Scandalo incentivi alle rinnovabili: quanto ci costano e perché è ora di abolirli

Ben 10 miliardi l’anno in bolletta, 110 euro a famiglia. Eolico e fotovoltaico tecnologie mature da vent’anni, è tempo che competano sul mercato senza sussidi dopanti

8.3k 34
eolico 02

Forse non tutti sanno che… no, non è il titolo della celeberrima rubrica di pag. 19 de “La Settimana Enigmistica” ma l’incipit di una reale frase dubitativa: forse non tutti sanno che ogni anno sulla nostra bolletta elettrica paghiamo circa 10 miliardi di euro a titolo di incentivi per le tecnologie di generazione di energia rinnovabile: essenzialmente fotovoltaico ed eolico, ma anche idroelettrico, un po’ di biomasse e qualche frattaglia di geotermico (anche se la geotermica, a rigor di termini, energia rinnovabile non è).

Quanto costa a famiglia?

Tenendo conto che il consumo annuo di energia elettrica in Italia è di circa 320 miliardi di kWh, questo significa un’incidenza per kWh di circa:

10.000.000.000 / 320.000.000.000 = 3,12 €cent/kWh

Considerando che una famiglia italiana di quattro persone consuma mediamente 3.500 kWh/anno, questo comporta un esborso per ciascuna famiglia mediamente di circa 110 euro l’anno per poter godere della vista a perdita d’occhio di turbine eoliche affastellate sui crinali delle colline e del loro melodioso sibilo “3P” udibile anche a centinaia di metri che allieterà le notti d’estate (la frequenza “3P” – sonora e strutturale – è quella causata dal passaggio periodico di ciascuna pala per la posizione verticale verso il basso).

Per beneficiare della vista di pannelli fotovoltaici nero-tenebra installati in ogni dove, sui tetti – una volta rosso-tegola – nei campi – una volta verde-vegetazione – sulle tettoie dei parcheggi – una volta… no, una volta i parcheggi non avevano di solito tettoie – e per poter infine usufruire d’estate di quel piacevole effetto di surriscaldamento locale – questo sì reale – dovuto alla riduzione significativa dell’albedo causata dalla massiccia presenza di pannelli fotovoltaici. Tutto questo alla modica cifra di 110 euro l’anno. Chi altri può offrirvi le stesse meraviglie a minor prezzo?

Scommetto le facce stupite e inc***ate di molti di voi nell’apprendere dell’ennesimo esproprio del vostro denaro, ma anche l’obiezione di altri che più o meno dice così: “Questo è il giusto prezzo da pagare per avere l’ambiente pulito e per proteggere il nostro pianeta!”

Ma io vi rispondo: ne siete proprio sicuri? Già abbiamo visto qualche settimana fa il bluff dei pannelli fotovoltaici e il loro modestissimo ritorno di energia, nonché l’utopia degli obiettivi net zero, ma scommetto che nessuno di voi aveva allora riflettuto attentamente su quale fosse lo scotto economico che paga di tasca propria in cambio di tutto questo. Ecco, adesso abbiamo colmato anche questa lacuna.

Tuttavia, messa da parte la giusta indignazione, cerchiamo come al solito di riflettere a mente fredda e capire come stanno le cose dal punto di vista teorico, nonché approfittarne per vedere più da vicino quali sono i fattori salienti per il calcolo del costo del kWh da fonti rinnovabili.

Ricerca e sviluppo tecnologico

Quando nasce una nuova tecnologia che si presenta promettente per il futuro e di sicuro interesse nazionale, ma che ha bisogno di un sostegno per superare la fase di “mortalità infantile”, è non solo giusto ma sacrosanto sostenerla nella sua fase iniziale di immaturità tecnologica. Essa va accompagnata e sostenuta in tutte le sue fasi di sviluppo: dall’idea concettuale di base fino al raggiungimento della maturità commerciale.

