Rete Unica, quale futuro con il governo Meloni? Occhio al controllo statale

Il nuovo governo potrebbe ribaltare l’approccio di giallo-verdi e Draghi. Proprietà italiana, ma rischio di un eccessivo controllo statale

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Secondo il programma pubblicato prima delle elezioni, il governo Meloni dovrebbe rapidamente imporre una svolta a 180 gradi alla vicenda della “Rete Unica”, un’infrastruttura essenziale e strategica per un Paese avanzato.

Volendo fare un’analogia, potremmo paragonare la rete unica TLC alla linea ferroviaria ad alta velocità Milano-Roma-Napoli in un’Italia in cui non esistessero né autostrade né aeroporti.

Ma deve proprio essere “unica” questa rete di telecomunicazioni? E in cosa il programma di Fratelli d’Italia differisce dal precedente approccio – sposato e promosso anche da Vincenzo Colao – che doveva essere siglato definitivamente il 31 ottobre 2022?

Per approfondire la questione, piuttosto che a uno dei soliti blasonati nomi o ad un politico, ci siamo rivolti ad un giovane ingegnere del settore, persona che come dimostra il suo popolare canale YouTube ha il pregio di capire le cose di cui parla e la capacità di spiegarle in termini semplici.

Si tratta di Stefano Bolis: laureato in ingegneria delle telecomunicazioni presso il Politecnico di Milano, in ambito professionale svolge attività di consulenza per i principali operatori di telecomunicazioni.

Perché una rete unica

MARCO HUGO BARSOTTI: Prima di cercare di capire cosa il governo Meloni potrebbe cambiare nel progetto di rete unica cerchiamo di capire cosa sia questa rete unica…

STEFANO BOLIS: Cominciamo col dire che quando parliamo di rete unica parliamo di rete fissa. In particolare facciamo riferimento alle due reti più importanti, quella di Tim e quella di Open Fiber. Sul nostro territorio non ci sono solo queste due reti, ma queste sono le più estese e più rilevanti. Rete unica significa unificare le due reti e metterle sotto un unico controllo.

MHB: In linea di principio noi amiamo il mercato e siamo allergici ai monopoli. Spiegaci perché nel caso della rete unica le cose dovrebbero essere differenti.

SB: Considerazione lecita. In effetti da quando il monopolio di Tim (SIP/Telecom) è stato superato, il settore si era molto sviluppato, anche grazie alla concorrenza unita alle regolamentazioni di Agcom.

Ma negli ultimi anni abbiamo avuto una grossa evoluzione tecnologica e un aumento esponenziale del traffico dati. Gli operatori devono quindi realizzare immensi investimenti per poter rispondere a questo aumento, che riguarda sia i volumi che le prestazioni.

E anche gli obiettivi europei che ci vengono posti (imposti, ndr) sono importanti. Pensa che entro il 2030 ci viene chiesto di portare 1 Gbps al 100 per cento delle famiglie (nota: a titolo di paragone, Dazn fatica oggi a distribuire le partite di calcio con un flusso HD a soli 0,016 Gbps).

Il problema è che per rispondere a questo occorre fare investimenti molto importanti e gli operatori da soli non hanno la forza per poter soddisfare questi requisiti (su questo punto vedere le considerazioni finali).

Per questo si pensa di unire le forze degli operatori nella creazione dell’infrastruttura, lasciando la concorrenza solo nell’erogazione dei servizi.

Controllo statale

Ci sono poi altri razionali, quali accentrare sotto un unico ente nazionale il controllo della rete e lo strumento proposto è una società dello stato, la Cassa Depositi e Prestiti (CDP).

Sottolineo che questo non avviene solo in Italia e che questi processi sono stati regolamentati anche a livello europeo tramite politiche che favoriscono soluzioni di co-investimento sull’infrastruttura di base.

I player in gioco

MHB: Due parole sugli attori in campo oggi e sull’accordo preventivo, quello che avrebbe dovuto essere perfezionato il 31 ottobre 2022.

SB: Gli attori sono Open Fiber e Tim. Ma ci sono anche i principali azionisti di queste due realtà: per la prima CDP e il fondo australiano Macquarie, che detengono il 60 e 40 per cento delle quote (che Macquaire ha ereditato da Enel).

Per quanto riguarda la seconda, Tim (molti anni dopo il bel risultato dei capitani coraggiosi, ndr), la francese Vivendi è il maggior azionista. C’è poi il fondo americano KKR, che detiene il 37,5 per cento di FiberCop.

L’accordo di maggio

L’accordo preventivo di inizio maggio (firmato da Open Fiber, Tim e CDP, ma per la prima volta anche dai fondi) prevedeva innanzitutto che Tim scorporasse la parte infrastrutturale di rete, che sarebbe stata acquisita dalla società unica, Open Fiber.

A Tim sarebbero rimasti i servizi, una “servco”. Tim non sarebbe più stata parte della proprietà della infrastruttura (a differenza di quanto auspicato precedentemente dalla stessa, quando chiedeva in una versione precedente dell’accordo il 50,1 per cento delle quote della società “unica”).

Questo l’accordo che avrebbe dovuto essere ratificato con offerta vincolante entro il 31 ottobre 2022. Ma è stata chiesta una proroga al 30 novembre 2022.

