La Camera ha approvato nei giorni scorsi la legge delega per la riforma degli appalti che definisce una griglia di 31 criteri che il governo dovrà rispettare nella stesura del nuovo codice. Si tratta del testo definitivo. Il provvedimento deve, infatti, tornare al Senato per una ratifica rapida e senza ulteriori correzioni in quanto la tempistica, come è noto, è molto serrata, essendo dettata dal Pnrr: 30 giugno 2022 l’approvazione della legge delega, 31 marzo 2023 l’approvazione del codice, 30 giugno 2023 approvazione del regolamento e degli altri provvedimenti attuativi.
Il presupposto di fondo è che la riforma del codice degli appalti possa costituire un volano per la crescita economica, attraverso la semplificazione delle procedure di affidamento, la riduzione del numero delle stazioni appaltanti, l’eliminazione di restrizioni normative ulteriori rispetto alle condizioni previste dalle direttive comunitarie, il rafforzamento del ruolo dell’Anac con il fascicolo degli operatori economici e della Consip quale centrale di committenza.
Il vizio strutturale che frena la crescita
Descritti sommariamente alcuni dei principali elementi del prossimo codice degli appalti, ciò che qui interessa evidenziare è invece il rischio che questa operazione può comportare e che tradisce un vizio strutturale che condiziona, a parere di chi scrive, lo sviluppo del Paese.
Si fa riferimento a quello che potremmo definire “rischio regolatorio”, intendendo con questa definizione la tendenza a mutare continuamente una disciplina, determinando confusione e disorientamento tra gli operatori del settore e conseguendo effetti contrari agli intenti, per quanto questi siano lodevoli.
Il flop dell’ultima riforma, chiesta da Bruxelles
Al riguardo, va ricordato che la disciplina vigente che si sta mandando in soffitta è entrata in vigore il 18 aprile 2016 e che questa costituiva il necessario adempimento delle direttive comunitarie, in assenza del quale sarebbe scattata la procedura d’infrazione. Si ricorderà che il codice degli appalti allora fu salutato come un punto di svolta radicale, anche in virtù del ruolo salvifico che l’Anac di Cantone avrebbe dovuto svolgere. Le cose sono andate diversamente.
In primo luogo, per l’ovvio motivo che qualunque aspettativa di palingenesi legata ad un singolo individuo o organismo è destinata a fallire, a prescindere dall’effettivo operato. Infatti, l’Anac ha ben operato durante la presidenza Cantone – e continua a farlo anche ora (malgrado il suo progressivo ridimensionamento) – ma era infondata la pretesa che il nuovo organo avrebbe rappresentato di per sé la risoluzione di ogni problema amministrativo e penale in materia di affidamenti pubblici.
In secondo luogo, il codice dei contratti risultò essere redatto in maniera molto frettolosa, gli operatori ricordano una lunghissima errata corrige pubblicata in gazzetta appena qualche settimana dopo la pubblicazione del decreto legislativo, a dimostrazione di una redazione frettolosa e anche imprecisa: caso più unico che raro!
In terzo luogo, l’entrata in vigore di un codice che cambiava radicalmente l’ambiente normativo cui gli operatori erano abituati (con la soppressione della fonte regolamentare e l’introduzione della soft law delle linee guida dell’Anac, testi che hanno una struttura discorsiva non usuale per delle fonti normative, e che per giunta aveva la particolarità di fornire una cornice normativa di gran lunga inferiore alla precedente) aveva determinato disorientamento degli operatori con conseguente stasi delle procedure di affidamento, in attesa di chiari orientamenti dottrinali e, soprattutto, giurisprudenziali sui punti più controversi.
L’esplosione del contenzioso
Quest’ultimo elemento tende a essere sottovaluto. A bene vedere, invece, le riforme radicali di un intero settore dell’ordinamento, soprattutto quando questo è contraddistinto da notevole complessità tecnica e dagli importanti effetti economici, richiedono un certo numero di anni prima che si sedimentino e inizino ad entrare a pieno regime. Sarebbe possibile verificare sperimentalmente che l’entrata in vigore di una riforma di settore si accompagna ad un contenzioso volto a definire con chiarezza il quadro della riforma stessa. Accade sempre con varia intensità sulla base della nitidezza e completezza del testo normativo.
