“La rivoluzione green passa per il fotovoltaico!”. Chissà quante volte vi siete sentiti ripetere questo slogan al punto che avete finito anche voi col credervi. Sono sicuro che il futuro “green” che immaginate sia fatto più o meno così: distese di prati verdi su cui giocano bambini felici e, in lontananza, sagome accattivanti di candide turbine eoliche silenziosissime e campi fotovoltaici a perdita d’occhio ancor più silenziosi che alimentano le abitazioni – smart, ça va sans dire – ciascuna dotata di colonnina di ricarica per le auto elettriche di famiglia. Tutto così fantasticamente ecologico, così rispettoso per l’ambiente, così… così…
Mi dispiace quindi davvero dovervi risvegliare dal vostro idilliaco sogno green per riportarvi coi piedi per terra e porvi una semplice domanda: ma quanta energia occorre per la costruzione, l’installazione, l’esercizio, lo smantellamento a fine vita e lo smaltimento di un impianto fotovoltaico? Ecco, lo sapevo, ho rovinato tutto, ho mandato all’aria i vostri sogni di gloria: sembra quasi di sentire in sottofondo anche la musica sinistra di “Psycho”, quando Antony Perkins pugnala Janet Leigh sotto la doccia!
L’altra faccia nascosta
Eppure, ci avete mai fatto caso al fatto che nessuno parla mai dell’altra faccia della medaglia e ci fornisce questi semplicissimi dati? “Non ce lo dicono!”, verrebbe proprio da esclamare in perfetto stile complottistico!
In effetti, se provate a fare una ricerca su un qualunque motore di ricerca o in letteratura – ammesso che abbiate il tempo e la voglia di districarvi nel mare magnum di internet – tutto ciò che vi apparirà saranno articoli generalmente entusiasti delle tecnologie cosiddette “green” (maledetta indicizzazione mainstream di Google!) in cui si dice che, sì, ci vuole molta energia per costruire i pannelli ma che questa verrà ripagata in breve tempo.
Oppure, pagine in cui si dice che il principale produttore è la Cina ma che essa sta diventando sempre più “green” (ammesso e non concesso che questo sia vero) e quindi “tutto a posto”! O ancora, con un po’ più di pertinacia, potrete trovare dati parziali qui e là, ma mai nessun calcolo esaustivo. E allora, proviamo a comporlo noi questo puzzle: è uno sporco lavoro ma qualcuno deve pur farlo!
Prima di immergerci nei nostri conti della serva, però, vediamo quali sono i fenomeni fisici alla base della conversione della luce in elettricità.
L’effetto fotoelettrico
L’effetto fotoelettrico è un fenomeno della meccanica quantistica consistente nell’emissione di elettroni da parte di una superficie metallica quando questa viene colpita da una radiazione elettromagnetica di frequenza non inferiore a un certo valore di soglia caratteristico di ogni metallo (soglia fotoelettrica).
I primi studi sull’effetto elettrico della luce furono condotti nel 1839 da Alexandre Bécquerel il quale notò che, durante alcune reazioni chimiche indotte dalla luce, venisse generata una corrente elettrica, scoprendo così il cosiddetto “effetto fotogalvanico” negli elettroliti liquidi. Nel 1883, l’inventore statunitense Charles Fritz, basandosi sulle osservazioni di Bécquerel, costruì la prima cella solare a base di selenio che aveva un’efficienza di conversione molto modesta, dell’ordine dell’1-2 per cento.
Fu però Albert Einstein, nel 1905, che spiegò in maniera rigorosa le leggi dell’effetto fotoelettrico avvalendosi proprio dei concetti di quella meccanica quantistica che lui poi osteggerà per tutto il resto della sua vita (“Dio non gioca a dadi!”) ma che, ironia della sorte, gli valse il suo unico premio Nobel per la Fisica nel 1921. Infine, nel 1963, sulla spinta delle neonate esplorazioni spaziali e della conseguente necessità di dotare le navicelle di una fonte di alimentazione indipendente dal carburante, la giapponese Sharp mise a punto i primi moduli fotovoltaici commerciali.
Oggi, la tecnologia fotovoltaica si avvale di due principali tipologie di moduli: moduli al silicio policristallino, più economici e commercialmente consolidati ma caratterizzati da rendimenti a inizio vita piuttosto bassi, del 12-15 per cento. E moduli al silicio monocristallino, molto più costosi e meno affermati sul mercato ma caratterizzati da rendimenti a inizio vita più elevati, del 18-21 per cento.
Ad essi più di recente si sono affiancati i moduli al titanato di calcio (CaTiO3), detto anche “perovskite”, che raggiungono punte di rendimento a inizio vita addirittura del 28-30 per cento ma che purtroppo soffrono di un rapido e significativo degrado delle prestazioni nel tempo tuttora non risolto, tanto da renderli ancora un prodotto di nicchia dall’evoluzione delle performance imprevedibile nel tempo.
Impatto energetico
Una volta chiarite le idee su cosa sia oggi la tecnologia fotovoltaica, passiamo a esaminarne l’impatto energetico. Nel ciclo di vita dei pannelli fotovoltaici possiamo distinguere quattro fasi:
(1) Costruzione. Alla costruzione dei pannelli fotovoltaici concorrono svariati processi, tutti fortemente energivori: dalla produzione dei supporti di alluminio (dall’estrazione della bauxite ai profilati), a quella dei “salami” di silicio poli- o monocristallino e il loro successivo taglio per ottenere i wafer, alla stampa dei circuiti elettrici, alla fusione del vetro e all’assemblaggio finale.
