nascosti” che, pur non essendo strettamente riconducibili ad esse, sono comunque indissolubilmente legati alla modalità della loro produzione di energia elettrica. Parliamo cioè dei costi “nascosti” legati all’intermittenza della generazione, allo stoccaggio e alla trasmissione.

Ad esempio, perché l’offerta di energia sia sempre pari alla domanda, occorre che debba esserci sempre capacità di generazione da fonte fossile pronta all’occorrenza, virtualmente a completo servizio dei parchi eolici e fotovoltaici, per sostenere la domanda quando mancano sole e vento. Ciò comporta che quelle centrali termoelettriche asservite a fare da complemento alle fonti rinnovabili lavorino con costi di gestione altissimi per via dei ridotti volumi di generazione, costi che non vengono considerati nel computo dell’LCOE per i parchi eolici e fotovoltaici.

Analogamente, laddove si considerino i costi legati all’accumulo di energia per compensare l’intermittenza della generazione, ecco che l’LCOE di parchi eolici e fotovoltaici schizza immediatamente dai circa 70 euro/MWh a 120-140 euro/MWh, cioè tanto quanto il carbone, come recentemente messo nero su bianco in un report della School of Management del Politecnico di Milano (pag. 43 qui).

L’impiantistica italiana oggi

E l’impiantistica italiana? Oggi le commesse che consentono alle nostre aziende del settore di prosperare provengono tutte, inutile dirlo, dall’Asia (la stragrande maggioranza), dall’Australia e dal Sud America, per via dei loro grossi giacimenti di carbone.

Parliamo di aziende altamente specializzate nella progettazione delle caldaie (Ansaldo, STF), specialisti EPC (Engineering, Procurement and ConstructionTecnimont, Termomeccanica), MH (Materials HandlingMagaldi, Young-Massa), sistemi di ambientalizzazione (Termokimik) e specialisti di processo che svolgono la loro attività industriale quasi del tutto interamente all’estero, mettendo il loro ingegno e le loro idee al servizio dei loro committenti stranieri.

E i manager della strategia finto-green?

Incredibile a dirsi, nessuno dei fautori di questa desertificazione industriale sta pagando pegno per aver sostenuto le follie finto-green nel corso degli ultimi vent’anni: dai top manager dell’automotive al neo-presidente di Confindustria Emanuele Orsini, in passato uno dei più accesi sostenitori della “transizione green”, oggi folgorato sulla via di Damasco; dall’amministratore delegato di ENI De Scalzi – che in passato ha spinto notevolmente anch’egli sulla cosiddetta “transizione energetica” contribuendo significativamente a costruire la narrazione finto-green e anch’egli oggi folgorato sulla via di Damasco – per finire all’ex ministro della transizione ecologica del governo Draghi, Roberto Cingolani, dal 2023 amministratore delegato di Leonardo. Proprio quest’ultimo, in una recentissima intervista rilasciata all’editoriale Aliseo, ha fatto affermazioni di cui riportiamo alcuni passaggi significativi:

L’Europa ha fatto un po’ una figura, diciamo, barbina perché noi pensavamo di esser furbi – no? – delocalizzavamo in Cina perché lì si pagava di meno la manodopera e poi lì facevano i chip. Poi abbiamo avuto una serie di ideologi che ci hanno detto che l’auto a batteria avrebbe risolto tutti i problemi del mondo: bastava fare due conti ed era una sciocchezza. Altri ideologi che ci dicevano in piena crisi climatica (ma quale “crisi climatica”??, ndr): “si fa tutto con l’eolico e il fotovoltaico”! Era fisicamente sbagliato: non è una questione di idee, erano i watt, era la fisica che non funzionava. Chi raccontava queste cose senza sapere di cosa parlava, oggi dovrebbe pagare un po’ il pegno dell’errore che è stato fatto. Eppure siamo stati ubriachi, eh? Abbiamo avuto una Commissione europea che ha spinto in maniera ideologica su certe cose e ora ci rendiamo conto che abbiamo distrutto intere filiere industriali, non è solo l’automotive. L’Italia in particolare, oltre a questo, c’ha anche il prezzo dell’energia più alto degli altri perché ha rinunciato in maniera ideologica al nucleare e adesso ci rendiamo conto che è un po’ più difficile competere. Quando tu permetti alla gente di mentire per cinque anni agli alti livelli istituzionali dicendo cose che fisicamente non si reggono in piedi, a un certo punto ti risvegli una mattina e dici: “abbiamo sbagliato tutto!”. Ora si cercherà di inseguire, di riparare, di mettere una toppa.

Strano, l’editoriale Aliseo deve aver intervistato un omonimo dell’ex ministro che, nel fortunatamente breve periodo a capo del Ministero della “transizione ecologica” – così fu rinominato il Ministero dell’ambiente da Mario Draghi che volle, volle, fortissimamente volle chiamarlo così proprio per accentuarne l’impronta ideologica di adesione pedissequa alla fuffa finto-green di Ursula von der Leyen – è ricordato piuttosto per essersi adeguato anch’egli supinamente ai diktat della suddetta Ursula in materia di “transizione green” senza fare un plissé.

Abbiamo peraltro ancora tutti davanti agli occhi il momento più alto del suo ministero quando, a colloquio non con un capo di Stato, non con un omologo ministro dell’ambiente ma nientepopodimenochè – rullo di tamburi! – con Greta Thunberg, le si accovacciò davanti – i maligni dicono che le si inginocchiò davanti – in trepidante ascolto. Ebbene, deve trattarsi sicuramente di un omonimo.

In caso contrario, verrebbe proprio da dirgli: “Buongiorno, principessa!” per tutte le tardive parole di buon senso pronunciate nonché da ricordargli che anche lui fa parte della schiera dei miracolati che non hanno pagato dazio, essendo stato “promosso” ad amministratore delegato di Leonardo, mica pizza e fichi!

Ma, ricordando che questo è il Paese del Gattopardo (cambiare tutto perché nulla cambi), la nostra meraviglia lascia subito il posto all’amara constatazione che, ancora una volta, a pagare saremo sempre e solo noi poveri mortali.