Economia

Perché i dazi sui prodotti “green” cinesi sono solo un pannicello caldo

Le politiche protezionistiche mitigano in parte solo gli squilibri economici ma lasciano inalterate tutte le follie “green”. Serve un cambio radicale di paradigma

auto elettrica Europa Cina

Ha fatto molto scalpore la recente decisione dell’amministrazione Dem Usa di varare misure a protezione dell’industria interna nei confronti della Cina. Ne ha scritto anche Federico Punzi su Atlantico Quotidiano lo scorso 15 maggio: Joe Biden rincara i dazi su una serie di prodotti della cosiddetta “transizione green” importati dal Paese del Dragone, dal 25 al 100 per cento sulle auto elettriche, dal 7,5 al 25 per cento sulle batterie per auto elettriche, dal 25 al 50 per cento sui pannelli solari e dallo 0 e 7,5 per cento al 25 per cento rispettivamente su acciaio e alluminio.

Insomma: una vera e propria folgorazione sulla via di Damasco per Joe Biden il quale, solo fino a poco tempo fa, era il più strenuo oppositore della politica di dazi varata dall’amministrazione Trump. Ma si sa, al cuore – e al portafogli – degli americani non si comanda e questo è l’anno delle elezioni presidenziali, il momento della verità per Sleepy Joe, come Biden viene canzonatoriamente soprannominato dal suo rivale Donald Trump.

Detto tra noi, occorre dire per onestà intellettuale che un ottuagenario palesemente affetto da deficit cognitivi non sarebbe per definizione il candidato ideale a disporre della valigetta atomica ma tant’è: evidentemente, i Dem Usa sono davvero disposti a tutto pur di continuare a detenere il potere nelle loro mani. E poi hanno dietro le quinte l’arma segreta, il “papa nero”, quel Barack Obama che le malelingue dicono sia al suo terzo mandato, e chissà che non riesca a farne anche un quarto…

Ma non divaghiamo troppo e torniamo a noi. L’articolo di Punzi stigmatizza poi, per contro, l’atteggiamento servile dell’Ue nei confronti degli stessi prodotti cinesi e la totale assenza di una politica protezionistica che possa salvaguardare l’industria europea, con i vertici Ue del tutto proni alle mire espansionistiche cinesi, non si sa bene se per manifesta incompetenza o altro.

I dazi non sono la soluzione

Tuttavia, se da un lato i dazi sulle importazioni garantiscono un certo riequilibrio economico tra prezzi dei prodotti costruiti in Paesi in cui il costo della manodopera è bassissimo e quelli costruiti invece in Occidente, essi comunque non sono la soluzione, per lo meno non nel settore delle tecnologie cosiddette “green”.

Un primo motivo lo identifica lo stesso Punzi nel suo articolo: a proposito di auto elettriche, ad esempio, la Cina sta già mettendo in campo le necessarie contromisure alle spinte protezionistiche statunitensi: le principali aziende automobilistiche di auto elettriche cinesi – Byd, MG e Chery – stanno costruendo stabilimenti in Messico, il cortile di casa degli Usa, e, checché ne dica Trump, non sarà affatto facile imporre gli stessi dazi su quelle auto messicane; ciò in forza dei trattati commerciali in essere tra Stati Uniti e Messico e, comunque, in forza del buon senso.

Ma c’è un altro motivo, ben più profondo, che porta ad affermare che i dazi di importazione non sono la soluzione nel settore “green” e le radici sono invece nel concetto stesso di “green”.

Ma riavvolgiamo il nastro e vediamo da dove nasce l’idea di auto elettrica “ecologica”. La genesi dell’idea che un’auto a batterie possa essere un dispositivo che permetta di salvaguardare l’ambiente è infatti uno di quei casi di studio che andrebbe analizzato non solo dal punto di vista tecnologico ma anche e soprattutto da quello psicanalitico. Ma procediamo con ordine e vediamo un po’ di storia dell’auto elettrica.