Naturalmente, il cammino può essere lungo e tortuoso e non sempre portare ai risultati sperati, ma ciò fa parte delle incognite ed è giusto che un Paese che voglia dirsi tecnologicamente avanzato si prenda dei rischi e investa fondi pubblici in concetti che poi, strada facendo, potranno anche rivelarsi infattibili / inefficaci / troppo costosi / meno efficienti di altre tecnologie già presenti sul mercato. Tutto questo fa parte di quel grande gioco che si chiama “eccellenza tecnologica” o, detto con la saggezza popolare: “chi non risica non rosica”.

Maturità tecnologica

Ovviamente, compito di un Paese tecnologicamente avanzato è quello di minimizzare questi rischi e scegliere di finanziare quei progetti che siano i più promettenti. Questa cernita si fa o, meglio, si dovrebbe fare con l’ausilio di pool di esperti di comprovata competenza in un dato settore i quali effettuano un’analisi congiunta di tutte le proposte che vengono presentate in una data area di ricerca e scelgono quelle che, almeno sulla carta, risultano le migliori sulla base di una griglia di giudizio uguale per tutti che tenga conto di tutti gli aspetti di un progetto e che sono riassumibili in tre criteri fondamentali: eccellenza tecnologica della soluzione proposta, impatto a breve e medio/lungo termine della tecnologia nel caso essa approdi a maturità e bontà del programma di implementazione.

Allo scopo di facilitare la quantificazione della maturità di un concetto e meglio accompagnarne il suo sviluppo lungo tutte le sue fasi, da qualche anno le organizzazioni internazionali si affidano ad un parametro relativamente semplice, il cosiddetto “livello di maturità tecnologica” o “Technology Readiness Level” (TRL): un numero intero che va da 1 a 9 e che definisce lo stadio di avanzamento di una data tecnologia secondo questi criteri:

TRL 1: Osservazione dei principi fondamentali

TRL 2: Formulazione di un concetto tecnologico (equazioni fondamentali, ecc.)

TRL 3: Prova di concetto sperimentale

TRL 4: Tecnologia convalidata in laboratorio

TRL 5: Tecnologia convalidata in ambiente (industrialmente) rilevante

TRL 6: Tecnologia dimostrata in ambiente (industrialmente) rilevante

TRL 7: Dimostrazione di un prototipo di sistema in ambiente operativo

TRL 8: Sistema completo e qualificato

TRL 9: Sistema reale provato in ambiente operativo (produzione competitiva, commercializzazione)

Sostegni alla ricerca

È chiaro che, più la tecnologia è prematura, cioè più il suo TRL è basso, e maggiore dovrà essere il tempo di accompagnamento e l’ammontare dei fondi necessari al suo sviluppo. Inoltre, è chiaro anche che una tecnologia può fallire lo sviluppo in qualsiasi stadio intermedio: in tal caso, il sostegno economico dovrebbe cessare al raggiungimento del “binario morto”, ovunque esso sia collocato tra TRL 2 e TRL 8.

Infine, è lapalissiano che, nel caso in cui la tecnologia abbia successo e raggiunga la sua piena maturità tecnologica e competitività commerciale (TRL 9), il sostegno economico debba altresì cessare: quello dovrebbe essere, al contrario, il momento a partire dal quale quella tecnologia dovrebbe cominciare a ripagare la comunità che l’ha sostenuta con i suoi benefici tecnologici ed economici.

Interesse nazionale?

Invece, eolico e fotovoltaico hanno raggiunto da almeno vent’anni la piena maturità tecnologica (TRL 9) ma continuano inopinatamente ad essere sostenute economicamente attraverso gli anacronistici incentivi di cui abbiamo parlato all’inizio. Voi mi direte: “Ma è chiaro: entrambe le tecnologie sono di interesse nazionale!” Ed io vi rispondo: “Ne siete proprio sicuri?”

Mi spiace darvi una brutta notizia ma nessuna delle due presenta il carattere di tecnologia di interesse nazionale. Ciò in quanto, banalmente, noi non deteniamo (più) alcun know-how su di esse, né ne produciamo alcun componente in Italia.