E, difatti, dal 1919 al 2019 la Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha reso 95 decisioni in materia di pubblici appalti di cui:
– soltanto 7 dal 1919 al 1968;
– 14 dal 1969 al 2005 su questioni relative alla disciplina anteriore al codice n. 163/2006;
– e ben 74 dal 2006 al 2019 su questioni relative all’applicazione del codice n. 163/2006 e n. 50/2016.
Il dato non deve sorprendere, appunto, perché è inevitabile che una riforma complessiva determini l’esigenza di chiarimenti in sede giurisprudenziale, soprattutto nel caso in cui la riforma non eccelli per completezza e nitidezza.
Ora che il quadro sembrava si stesse normalizzando interverrà una nuova riforma del settore che è facile immaginare causerà una nuova fase di decisioni dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato per definire l’esatto perimetro della normativa.
Dipendenti pubblici troppo anziani
Ma non solo. Qualche giorno fa è stato dato particolare risalto alla notizia che l’età media dei dipendenti pubblici è superiore ai 55 anni. Non occorre essere dei geni di gestione delle risorse umane per intuire che man mano che il personale si avvicina alla fine del suo percorso lavorativo diventa più difficile in termini di motivazioni, e meno remunerativo in termini di efficienza, addestrarlo a nuovi e complessi compiti, come quello, per l’appunto, di imparare una nuova disciplina di settore che se andrà bene entrerà pienamente a regime, nel senso chiarito precedentemente, dopo qualche anno quando ormai si sarà cessato dal servizio o si sarà comunque molto prossimi.
E questo quando la struttura pubblica dispone di risorse umane qualificate per lo svolgimento delle procedure ad evidenza pubblica perché in molti casi, soprattutto (ma non solo) per i piccoli enti locali, questo non è pacifico, con particolare riferimento all’assenza di figure tecniche necessarie per affidamenti in materia di lavori e servizi ad alta complessità tecnica e tecnologica.
Ma anche dal lato degli operatori economici, una riforma del codice dei contratti comporta dei costi per la formazione del proprio personale preposto alla partecipazione alle gare e agli ulteriori costi, economici e amministrativi, che occorre sostenere per adeguarsi ai mutati requisiti imposti, come ad esempio l’introduzione di punteggio premiale di chi soddisfa criteri di sostenibilità ambientale o di parità di genere nella propria forza lavoro.
Effetti indesiderati
In definitiva, la prossima riforma del codice dei contratti pubblici, che si ricorda è richiesta dal Pnrr, rischia di conseguire un temporaneo effetto di rallentamento della crescita economica per la verosimile prudenza con cui stazioni appaltanti e operatori economici si approcceranno alla nuova disciplina.
Stupisce sinceramente che non si abbia contezza di questo profilo da parte del decisore pubblico. Comunitario e nazionale. Usando una metafora calcistica, cambiare radicalmente squadra ogni stagione con l’innesto di molti giocatori, anche bravi, in molti ruoli chiave non sempre conduce ad una immediata vittoria e anzi più spesso è la ragione di molti insuccessi.
Come è scritto, “per ogni cosa c’è il suo tempo, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo” (Ecclesiaste 3:1). E le riforme di sistema, come è quella del codice di contratti pubblici, hanno bisogno dei loro tempi per esprimere le loro potenzialità ed essere assimilate da tutti gli operatori del settore. Cambiare continuamente il codice dei contratti pubblici non sembra essere la migliore ricetta per semplificare la vita degli operatori economici e delle pubbliche amministrazioni. Anzi, sembra vero il contrario. Almeno per chi crede che l’obiettivo di queste riforme dovrebbe davvero essere il buon funzionamento del settore e non solo la copertura mediatica-elettorale della riforma.