Origini dell’auto elettrica

Forse non tutti sanno che il concetto di auto elettrica è stato quello che storicamente ha preceduto la diffusione dell’auto a motore a combustione interna. I primi modelli di auto elettriche della storia risalgono addirittura alla fine dell’Ottocento: le “full electric” della statunitense Baker Electric e dell’italiana Camona furono gli antesignani di questa tecnologia nata proprio nel 1899.

Tuttavia, a causa della scarsissima autonomia (≈ 80 km) e della modesta velocità massima (≈ 35 km/h), le auto elettriche dovettero cedere ben presto il passo alle più performanti auto a combustibile – benzina e gasolio – che offrivano autonomie e velocità massime di gran lunga superiori a quelle delle loro cugine a pile. E così, il concetto di auto elettrica fu messo in soffitta ai primi del Novecento, dove vi restò fino alla fine del secolo scorso.

L’auto elettrica come dispositivo “green”

L’idea di auto elettrica venne poi di nuovo ripresa verso la fine degli anni ’90 del secolo scorso, quando la comunità scientifica internazionale o, meglio, la parte più sovraesposta, meglio finanziata e più rumorosa di essa cominciò a far circolare la teoria clima-catastrofista secondo la quale il mondo stesse dirigendosi verso un catastrofico riscaldamento globale dovuto alle emissioni di gas serra, CO2 in primis, generate dall’utilizzo dei combustibili fossili, che avrebbe portato la temperatura del globo a valori incompatibili con la vita sulla Terra e avrebbe causato lo scioglimento dei ghiacciai, i quali avrebbero a loro volta fatto innalzare il livello degli oceani di 7 metri con conseguente allagamento del 30 per cento delle terre emerse; il tutto nell’arco di soli quarant’anni. Insomma, peggio del peggior film catastrofista che fosse mai stato girato fino ad allora!

Il grafico a “mazza da hockey”

Uno dei principali artefici della teoria del riscaldamento globale di origine antropica fu il climatologo Michael Mann con il suo famigerato grafico “a mazza da hockey” (“hockey stick”) che mostrava l’impennata drammatica delle temperature del globo negli ultimi cinquant’anni. Per la cronaca, anni dopo si scoprì che quel grafico – tuttora incredibilmente in voga presso i mariotozzisti – fu il frutto di una vera e propria frode compiuta da Mann e da un suo collega.

Manipolarono intenzionalmente i dati grezzi delle temperature riducendo ad arte quelle più lontane nel tempo e incrementando invece quelle più recenti per accentuare fraudolentemente l’impennata della curva, come fu poi reso evidente dallo scambio di e-mail tra i due prodotto nel corso di un processo per frode intentato da Tim Ball, climatologo canadese, nei confronti dello stesso Mann, processo durante il quale quest’ultimo si rifiutò sempre di produrre i dati grezzi utilizzati per tracciare il famigerato grafico.

Il ruolo delle case automobilistiche

Nello stesso periodo, cogliendo la palla al balzo di questo sentiment clima-catastrofista inculcato dai media mainstream che si stava facendo strada sempre più tra la gente, le case automobilistiche occidentali videro nell’auto elettrica l’occasione storica per crearsi dal nulla un mercato potenziale praticamente infinito. Il meccanismo logico sul quale agirono fu la promozione dell’equazione “auto elettrica = niente utilizzo di combustibili fossili = niente emissioni di CO2 = mobilità pulita = green’”.

Fu così che quindi anch’esse spinsero a tutto spiano la narrazione del riscaldamento globale di origine antropica dovuto alle emissioni di CO2 dai combustibili fossili, riempiendo di attenzioni – diciamo così – scienziati e media compiacenti, promuovendo la nascita di uno stuolo di ong e di comitati volti all’apparenza a salvaguardare l’ambiente ma con il nemmeno tanto malcelato fine di promuovere l’agenda “green” a tutti i livelli e creare così il terreno fertile per quello che si illudevano sarebbe stato un cambio di paradigma epocale che si sarebbe dovuto affermare in modo naturale una volta che il lavaggio del cervello fosse stato effettuato a un grado sufficiente di profondità nelle menti dei consumatori.

