Molti di voi avranno sentito parlare spesso di “crediti del carbonio”, di “certificati ETS” o di “quote di emissione” ma scommetto che pochi sanno di cosa si tratti realmente. Certo, sui giornali e sui social si fa molto spesso riferimento ad essi e, in particolare, alle loro quotazioni, ma che cosa essi implichino nella vita di tutti i giorni è di più difficile interpretazione.
Tassa sulle emissioni
Per sgombrare il campo da ogni dubbio, diciamo allora subito che quella dei certificati ETS (Emission Trading System) è una tassa deliberata nel 2003 che l’Unione europea ha imposto sui suoi cittadini con effetto attuativo a partire dal 2005. “Bella novità! – direte voi – tra un po’ tasseranno anche l’aria che respiriamo, figuriamoci se l’Ue non aggiungeva un’altra tassa a tutte le altre che già ci affliggono!”
Ecco, non volendo ci siete andati molto vicini: infatti, quella dei certificati ETS è una tassa sull’aria che respiriamo, in particolare su quella che espiriamo che, come è noto, è molto ricca di anidride carbonica. Ebbene sì, i certificati ETS riguardano proprio le emissioni di CO2.
Questa geniale trovata viene da molto molto lontano e purtroppo non si tratta della fortunata serie di cartoni della DreamWorks Animation ma di un incubo distopico che da quasi vent’anni attanaglia tutti i cittadini dell’Unione europea.
Ma come siamo arrivati all’assurdità di tassare l’anidride carbonica? Come sempre, cerchiamo di capire le cose dall’inizio e quale fosse l’humus culturale che ha condotto a questa misura. È una storia un po’ lunghetta, perciò, mettetevi comodi e… buona lettura!
Cinquant’anni di emergenze
Le prime discussioni in Ue circa la necessità di tassare l’anidride carbonica risalgono ai primi anni 2000 che, come probabilmente ricorderete, furono caratterizzati da un fervente afflato millenaristico per tutto quanto attenesse alla cosiddetta “emergenza climatica”. Appena un decennio prima, infatti, nel 1988, fu fondato dall’Onu il molto discusso “Intergovernmental Panel on Climate Change” (IPCC) con l’intento dichiarato di diffondere la consapevolezza sui cambiamenti climatici, panel che non tradì le aspettative dei suoi fondatori e che sin dal suo primo rapporto del 1990 non lesinò di scagliare i suoi strali contro il riscaldamento globale di origine antropica (= causato dall’uomo).
Ma l’istituzione dell’IPCC fu solo l’ultimo atto di una “strategia dell’emergenza” cominciata grosso modo una quindicina di anni prima. Infatti, già nei primi anni ’70 gli scienziati che si occupavano di clima erano convinti che, di lì a qualche decennio, la Terra sarebbe piombata in una nuova era glaciale che avrebbe stretto il pianeta in una morsa di gelo, convinzione poi del tutto abbandonata dalla comunità scientifica alla fine degli anni ’70.
Quegli stessi scienziati attraversarono poi gli anni ’80 lanciando nuove emergenze: quella per le piogge acide, asseritamente causate dagli elevati livelli di inquinamento atmosferico, che avrebbero dovuto cancellare in breve tempo tutta la flora terrestre – allarme per fortuna rivelatosi poi del tutto infondato – e il famosissimo e popolarissimo problema del buco dell’ozono, la cui ulteriore estensione avrebbe asseritamente privato la Terra del suo schermo naturale – l’ozono, appunto (O3) – nei confronti dei raggi cosmici e delle radiazioni ionizzanti, il che avrebbe provocato danni gravissimi alla salute degli esseri viventi, tra cui tumori e avvelenamento da radiazioni.
A tal proposito, ricorderete che la responsabilità di questo disastro fu attribuita all’utilizzo dei clorofluorocarburi (CFC), fino ad allora usati come gas refrigeranti e come propellenti nelle bombolette spray, tanto da decretarne il bando a livello globale. Ci credereste poi che quel semplice divieto salvò il pianeta dall’estinzione certa di tutte le specie viventi? Pare infatti che oggi il buco dell’ozono si sia quasi del tutto richiuso.
