Lo scorso 31 marzo è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il nuovo Codice dei Contratti Pubblici che ha suscitato notevoli (e talvolta scomposte) reazioni. La vicenda è a suo modo paradigmatica della strumentale faziosità di molta parte della stampa italiana.
La faziosità della stampa
Infatti, i lavori di redazione del Codice sono stati avviati e sostanzialmente conclusi sotto lo scorso governo e hanno seguito un iter singolare, poiché si è dato mandato al Consiglio di Stato di redigere il testo in virtù di una antica disposizione di legge, quasi mai applicata.
Probabilmente ciò è stata una intuizione del precedente sottosegretario alla presidenza, Roberto Garofoli, anche lui membro del Consiglio di Stato, che è certamente l’organo in cui risiedono le migliori competenze in materia di affidamenti pubblici.
Il governo Meloni si è quindi trovato subito il nuovo codice pronto e difatti in uno dei suoi primi Consigli dei ministri lo ha avviato al suo iter approvativo concluso qualche giorno fa con lievi ritocchi. C’è da scommettere che se nel frattempo non fosse intervenuto il cambio di maggioranza, avremmo letto cronache trionfalistiche e invece oggi compaiono letture apocalittiche che fanno presagire uno scempio diffuso alla legalità.
Il pessimo codice di Renzi
Eppure, siamo in presenza di un testo normativo che meriterebbe una maggiore attenzione, senza ovviamente cadere nell’errore opposto di assegnargli virtù taumaturgiche sugli endemici mali italiani, come forse era accaduto al precedente codice del 2016. Ed è singolare osservare il diverso modo in cui i due codici sono stati accolti:
– nel 2016 il codice del Governo Renzi che dava ampi poteri all’Anac di Raffaele Cantone fu declamato come un trionfo, malgrado una pessima redazione (all’epoca si è registrata la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della più estesa errata corrige di un testo normativo nella storia dell’Italia unita con diverse centinaia di refusi e veri errori corretti) curata dall’ex capo dei vigili urbani del Comune di Firenze e alcune innovative idee poi rivelatesi non molto felici, come la previsione di poteri regolatori all’Autorità indipendente competente.
– oggi il codice è stato redatto dal Consiglio di Stato, massimo organo della giustizia amministrativa, da una commissione guidata dal presidente Luigi Carbone, illustre giurista, ed è, come vedremo, un testo onnicomprensivo e definitivo.
Un testo subito applicabile
In primo luogo, infatti, va fatto notare che siamo in presenza di un testo normativo immediatamente applicativo, nel senso che non richiede la produzione di atti normativi secondari e/o attuativi: è un testo autonomo e completo.
Già questa novità rappresenta una vera rivoluzione rispetto ad una prassi legislativa che infittisce gli atti normativi di rinvii regolamentari o attuativi che spesso finiscono con il renderli lettera morta.
Si tratta del noto fenomeno in dottrina delle “norme manifesto” destinate a restare inoperative per lungo tempo, poiché magari frutto di compromesso politico molto fragile o di volontà maliziose con cui si dichiara di avere realizzato una riforma che in realtà non si vuole, confidando che giornalisticamente i titoli sono garantiti con la sola adozione dei testi normativi.
Sono solo gli addetti ai lavori che seguono poi il lungo percorso attuativo che ha dato vita a molti osservatori che compiono periodicamente questo lavoro di ricognizione dei provvedimenti attuativi delle leggi e degli atti con forza di legge.
Approccio rivoluzionario
In secondo luogo, il Codice rivoluziona l’approccio alla materia, dando priorità al principio di risultato nella convinzione che lo svolgimento dell’appalto deve avere come principale compito quello di garantire alla pubblica amministrazione la ricerca e la selezione del migliore offerente affinché il lavoro (la fornitura o il servizio) sia realizzato nel modo più satisfattivo dell’interesse pubblico.
Detto altrimenti, la concorrenza è lo strumento e non più il fine della disciplina codicistica e l’appalto un mezzo per favorire la realizzazione dell’interesse pubblico. Non ha senso che si svolga una perfetta e partecipata gara d’appalto se poi il lavoro che ne consegue non è idoneo a soddisfare l’interesse pubblico.