A supportare la narrazione, a ridosso del XXI secolo, nacquero così le prime auto interamente elettriche: la Honda EV Plus con batterie NiMH (nickel e idruri metallici), la Citroën Saxo Electrique con batteria NiCd (nickel-cadmio) e finalmente la prima auto elettrica con batteria agli ioni di litio (Li-ion), la Nissan Altra EV nel 1998.

Tecnologia Li-ion vincente

Tra tutti i tipi di batterie utilizzati fino ad allora, la tecnologia agli ioni di litio si rivelò ben presto essere quella vincente in termini di stabilità e di densità di energia accumulabile, tant’è che, dalla fine degli anni ’90 in poi, tutti i successivi modelli di auto elettriche finirono con l’adottare questo tipo di batterie.

Essa, infatti, offre valori di densità di energia nell’ordine dei 200 Wh/kg, cosa che rende le batterie relativamente compatte, anche se va detto che una batteria che offra un minimo di autonomia (50 kWh / 200-250 km) arriva a pesare fino a 300 kg, tenendo conto anche dell’involucro del pacco batteria.

Il vantaggio della Cina

E la Cina? In quello stesso periodo, la Cina, comprendendo e favorendo anch’essa indirettamente la tendenza generale con mezzi leciti e, forse, anche meno leciti, cominciò a investire massicciamente nell’accaparramento delle materie prime, aggiudicandosi così le più grosse miniere di cobalto (usato per i catodi delle batterie) e di litio in Africa – dove la Cina ha stabilito già da tempo relazioni commerciali e di cooperazione con vari Paesi – e in tutti gli altri Paesi del mondo dove tali miniere sono presenti.

Allo stesso tempo, potendo contare sui massicci finanziamenti alle industrie di Stato, la ricerca e sviluppo cinese compì passi da gigante, anche facendo uso a piene mani del cosiddetto “reverse engineering” delle auto elettriche occidentali, cioè la copia della tecnologia fin nei minimi particolari, arte in cui, occorre dire, la Cina eccelle da sempre, anche per via del fatto che le leggi internazionali sui brevetti finiscono sempre per infrangersi inevitabilmente sulla Grande Muraglia, dove essi non hanno alcuna validità: accade così da sempre e non solo nel settore automotive.

Nei primi anni 2000, quindi, la Cina cominciò ad agire in maniera sotterranea nel settore dell’auto elettrica, cercando di dare nell’occhio il meno possibile.

La dismissione e il sorpasso cinese

Dai primi anni ‘10 e fino al 2020, cioè fino allo scoppio della pandemia di Covid-19, le case automobilistiche occidentali hanno continuato imperterrite a puntare sulla cosiddetta “transizione” all’auto elettrica potendo contare sui massicci incentivi e sussidi messi a disposizione dai governi compiacenti sulla base delle politiche Ue e, oltreoceano, di quelle dell’amministrazione Obama.

Infatti, a parte rare eccezioni, l’industria automobilistica europea ha influito pesantemente sugli Stati determinandone le politiche di sostegno della cosiddetta “transizione green”, quindi a proprio favore, facendo al tempo stesso pesantemente lobbying anche in Unione europea e spingendo per la cosiddetta “mobilità green”. In buona sostanza, gli stessi meccanismi logici della profezia che si autoavvera, alla quale poi tutti finiscono col credere e conformarvisi per paura di rimanere indietro rispetto agli altri.

E così, con una politica che potremmo a buon diritto definire dei lemming, le case automobilistiche hanno abbracciato acriticamente la mobilità elettrica e, di pari passo, cominciato a dismettere i pezzi pregiati dei propri settori di ricerca e sviluppo sui motori a combustione interna che sono stati via via sempre più depotenziati fino a scomparire quasi del tutto dal panorama tecnologico occidentale.

Ciò ha causato la dissipazione di un know-how secolare e la perdita di eccellenze tecnologiche che si sono inevitabilmente ripercossi sulla perdita di migliaia di posti di lavoro nei settori dell’indotto dedicati a tutto ciò che afferiva alla tecnologia dei motori endotermici, non più utilizzabile sulle piattaforme elettriche.