Eolico

Per quanto riguarda l’eolico, ai tempi dell’Italia quarta potenza industriale mondiale – quando c’era l’IRI, per intenderci – furono effettivamente gettate le basi per avere una tecnologia italiana che fosse all’avanguardia nel mondo. L’Alenia Sistemi Civili lavorò sodo negli anni ’80 per acquisire le conoscenze tecniche perché l’Italia potesse dire la sua in questo settore, che era ancora agli albori in quegli anni.

Alla fine degli anni ’80, grazie ad un’intuizione del governo di allora e utilizzando al meglio una piccola parte dei fondi destinati alla reindustrializzazione delle aree siderurgiche in crisi (norma creata per aiutare l’indotto tarantino penalizzato dalla decisione di dimezzare la produzione di acciaio dell’Italsider presa pochi anni prima), l’Alenia costruì a Taranto un’azienda ad hoc, la WEST S.p.A. (Wind Energy Systems Taranto) dove si costruivano le turbine Medit 320 (320 kW di potenza nominale) e dove fu installato il primo impianto italiano di fabbricazione delle pale con la tecnica del “filament winding”.

Ma non solo: la WEST fu il centro d’eccellenza italiano per la progettazione di prototipi, tra cui il “Gamma 60”, così chiamato perché aveva il rotore di 60 metri di diametro e 2 MW di potenza di targa – una novità assoluta per i primi anni ’90 – la prima turbina eolica al mondo bipala, a velocità variabile e con il controllo di potenza basato sulla modulazione dell’angolo di imbardata della navicella anziché del passo delle pale. Il prototipo Gamma 60 ha girato gloriosamente nel campo prova eolico Enel di Alta Nurra (Sassari) per tutti gli anni ’90. Chi vi scrive ha partecipato in prima persona a quei progetti lungo quel decennio.

Poi venne Ansaldo, cui Finmeccanica affidò tutto il settore energia del gruppo (compreso quindi il settore eolico), i cui vertici inopinatamente preferirono dismettere in men che non si dica tutto il know-how italiano maturato fino ad allora, svendendo la WEST ai danesi della Vestas. E così, l’intera azienda fu asservita alle logiche produttive delle macchine danesi fino alla chiusura del settore turbine avvenuta nel 2013.

Oggi, della Vestas Taranto sopravvive solo un piccolissimo nucleo di service per curare la manutenzione delle turbine installate in Sud Italia e lo stabilimento di produzione delle pale – per la cronaca, una delle lavorazioni più inquinanti in assoluto nell’ambito delle produzioni industriali.

Danni degli incentivi

Oltre alla presenza dei costruttori storici di turbine (Vestas, Siemens, ecc.), oggi il mercato dell’eolico è purtroppo invaso da una selva di avventurieri che, improvvisandosi esperti del settore, hanno raffazzonato macchine dall’affidabilità più bassa della vita di un gatto in tangenziale.

Quante turbine eoliche ferme vi capita di vedere in giro, anche in presenza di vento? Quelle sono tutte macchine fuori servizio che richiedono magari interventi importanti di manutenzione, finendo col creare cimiteri di macchine a cielo aperto. Per non parlare della configurazione dei “parchi eolici” che non rispettano le più elementari regole della buona progettazione, con turbine addossate l’una sull’altra che interferiscono vicendevolmente a detrimento della produzione complessiva di energia del parco.

Duole dirlo ma, purtroppo, questo è conseguenza diretta della presenza di quegli incentivi economici.

Fotovoltaico

Per quanto riguarda il fotovoltaico, l’Italia non ha mai detenuto alcun know-how e si è sempre rifatta alle tecnologie estere, cinese per i pannelli e tedesca per l’elettronica di potenza di interfaccia. Le iniziative italiane in questo settore hanno avuto tutte vita breve; ricordiamo ad esempio lo stabilimento che nacque nei primi anni 2000 nella zona industriale di Matera e che avrebbe dovuto produrre pannelli fotovoltaici ma che, nonostante fosse stato finanziato interamente con denaro pubblico, non entrò mai in funzione.