E veniamo ai primi anni ’90, i cui leitmotiv emergenziali furono invece la paventata distruzione della Grande Barriera Corallina causata dall’acidificazione degli oceani e – udite udite! – l’estinzione di balene e delfini, le prime a causa delle flotte di pescherecci dei malvagi pescatori giapponesi che facevano asseritamente strage dei maestosi cetacei manco fossimo nella Nantucket del XIX secolo, i secondi perché finivano nelle reti dei tonni e con questi ultimi uccisi indiscriminatamente, motivo per cui, insieme alla musica grunge dell’epoca – tranne rare eccezioni, orribile per orecchie educate al rock anni ’70 – toccò assistere anche alle campagne denigratorie del tonno in scatola.
Inutile dire che la barriera corallina sia tornata a rifiorire da almeno vent’anni e che anzi essa sia addirittura cresciuta in estensione rispetto a quella degli anni ’80. Quanto alle balene, per fortuna possiamo ancora ammirarne la presenza negli oceani ed esse ormai godono di uno status di protezione internazionale. Quanto, infine, al tonno in scatola, beh, oggi avete solo l’imbarazzo della scelta, per cui delle due l’una: o i delfini sono ormai una specie estinta oppure si trattava della solita esagerazione catastrofista.
Il flop degli scenari IPCC
Il 1996 segnò un punto di svolta nella narrazione climatica: il secondo rapporto dell’IPCC postulò infatti che la Terra stesse evolvendo irrimediabilmente verso il riscaldamento globale causato dall’azione dell’uomo e, in particolare, dalle emissioni di anidride carbonica derivanti dalla combustione dei combustibili fossili.
Lo stesso rapporto sosteneva che, se non avessimo ridotto drasticamente la concentrazione di CO2 in atmosfera, questo surriscaldamento sarebbe stato irreversibile e la conseguenza più immediata sarebbe stata lo scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento del livello degli oceani fino a 6 metri di lì a 40 anni, con conseguente riduzione significativa delle terre emerse e la sparizione sott’acqua di intere regioni del pianeta.
Qui ci limitiamo solo ad osservare che, a partire da quel fatidico 1996, nessuno degli scenari via via ipotizzati da IPCC nel corso degli ultimi 27 anni ha mai trovato riscontro a posteriori nell’evoluzione reale della temperatura media globale terrestre o nel paventato innalzamento degli oceani. Persino gli scenari più ottimistici delineati nei rapporti (oggi siamo già al sesto rapporto pubblicato) sono di gran lunga peggiori rispetto a quella che è stata l’effettiva evoluzione delle condizioni climatiche terrestri.
Stante il sistematico fallimento di quegli scenari, quei modelli teorici andrebbero come minimo “risintonizzati” sull’evoluzione reale della temperatura del pianeta in modo da adattarli ai dati empirici, come il buon vecchio metodo scientifico galileiano prescriverebbe. Invece, a quanto pare, i fan del climacatastrofismo sembrano più portati a credere ciecamente agli algoritmi tracciati dai loro predecessori e a ritenere che le deviazioni dei dati sperimentali rispetto alle previsioni di quegli algoritmi siano solo dei meri accidenti da spiegare per mezzo di altre non ben meglio identificate teorie. Aristotelici, insomma, se sapete cosa intendo.
A questo poi si aggiunge un ulteriore problema di fondo legato alla precisione e all’accuratezza delle misure di temperatura, sia del passato che del presente, di cui avevamo discusso già qualche mese fa e che potete trovare qui.
Al Gore
Il nostro excursus cronologico si completa con un’ultima pietra miliare: la sconfitta di Al Gore alle elezioni presidenziali Usa del 2000, quelle che segnarono la proclamazione della vittoria di George W. Bush dopo due mesi circa di estenuanti riconteggi negli Stati in bilico. “Sì, ma che c’entra il clima con la sconfitta di Al Gore?”, mi direte voi. C’entra, c’entra, perché, subito dopo quella sconfitta, Al Gore si inventò una carriera come conferenziere sul clima, sulla base di non si sa bene quali competenze scientifiche (conseguì nel 1969 il “Bachelor of Arts Degree”, corrispondente alla nostra laurea triennale in discipline umanistiche).
Com’è, come non è, sta di fatto che intorno ad Al Gore nei primi anni 2000 si coagulò un coacervo di interessi più disparati che fece sì che la teoria IPCC del riscaldamento globale di origine antropica causato dai combustibili fossili divenisse la tesi dominante del mainstream. Ecco, questo era, per grandi linee, il dibattito scientifico e culturale che portò alla gestazione della direttiva sui certificati ETS.