Questa inversione di prospettiva è la causa di molte modifiche normative rispetto alla precedente disciplina che sostanzialmente tendono ad esaltare il momento valutativo della pubblica amministrazione.
Ciò paradossalmente è maggiormente oneroso per le pubbliche amministrazioni perché la discrezionalità non è sinonimo di arbitrio e anzi espone al vizio di eccesso di potere nel caso (non infrequente) in cui la scelta assunta non sia ragionevole e/o ben argomentata e istruita.
La digitalizzazione
In terzo luogo, si deve evidenziare l’obbligatorietà della completa digitalizzazione di tutte le procedure a partire dal prossimo 1° luglio che darà intenso impulso al processo di innovazione digitale delle pubbliche amministrazioni e delle sue infrastrutture informatiche, nonché della miriade di operatori economici interessati ai pubblici affidamenti.
L’affidamento diretto
Infine, sembra opportuno soffermarsi sulla paradigmatica polemica sull’affidamento diretto per i lavori inferiore a 150 mila euro, poiché ci pare espressione della non più eccelsa onestà intellettuale.
Innanzitutto, l’affidamento diretto è comunque un procedimento di scelta del contraente e dunque, seppur con un minore formalismo rispetto alle gare, è soggetto alle ordinarie regole del procedimento amministrativo che prevedono la sua motivazione, la quale sarà quanto più estesa e approfondita quanto maggiore è il margine di discrezionalità esercitato.
Le gare su misura
E chiunque operi nel settore della contrattualistica pubblica potrebbe benissimo convenire che gli operatori meno ammirevoli, quelli incompetenti o pigri o disonesti, prediligono le procedure ove sono meno esposti, schermandosi magari dietro procedure di gara apparentemente aperte alla più ampia concorrenza e invece disegnate su misura con diverse tecniche: capitolati orientati a precise scelte tecniche che favoriscono indirettamente determinati operatori; requisiti di partecipazione con finalità selettivamente escludenti; criteri di punteggio prevalentemente tabellari ma pensati sartorialmente.
In tali ipotesi, a ben vedere dietro scelte apparentemente neutre o vincolate si possono mascherare scelte ampiamente discrezionali che però talvolta non emergono nitidamente. A titolo meramente esemplificativo, l’esclusione di un operatore per mancanza di un requisito appare un provvedimento vincolato (non hai il requisito richiesto e dunque devo escluderti), ma è frutto dell’esercizio anteriore di discrezionalità che non sempre si manifesta chiaramente o è facilmente aggredibile in sede giurisdizionale, soprattutto se espressione della c.d. discrezionalità tecnica.
Soglia irrisoria
Inoltre, tornando alla questione dell’affidamento diretto di lavori, pochi hanno messo in evidenza la sostanziale irrisorietà dell’importo entro cui si può adottare questa tipologia di procedura di scelta del contraente e cioè 150.000 euro.
Una cifra ridicola per dei lavori pubblici, tant’è che la soglia comunitaria per i lavori pubblici (l’importo sopra il quale è obbligatorio svolgere una gara comunitaria) è situata molto più in alto: 5.382.000,00 euro. Basti pensare che la ristrutturazione totale (con rifacimento degli impianti elettrico e idrico) di un ampio appartamento privato in una grande città può avere un costo superiore ai 150.000 euro.
Stiamo quindi parlando davvero di piccoli affari che sembrano giustificare l’adozione di procedure amministrative snelle per di più corroborate dall’obbligo di rotazione che garantisce una concorrenza di operatori nello svolgimento dell’appalto, seppure su un piano di successione temporale: oggi affido direttamente a Tizio l’appalto; domani a Caio e dopodomani a Sempronio etc.
Vero cambiamento
In conclusione, senza cedere a trionfalismi che sono sempre poco opportuni davanti ad una ampia riforma normativa che richiede necessariamente un minimo periodo di “rodaggio” e “messa a punto” giurisprudenziale per la sua stabilizzazione, si può sostenere che siamo in presenza di un importante fattore di cambiamento attraverso il deciso input verso la totale digitalizzazione della procedura e la preferenza di logiche “manageriali”, il primato del principio di risultato, rispetto a logiche di mera legalità formale.