Ultimamente poi si sono rincorse voci secondo le quali sarebbe in programma l’imminente costruzione di una gigafactory – termine molto a la page – che dovrebbe nascere nell’area industriale di Catania e che dovrebbe produrre pannelli fotovoltaici. Tuttavia, la sensazione è che anche questa iniziativa – che nascerà, se nascerà, sempre con l’ausilio di cospicui fondi pubblici, ça va sans dire – avrà vita breve per problemi di costi. Chi vivrà vedrà.

Fattore drogante

Sicché, come abbiamo visto, né l’eolico e né il fotovoltaico ricoprono alcun interesse nazionale in senso stretto, se non per l’indotto relativo alla compravendita, installazione ed esercizio di questi impianti. Tuttavia, una ben misera fettina della torta, se sapete cosa intendo.

Eppure, da decenni, non solo l’Italia destina cifre nell’ordine della decina di miliardi di euro l’anno a carico degli utenti a titolo di incentivi per la produzione di elettricità rinnovabile ma ogni governo succedutosi dalla fine degli anni ’90 in poi ha sempre destinato ulteriori incentivi per l’installazione di impianti ad energia rinnovabile, in ragione di quote a fondo perduto via via variabili nel tempo ma mai inferiori al 50 per cento della spesa. Eclatante, a tal proposito, l’installazione gratuita di pannelli fotovoltaici nell’ambito del famoso “110 per cento” che oggi sopravvive come quota del 70 per cento a carico dello Stato.

Perché tutto ciò? Capite bene che non è per l’ambiente: nel bilancio complessivo tra pro e contro, ormai avete capito che questi ultimi sono senz’altro prevalenti rispetto ai primi. Per di più, c’è un altro fattore esiziale: quando un sostegno economico è a tempo indeterminato, esso diviene a tutti gli effetti un fattore drogante del mercato che a sua volta finisce col reggersi in piedi solo ed esclusivamente grazie a quel sostegno, in un perverso circolo vizioso.

Il ruolo della narrazione

La spiegazione è più semplice di quanto uno possa immaginare: l’ambientalismo nella forma sessantottina mutuata dai “Grunen” tedeschi ha vissuto per trent’anni di parole d’ordine che hanno plasmato il discorso, rendendo automaticamente “eretici” tutti coloro che non si adeguavano a quelle parole d’ordine. Una di queste erano le “energie alternative” che poi sono diventate nell’ultimo decennio “energie rinnovabili”.

La differenza semantica non è di poco conto: mentre la prima definizione dà l’idea di tecnologie di supporto a quelle principali, alternative appunto, la seconda nasconde in sé il carattere manicheo da esse assunto nel discorso; energie “rinnovabili”, a demarcare il campo tra buoni e cattivi: da una parte loro, buone, pulite, green, e chi più ne ha più ne metta, dall’altra tutto il male possibile e immaginabile delle energie da fonti fossili e del nucleare – per la cronaca, proprio quelle che hanno consentito lo straordinario progresso tecnologico occidentale dell’ultimo secolo e che oggi stanno consentendo uno sviluppo economico senza precedenti a Cina e India.

I politici italiani, notoriamente non proprio degli eroi, si sono adagiati sulla narrazione e, vuoi per pigrizia mentale, vuoi per incompetenza, vuoi per tenersi buona la categoria degli installatori che vivono delle briciole, hanno sempre fatto buon viso a cattivo gioco.

Voi mi direte: “Ma gli incentivi sono giustificati dal fatto che altrimenti i costi di produzione di energia rinnovabile sarebbero proibitivi!”. Qui casca l’asino e, se leggerete fino in fondo, capirete perché.

Costo livellato dell’energia

Vediamo adesso un altro parametro che riveste importanza fondamentale quando si parla di generazione di energia elettrica: il costo livellato dell’energia.

Per costo livellato dell’energia (Levelized Cost Of Energy – LCOE) si intende la stima economica del costo medio necessario per finanziare, esercire e manutenere un impianto di produzione di energia elettrica nel corso della sua vita utile, divisa per la quantità totale di energia elettrica che si suppone verrà generata durante lo stesso intervallo di tempo. In linea generale, l’LCOE rappresenta quindi il valore di riferimento di costo su cui poi costruire il prezzo di vendita dell’energia elettrica generata.