Come funziona il sistema ETS
Nel 2003, il Parlamento europeo con a capo l’inglese Pat Cox e la Commissione europea presieduta da Romano Prodi approvarono il 13 ottobre la direttiva 2003/87/CE che istituiva per prima e tuttora unica al mondo un sistema di scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra all’interno dell’Unione europea al fine di promuovere la riduzione di dette emissioni secondo criteri di efficacia dei costi ed efficienza economica.
Gli aspetti salienti del sistema ETS sono i seguenti:
- La direttiva si applica alle emissioni di anidride carbonica provenienti da attività di combustione energetica, produzione e trasformazione dei metalli ferrosi, lavorazione prodotti minerari, produzione di pasta per carta, carta e cartoni.
- La direttiva prevede un duplice obbligo per gli impianti da essa regolati:
- La necessità di possedere un permesso all’emissione in atmosfera di gas serra;
- L’obbligo di rendere alla fine dell’anno un numero di quote (o diritti) d’emissione pari alle emissioni di gas serra rilasciate durante l’anno.
- Il permesso all’emissione di gas serra viene rilasciato dalle autorità competenti previa verifica da parte delle stesse della capacità dell’operatore dell’impianto di monitorare nel tempo le proprie emissioni di gas serra.
- Le quote di emissioni vengono rilasciate dalle autorità competenti all’operatore di ciascun impianto regolato dalla direttiva sulla base di un piano di allocazione nazionale; ogni quota dà diritto al rilascio di una tonnellata di CO2 equivalente.
- Una volta rilasciate, le quote possono essere vendute o acquistate; tali transazioni possono vedere la partecipazione sia degli operatori degli impianti coperti dalla direttiva, sia di soggetti terzi (intermediari, ong, singoli cittadini); il trasferimento di quote viene registrato nell’ambito di un registro nazionale.
La normativa ha prodotto i suoi effetti a partire dal 1° gennaio 2005. In Italia, la direttiva Ue 2003/87/CE fu invece recepita dal decreto legislativo 216/2006, che attribuiva il ruolo di autorità nazionale competente per l’attuazione della direttiva al “Comitato nazionale per la gestione della direttiva 2003/87/CE e per il supporto nella gestione delle attività di progetto del protocollo di Kyoto”. Essa è divenuta poi legge dello Stato il 4 aprile 2006 e da allora è tuttora vigente.
Le quote di emissione possono essere allocate a titolo oneroso o gratuito. Nel primo caso vengono vendute attraverso aste pubbliche alle quali partecipano i soggetti accreditati. Nel secondo caso, le quote vengono assegnate gratuitamente agli operatori a rischio di delocalizzazione delle produzioni in Paesi caratterizzati da standard ambientali meno stringenti rispetto a quelli europei (carbon leakage). Le assegnazioni gratuite sono riservate ai settori manifatturieri e sono calcolate facendo riferimento alle emissioni degli impianti più virtuosi.
Un sistema manipolabile
Non occorre essere dei fini economisti per capire che, in un sistema di trading, se l’ente erogatore è anche l’ente regolatore, esso potrà fare il bello e il cattivo tempo rispetto al valore delle quotazioni: mediante maggiore o minore distribuzione di quote gratuite a questo o quell’operatore sulla base di criteri arbitrari, o agendo sulla scarsità delle quote per farne crescere il valore o, viceversa, creando dal nulla nuove quote per farlo ridurre.
Se pensiamo che tutto ciò si basa sulle emissioni di un gas naturale che è il trait d’union tra chimica inorganica e chimica organica, l’alimento delle piante cioè il composto chimico che, grazie alla fotosintesi clorofilliana, ha reso possibile la vita sulla Terra per come la conosciamo, il gas di cui l’attività antropica produce ogni anno solo una trascurabile frazione del totale circolante in natura (37 Gt / 800 Gt = 4,6 per cento circa), e l’Ue una trascurabile frazione di quella trascurabile frazione (7,6 per cento del 4,6 = 0,35 per cento circa), allora non possiamo far altro che inchinarci dinanzi a cotanta genialità.
