Un paio di giorni fa usciva sul Sole 24 Ore l’articolo del “solito sospetto” Gustavo Piga, il quale, per l’ennesima volta, offriva le sue ricette stataliste per stimolare la crescita economica.
L’articolo affronta il tema della politica fiscale nell’area euro e sostiene che l’Europa non sta adottando politiche in linea con gli obiettivi di crescita economica. Si fa riferimento alla divergenza di performance tra gli Stati Uniti e l’area euro, con i primi che crescerebbero più rapidamente a causa della politica fiscale espansiva del presidente Joe Biden, mentre l’Europa adotta politiche restrittive.
Viene poi sollevata l’idea di consentire ai singoli Paesi di adottare politiche fiscali espansive in autonomia. Si sostiene che questa opzione potrebbe stimolare la crescita economica e migliorare il rapporto debito-Pil dei Paesi a rischio. Si fa riferimento all’esempio dell’Italia, che ha visto il suo debito-Pil aumentare durante l’austerità e diminuire durante periodi di politiche fiscali espansive. Varie critiche possono essere mosse all’articolo. Andiamo per ordine.
Relazione tra deficit e crescita
In quanto alla supposta relazione tra maggiori deficit di bilancio e crescita economica, è opportuno ricordare le seguenti osservazioni, frequenti in letteratura e sostenute, per esempio, da Alberto Alesina.
Effetto Crowding Out: un aumento dei deficit pubblici può portare a un aumento del costo del debito pubblico e quindi a un aumento dei tassi di interesse. Questo può “spiazzare” gli investimenti privati, riducendo così la crescita economica complessiva. In altre parole, l’aumento della spesa pubblica può “sostituire” gli investimenti privati, riducendo l’effetto positivo sulla crescita economica.
Effetto Ricardiano: gli individui possono avere aspettative razionali riguardo alla futura tassazione. Se le persone prevedono che il governo aumenterà le tasse per finanziare i deficit pubblici, potrebbero iniziare a risparmiare di più per compensare la futura diminuzione del reddito disponibile. Questo comportamento di risparmio aggiuntivo potrebbe ridurre l’effetto stimolante dei deficit pubblici sulla crescita economica.
Inefficienza del settore pubblico: un aumento dei deficit pubblici può portare a una maggiore dimensione del settore pubblico, il che potrebbe comportare inefficienze e sprechi di risorse.
Effetti negativi sulla fiducia degli investitori: un aumento dei deficit pubblici può portare a preoccupazioni riguardo alla sostenibilità del debito pubblico. Questo potrebbe influire negativamente sulla fiducia degli investitori e portare a una riduzione degli investimenti privati, limitando così la crescita economica.
Rimbalzi post-pandemici
Fin qui, le critiche generali all’equazione “maggiori deficit pubblici = maggiore crescita”. In quanto, poi, alla concreta esperienza degli ultimi tre anni in Europa e negli Stati Uniti, diversi punti dell’articolo sono controversi.
Innanzitutto, pochi negherebbero che un’espansione fiscale possa avere effetti positivi di breve periodo sulla domanda aggregata e, dunque, sulla crescita del Pil. Possiamo dibattere sulla magnitudo dei moltiplicatori fiscali, ma in una situazione post-pandemica di scarso utilizzo delle risorse sembra verosimile che il moltiplicatore si trovi in un momento di buona forma.
Detto ciò, basta guardare ad altri Paesi europei per rendersi conto del fatto che i rimbalzi post-pandemici sono avvenuti indipendentemente dall’ampiezza del sostegno fiscale. Se hai una capacità produttiva inutilizzata (per decreto governativo) è abbastanza logico che l’allentamento delle restrizioni porterà a un rimbalzo importante della produzione. Detto ciò, superata la fase pandemica, ampi deficit pubblici in Paesi ad alto debito sono indesiderabili e, per di più, molto rischiosi.
L’inflazione
Punto ulteriore. Sicuramente il rapporto debito/Pil è diminuito “anche” grazie al rimbalzo del Pil reale, ma in parte non minore ciò è stato dovuto a una fiammata inflazionaria. È (quasi) sempre possibile falcidiare imprese e famiglie con una ingiusta tassa da inflazione per ridurre l’ammontare del debito pubblico sul Pil.
Tuttavia, non credo che l’elettorato sia stato molto contento. Tra l’altro, non dimentichiamo che la tassa da inflazione (per effetto Cantillon) colpisce proporzionalmente di più i bassi redditi, dunque non sembra particolarmente desiderabile neanche da una prospettiva socialdemocratica. Se fai QE + espansione fiscale, il risultato è però quasi sicuramente questo.
Gli stipendi pubblici
Da ultimo. Sinceramente non mi sembra che ci sia motivo di piangere se gli stipendi dei dipendenti pubblici diminuiscono in termini reali. Anzi, è una correzione long-overdue. Tra l’altro era una “ricetta” implicitamente consigliata dallo stesso Keynes, che suggeriva di ricorrere a riduzioni reali dei salari per stimolare la crescita.
In termini più generali, la riduzione degli stipendi del pubblico impiego si traduce in un minore assorbimento di risorse del settore privato da parte del settore pubblico, che (non dimentichiamolo) si alimenta di imposte coattivamente sottratte al contribuente. Tra l’altro, nello stesso articolo si auspica una “migliore spesa pubblica” (risum teneatis) e allo stesso tempo si sprona il legislatore ad aumentare gli stipendi pubblici, la qual cosa non sembra molto coerente.
In fin dei conti, “mortale” sembra essere la cultura statalista che impregna la cultura italiana. Pensare che pompando la spesa pubblica si ottenga il miracolo della crescita perpetua è wishful thinking con un claro bias. Se davvero potessimo aumentare la competitività e dunque la produttività, allora sì potremmo aspirare a tassi di crescita ben più appetitosi. Ma quello si ottiene tagliando spesa e tasse, sburocratizzando, etc. etc. Insomma, non esistono ricette miracolose fatte di più Stato.