In base a questa definizione, capite bene che, a parità di valore dell’investimento iniziale, un impianto di produzione ad energia rinnovabile ha un vantaggio rispetto ad un analogo impianto di generazione ad energia fossile o nucleare: il fatto di non dover sostenere il costo del carburante. Questo fattore non solo incide positivamente sull’LCOE ma riduce anche il rischio di volatilità del costo causato dalla volatilità dei prezzi del carburante stesso negli anni.

E veniamo adesso ai numeri: tralasciando i dettagli più specificatamente tecnici di calcolo, attualmente l’LCOE dell’eolico di terra (quello serio, non quello degli avventurieri dell’eolico) si aggira intorno ai 7 €cent/kWh, mentre il fotovoltaico si attesta intorno ai 10 €cent/kWh. Di contro, l’LCOE di una centrale termoelettrica a carbone oggi si aggira intorno ai 9,7 €cent/kWh mentre una centrale termoelettrica turbogas si aggira intorno agli 11,2 €cent/kWh.

Come vedete, i valori di LCOE di eolico e fotovoltaico sono del tutto equiparabili a quelli delle fonti fossili, anzi, sono addirittura più bassi ormai. In altre parole, eolico e fotovoltaico hanno ormai da tempo raggiunto la cosiddetta “grid parity”, cioè la parità economica con le fonti fossili ed è quindi tempo che esse competano sul mercato ad armi pari, senza più indebiti vantaggi.

Questo mi dà lo spunto per farvi arrabbiare ancora un po’ di più: i costi sostenuti dal GSE per l’acquisto dell’energia da fonti rinnovabili a tariffe incentivate (13,6 miliardi di euro nel 2021), sono compensati solo in minima parte dai ricavi della vendita di quella stessa energia elettrica “verde” acquistata (2,9 miliardi di euro nel 2021). La differenza, come detto, (10,7 miliardi di euro nel 2021) la paghiamo noi in bolletta alla voce “ASOS” (nomen omen!).

Ed ecco l’argomento per farvi alzare la pressione arteriosa: un produttore di beni del valore commerciale di 2,9 miliardi di euro ricava dalla vendita di quegli stessi beni 13,6 miliardi di euro, quasi 5 volte tanto! A parte il traffico di droga, il contrabbando di alcoolici durante il proibizionismo in America, il gioco d’azzardo illegale, la prostituzione e la cosiddetta “accoglienza dei migranti” delle ong, non mi sovviene alcuna altra attività così redditizia.

Una modesta proposta

A conclusione di questa nostra digressione, vorrei lanciare una modesta proposta al governo Meloni, magari da inserire nella prossima legge di bilancio, fatti salvi ovviamente gli impianti già in funzione e quelli già approvati che sono in fase esecutiva, per i quali andrà assicurato il mantenimento delle tariffe incentivate fino alla fine della loro vita programmata (non un minuto di più e non un minuto di meno).

La proposta di buon senso è la seguente:

  1. Attingere i fondi per le tariffe incentivate degli impianti che transitoriamente ne godranno ancora fino a fine vita non più dalle bollette degli utenti ma dalla fiscalità generale. Questo eviterebbe l’ulteriore problema della regressività del balzello che oggi penalizza i più indigenti, come tutte le imposte indirette.
  2. Bloccare definitivamente gli incentivi e i contributi statali a fondo perduto o tramite credito d’imposta per eolico e fotovoltaico con effetto immediato per tutte le licenze future.
  3. Dare la possibilità ai cittadini volenterosi che sentiranno il dovere morale di sostenere le energie rinnovabili di tasca propria di poter effettuare apposite erogazioni liberali in favore dello Stato che andranno a coprire una parte degli incentivi previsti al punto 1.

Del resto, chi crede fermamente di poter salvare il pianeta installando impianti eolici e fotovoltaici perché convinto della loro funzione “green” lo farà anche senza incentivi economici, così come chi vorrà contribuire di tasca propria per sostenere queste tecnologie potrà comunque farlo anche senza imposizione statale, giusto?

Seguici sui nostri canali
Exit mobile version