Sono riusciti a mettere in piedi un sistema di trading basato su un’ipotesi ben lungi dall’essere scientificamente dimostrata, con il quale poter strozzare a piacimento l’economia dell’Unione e per giunta con l’avallo di folle plaudenti inebetite dalle falsità pseudoscientifiche propalate di continuo dai media mainstream. Niente male per una banda di oscuri burocrati che nessuno ha mai eletto o, piuttosto, per chi vi si cela dietro.
Chi può vendere le quote?
Abbiamo visto quindi che, fino ad oggi, gli operatori che hanno bisogno di certificati ETS per produrre sono in pratica le centrali termoelettriche a combustibili fossili, le industrie siderurgiche, minerarie e cartarie. Abbiamo anche visto che una parte delle quote viene distribuita loro a titolo gratuito e una parte va acquistata a titolo oneroso.
Inoltre, nel corso dell’ultimo decennio, sulla spinta della nuova “coscienza ambientalista” – in realtà l’adesione pedissequa di vaste fette di popolazione al credo climacatastrofista come inevitabile risultato di una campagna continua e martellante su tutti i media mainstream – molte aziende non strettamente tenute alla compensazione delle loro emissioni di CO2 (come ad esempio marchi prestigiosi del settore alimentare) hanno scelto comunque di aderire al meccanismo delle quote EU-ETS per trarne un beneficio in termini di ricaduta reputazionale positiva: marketing, insomma.
Sì, ma chi può vendere le quote? In primis, i possessori di impianti di generazione di energia rinnovabile, ça va sans dire! Sicché, chi investe in impianti a energia rinnovabile non solo riceve dallo Stato sussidi ambientalmente favorevoli per 11 miliardi di euro l’anno e dalle tasche dei consumatori tariffe incentivanti per 10 miliardi di euro l’anno ma, grazie alla CO2 risparmiata generando energia elettrica da fonti rinnovabili, può anche virtuosamente entrare come venditore nel sistema di trading delle quote di emissione, guadagnandoci così tre volte: ecco che si sostanzia ancora meglio il concetto secondo cui le rinnovabili rendono più del traffico di stupefacenti.
Mega-truffe
A onor del vero, il sistema perverso EU-ETS prevede anche altri potenziali venditori: oltre ai broker, infatti, esistono società che possiedono, almeno in teoria, terreni forestali e sono autorizzate quindi a vendere le corrispondenti quote di CO2 assorbita da quelle foreste, anche al di fuori del territorio dell’Unione.
Inutile dire che questo squinternato carrozzone mal controllato abbia dato adito a mega-truffe su scala internazionale da parte di alcune di queste società che, ad esempio, hanno venduto sempre le stesse quote più volte a clienti diversi oppure hanno venduto quote corrispondenti ad aree della foresta amazzonica: insomma, Totò che vende la Fontana di Trevi, per intenderci.
Quanto valgono le quote?
Il prezzo delle quote di emissione varia di giorno in giorno a seconda delle transazioni effettuate, esattamente come avviene per il prezzo delle azioni scambiate sulle varie piazze internazionali. Alla nascita del sistema EU-ETS, il valore di un certificato che permettesse l’emissione di 1 tonnellata di CO2 si aggirava intorno ai 5 euro. Esso è poi via via salito fino a toccare, all’inizio di quest’anno, la cifra record di 95 euro. Dal mese di ottobre, infine, il valore si è attestato intorno agli 80 euro.
Un caso concreto
Presi così, però, questi 80 euro/tonCO2 non ci dicono ancora niente di concreto in termini di ricadute economiche sulle nostre tasche. Analizziamo allora un caso pratico di impatto economico sui costi di beni e servizi e consideriamo quello dell’energia elettrica.
Il mix energetico italiano per gli anni 2021 e 2022 per la quota non rinnovabile è stato (dati GSE):
- Carbone: 5,03%
- Gas naturale: 48,01%
- Petrolio: 0,89%
Per un totale del 53,93 per cento. Sapendo che il consumo di energia elettrica nel 2022 è stato di 317 TWh (317 miliardi di kWh), se ne ricava che 171 miliardi di kWh siano stati prodotti da fonti non rinnovabili.