La pandemia di Covid-19 o, meglio, le misure di confinamento prese a seguito della pandemia hanno segnato poi una battuta d’arresto ai piani di tutte le aziende, incluse quelle automotive, dando alla Cina il tempo necessario per mettere a punto le loro auto elettriche con le quali oggi stanno invadendo il mondo, auto con livelli di stile, prestazioni e affidabilità del tutto paragonabili a quelli delle auto elettriche occidentali, se non addirittura migliori, e con costi mediamente della metà rispetto alle analoghe “gemelle” occidentali.

Lacrime di coccodrillo

Oggi tutti i mega-manager delle case automobilistiche occidentali piangono calde lacrime per non essersi accorti dell’iceberg contro cui stavano andando a sbattere, come se ci volesse la famosa zingara della celeberrima canzone napoletana per indovinare cosa ci fosse dietro l’angolo di una tecnologia inefficiente, scomoda, costosa, altamente inquinante (nonostante la falsa narrazione “green”) e con una potenza economica come la Cina come competitor globale.

Sicché, oggi si cerca di correre ai ripari invocando, come extrema ratio, dazi alle importazioni per limitare il più possibile i danni già in atto della colonizzazione cinese dell’Occidente anche nel settore delle auto elettriche.

Cambio radicale di paradigma

Tuttavia, continuando come i lemming con la narrazione “green”, questa sarà una battaglia persa in partenza perché la potenza di fuoco su cui può contare l’industria cinese non ha eguali nel mondo. Ciò in quanto la Cina possiede le materie prime, determinando così direttamente i costi per la componentistica non solo delle proprie auto ma anche di quelle delle case occidentali che da esse dipendono, e al tempo stesso l’automotive cinese può contare sui pesanti finanziamenti di Stato.

Ciò determina, in ultima analisi, prezzi di gran lunga più alti per le auto occidentali e, viceversa, prezzi scandalosamente più bassi per quelle cinesi, di modo che, nonostante i dazi pesantissimi immaginati in extremis dal buon Sleepy Joe, queste ultime risulterebbero comunque sempre più economiche delle analoghe occidentali.

Cosa fare allora? C’è un solo modo per contrastare tutto ciò: acclarato che l’auto elettrica non è niente affatto “green” (per i motivi indicati qui) e che la teoria del cambiamento climatico di origine antropica dovuto alle emissioni di gas serra è destituita di ogni fondamento scientifico, all’Occidente non resta altro che prendere atto del fallimento epocale della cosiddetta “transizione green”, sia in termini concettuali che implementativi, e tornare a quote più normali di buon senso riprendendo la ricerca e sviluppo sui motori endotermici, abbandonando la favoletta dell’auto elettrica come prodotto di massa ma confinandola a prodotto di nicchia come avrebbe dovuto essere sin dall’inizio, e tornando a produrre auto a motore endotermico dando impulso alla ricerca di nuove soluzioni più ecologiche.

Del resto, basterebbe porsi una semplicissima domanda, e cioè: visti gli immani investimenti del Dragone nel settore “green”, secondo voi cosa danneggerebbe di più gli interessi cinesi nel mondo, applicare dazi alle importazioni – peraltro facilmente contestabili anche dal punto di vista legale alla luce dei trattati internazionali stipulati dalla Cina con la World Trading Organization (WTO) – ma continuare a insistere su una tecnologia in cui l’Occidente uscirebbe comunque con le ossa rotte, oppure abbandonare del tutto le fandonie “green”, proprio perché appunto fandonie, e tornare ad avere un ruolo preminente nel campo tecnologico con ciò che sappiamo fare meglio?

La risposta a questa domanda potrà fare, nell’immediato futuro, tutta la differenza del mondo tra la prosecuzione dell’inesorabile trend al declino industriale dell’Occidente in atto da vent’anni o l’inversione del trend verso un nuovo sviluppo industriale ad alta tecnologia. In questo sarà determinante il pronunciamento nelle urne di 359 milioni di elettori Ue alle prossime elezioni europee e, realisticamente, la svolta potrà arrivare solo se socialisti e popolari europei per la prima volta saranno finalmente minoranza al Parlamento europeo.