Il Progetto Minerva

MHB: Spiega la differenza tra il progetto di Fratelli d’Italia, il Progetto Minerva, e quello che avrebbero voluto fare i giallo-verdi e successivamente Draghi.

SB: Il Progetto Minerva proposto da Fratelli d’Italia cambia totalmente l’approccio. Se l’accordo siglato a inizio maggio prevedeva il baricentro in Open Fiber, con questo nuovo approccio CDP dovrebbe diventare azionista di maggioranza di Tim, prendendone il controllo.

Passo due: Tim dovrebbe vendere la parte di servizi (e non quella a di rete) in modo da diventare società solo infrastrutturale e non verticalmente integrata. La nuova Tim dovrebbe acquisire la maggioranza delle quote di Open Fiber, in pancia a CDP.

Così CDP controllerebbe sia Tim che Open Fiber.

MHB: Tenendoci lontani da ogni valutazione politica, possiamo dare una valutazione tecnica ed economica dei due approcci?

SB: Il Progetto Minerva forse è più snello in quanto non prevede lo scorporo della rete. Inoltre, il controllo unico da parte di CDP dovrebbe facilitare l’integrazione tecnica delle due reti. Tutte valutazioni da confermare con i dettagli che attendiamo.

Ma c’è un problema. Da sempre Vivendi ha valorizzato la rete di Tim attorno ai 31 miliardi di euro, una cifra elevatissima e lontana dai 15/18 miliardi su cui si basano gli analisti e gli altri azionisti: un ostacolo non indifferente.

Inoltre, secondo un’analisi di Key4vbiz che riporto per dovere di cronaca, il Progetto Minerva lascia un debito minore a CDP rispetto alla vecchia impostazione (10 miliardi invece di 17). Ma è una valutazione singolare fatta da Kye4biz, e sarebbe un tema su cui potresti sentire altri pareri.

Le aste per il 5G

MHB: Con la sconfitta del centrosinistra abbiamo forse schivato la seconda asta per il 5G. O no? In ogni caso, in un tuo video hai accennato al fatto che questa enorme “tangente” che le Telco hanno dovuto pagare allo Stato per disporre delle frequenze nella prima asta avrebbe rallentato la realizzazione della rete. Qualche dettaglio?

SB: Una delle principali proposte del centrosinistra era effettivamente una seconda asta per il 5G.

Ora il fatto che abbiano perso fa sì che la probabilità di realizzazione siano ridotte. Anche perché come ricordi bene gli operatori stanno ancora pagando lo scotto di quanto speso nelle prima asta (6,5 miliardi di euro), il corrispettivo per disporre di frequenze nelle bande 700 MHz, 3,5 e 26 GHz (un pezzo di carta che dice: “potete usare le frequenze”, previa un bel po’ di burocrazia, ndr).

Ovviamente, in un periodo in cui è necessario fare grossi investimenti per il passaggio da 4G a 5G, questo costo ha avuto un impatto. Se nella sperimentazione 5G l’Italia era pioniera, quando si è trattato di implementare le reti l’Italia ha perso punti ed è stata superata da molte altre nazioni.

Agli utenti sembra che la copertura 5G sia buona, ma si tratta in realtà del dynamic spectrum sharing di Wind/3 che in pratica vuol dire che si condividono le frequenze del 4G anche con il 5G. Non è la soluzione vera del 5G, si tratta di una scelta ibrida.

Vampirizzate dallo Stato

Per quanto riguarda il 5G (ma l’abitudine ha avuto inizio allepoca del 3G/UMTS da parte del governo Amato), ripianare parte del deficit dello Stato scaricando i costi sulle Telco drena dunque capitale indispensabile per realizzare gli investimenti necessari al Paese. Parrebbe essere un fatto scorredato, ma occorre tener presente che questi operatori operano sia nel mobile che nel fisso.

Si tratta di cifre impressionati, ricordiamo infatti che l’Italia ha battuto per il 5G ogni record mondiale con 6,55 miliardi di euro. Nel caso specifico di Tim, la cosa risulta oggi grottesca, considerato che tramite CDP lo Stato si trova costretto a orchestrare (in qualunque modo decida di farlo) un’operazione che impegna capitale pubblico proprio per una società che era stata vampirizzata da queste aste.

La sola rata di settembre per Tim è stata pari a 1,738 miliardi di euro, 21,13 milioni a MHz, provate a fare il confronto con quanto paga per lo stesso spazio una radio o un tv.

Occorrerà ancora almeno un mese per vedere quale forma definitiva (se sarà tale) assumerà l’accordo tra le parti in causa, quindi rimandiamo le considerazioni approfondite a quella data. Per ora possiamo dire che non ci dispiace l’approccio “nazionale” ipotizzato, non fosse altro perché sappiamo bene quanto la situazione speculare (Mediaset che acquisisce il controllo di France Telecom) non sarebbe mai e poi mai (… e poi mai) accettata oltralpe.

Ma il rischio di un eccessivo controllo statale (CDP controllerebbe sia Tim che Open Fiber) ci lascia istintivamente poco entusiasti: torneremo a parlarne.

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