Secondo i dati forniti dalla “Association of Issuing Bodies” (AIB), nel 2022 il cosiddetto “residual mix” in Italia per le fonti non rinnovabili è stato pari a 0,457 kgCO2/kWh. Pertanto, il totale delle emissioni di CO2 è stato:
CO2tot = 171.000.000.000 x 0,457 [kgCO2] = 78.147.000.000 [kgCO2] = circa 78 milioni di tonnellate di CO2.
Al valore dei certificati EU-ETS in vigore fino a gennaio 2023 (95 EUR/tonCO2), ciò è equivalso ad un aggravio di 7,41 miliardi di euro l’anno che, spalmati sui 317 miliardi di kWh consumati, sono equivalsi a un aggravio di 2,34 €cent/kWh, cioè il 15 per cento circa del prezzo della componente energia stabilito da Arera (15,8 €cent/kWh).
Gravati di IVA al 22%, questi 2,34 €cent/kWh sono quindi diventati 2,85 €cent/kWh che, per un consumo medio di 3.500 kWh/anno a famiglia, sono equivalsi ad un aggravio in bolletta di circa 100 euro/anno che, aggiunti ai 110 euro/anno pagati per gli incentivi alle rinnovabili, fanno circa 210 euro l’anno dei propri soldi che ciascuna famiglia ha dovuto sacrificare, suo malgrado, sull’altare della millantata transizione green. Niente male come tassa odiosamente regressiva, vero?
L’inasprimento
Come se non bastasse il sistema vessatorio messo in piedi sulle falsità del climacatastrofismo – non paga del fatto che, partita nel 2003 come capofila mondiale nella riduzione virtuosa delle emissioni di CO2, a distanza di vent’anni l’Ue sia poi rimasta da sola con il cerino in mano dopo aver provocato volontariamente la distruzione della propria economia in nome di quella dottrina pseudoscientifica – lo scorso aprile il Parlamento europeo ha votato l’allargamento del sistema EU-ETS (EU-ETS2) anche ai settori dei trasporti privati, del riscaldamento degli edifici, dello smaltimento dei rifiuti e del traffico marittimo, nonché la cancellazione delle quote assegnate finora a titolo gratuito.
Il provvedimento, passato anche con la colpevole complicità dei rappresentanti di Forza Italia, sinistra (Pd e cespugli vari) e 5 Stelle, è stato poi ratificato dal Consiglio Ue ed è entrato in vigore a maggio 2023.
Pertanto, se nel frattempo non interverranno modifiche a questo vero e proprio delirio green, le nuove norme avranno effetto a partire dal 1° gennaio 2024 per il settore del trasporto marittimo (conto da 3,6 miliardi secondo Bloomberg), e a seguire gli altri entro il 2027, e l’impatto sarà letteralmente devastante sia per le famiglie che per le imprese, immiserendo ulteriormente i cittadini e rendendo il sistema tecnologico/produttivo Ue ancora meno competitivo rispetto al resto del mondo che, saggiamente, tranne sparute eccezioni, se ne frega bellamente di tassare le emissioni di CO2.
A nulla varrà nemmeno il pannicello caldo del cosiddetto “Climate Social Fund”, un fondo da 65 miliardi di euro che dovrebbe aiutare cittadini e microimprese a combattere la povertà energetica nel settennio 2026-2032; infatti, tenendo conto dei 95,3 milioni di persone in povertà in Ue secondo i dati Eurostat, ciò equivarrebbe a 8 euro/mese/pro-capite, se i meccanismi distributivi seguissero criteri di uniformità: un insulto alla dignità degli individui.
Aumento delle accise
Come riportato da Sergio Giraldo in un suo articolo su Start Magazine dello scorso 30 aprile, la nuova normativa si tradurrà in un aumento delle accise sui carburanti di 10-15 centesimi al litro, e in un aumento di costo stimato per famiglia per il riscaldamento domestico nell’ordine dei 260 euro l’anno.
Chiudiamo infine con un ultimo esempio esemplificativo: tralasciando i relativi calcoli, un volo Napoli-Milano A/R secondo la nuova normativa EU-ETS2 comporterà un aggravio di costo di circa 2×25 euro = 50 euro per la sola aggiunta della tassa sull’anidride carbonica, sempre che il valore delle quote non lieviti ulteriormente in futuro.
Capite adesso l’importanza fondamentale delle prossime elezioni europee per evitare il baratro socio-economico approntato dall’attuale parlamento?