Si stima che la fase di costruzione impegni, vuoto per pieno, circa 135 MWh per tonnellata di prodotto. Poiché la Cina detiene pressoché il monopolio mondiale della loro produzione, in attesa del mitologico “reshoring” possiamo dire che 115 di quei 135 MWh/tonnellata provengono da fonti fossili, così come da mix energetico cinese (dato del 2021).
(2) Trasporto e installazione. Tenendo conto che i pannelli giungono, come detto, tutti dalla Cina, l’installazione richiede, tra trasporti, mezzi e attrezzature accessorie, ulteriori circa 20 MWh per tonnellata, provenienti tutti da fonti fossili.
(3) Esercizio. Per l’esercizio di un impianto fotovoltaico lungo tutto il ciclo di vita (20 anni) occorrerà mettere in conto un certo dispendio energetico legato agli inevitabili guasti che si presenteranno lungo il cammino, dispendio energetico inteso sia come mancata produzione a causa dei tempi di fuori servizio che come contenuto energetico dei ricambi che occorrerà utilizzare in sostituzione dei pezzi difettosi.
Questa componente è di più difficile determinazione in quanto fortemente variabile e legata all’affidabilità dell’impianto fotovoltaico, a sua volta dipendente dalla natura dei controlli di qualità, dall’affidabilità dell’elettronica di bordo, ecc. Supponiamo comunque, come mera ipotesi di accademia, che ad esso siano associati ulteriori 10 MWh per tonnellata, dato del tutto conservativo. Di questi, considerato il mix energetico italiano, 6 MWh/tonnellata proverranno da fonti fossili.
(4) Smantellamento e smaltimento. L’ultimo anello del ciclo, il più fastidioso e il meno proficuo per i proprietari degli impianti fotovoltaici, è rappresentato proprio dallo smantellamento dell’impianto a fine vita e dallo smaltimento dei suoi componenti. Infatti, la tentazione di abbandonare l’impianto al proprio destino una volta del tutto sfruttato è sempre fortissima e, in assenza di controlli sul territorio degni di questo nome, è ciò che è peraltro purtroppo accaduto finora.
Ma, per una tecnologia che pretende di essere “green”, lo scempio di distese sterminate di campi fotovoltaici abbandonati e dei terreni devastati è un aspetto che ognuno in cuor suo dovrebbe aborrire. Pertanto, tenendo conto delle attività da effettuare per lo smantellamento e il conferimento in discarica a norma di legge, occorreranno ulteriori 40 MWh per tonnellata circa, di cui 26 MWh/tonnellata da fonti fossili (mix italiano).
Ricapitolando, per realizzare l’intero ciclo di vita di un impianto fotovoltaico occorrono circa 205 MWh per tonnellata, di cui 167 MWh/tonnellata da fonti fossili. Questi valori sono pressoché indipendenti dalla tipologia di celle presa in considerazione.
La resa energetica
Vediamo adesso quanti m2 di pannelli ci sono in una tonnellata di prodotto, in modo da valorizzare il dispendio energetico per m2. Un m2 pesa dai 9,5 agli 11,5 kg. Per semplicità di calcolo, supponiamo che il peso sia 10 kg; sicché, quei 205 MWh/tonnellata diventano 2,05 MWh/m2, di cui 1,67 MWh/m2 da fonti fossili.
Quanto rende invece 1 m2 di pannello in 20 anni di vita? Un impianto con pannelli nuovi al silicio policristallino può produrre mediamente alle nostre latitudini fino a 160 kWh/m2/anno in assenza di guasti di grossa entità. I più recenti pannelli al silicio monocristallino raggiungono invece rese energetiche annue anche del 40 per cento più elevate rispetto a quelle dei pannelli al silicio policristallino. Sicché, possiamo ipotizzare di poter arrivare, con i pannelli nuovi della migliore tecnologia (che però, ricordiamo, sono anche molto più costosi di quelli ordinari), a rese energetiche annue di 230 kWh/m2/anno.
Purtroppo però, il rendimento dei pannelli degrada abbastanza rapidamente con l’età, in ragione di circa l’1 per cento/anno; sicché, dopo 20 anni (vita massima di un impianto fotovoltaico), essi giungono all’80 per cento della resa iniziale. Inoltre, il rendimento cala drasticamente all’aumentare della temperatura in ragione dello 0,4-0,5 per cento/°C per temperature al di sopra di quella standard (25 °C). In altre parole, proprio quando c’è più radiazione solare d’estate, il pannello riduce via via il proprio rendimento di conversione: una vera e propria “ansia da prestazione”!
Mettendo insieme questi dati e considerando le ulteriori perdite di energia nella circuiteria elettronica di conversione DC/AC e di allaccio alla rete (5-10 per cento circa, a seconda dell’estensione dell’impianto fotovoltaico), ne deriva una resa energetica annua equivalente mediata sulle stagioni dell’anno e sui 20 anni rispettivamente di circa 140 e 200 kWh/m2/anno, a seconda che si tratti di pannelli al silicio policristallino o monocristallino.
Sicché, in vent’anni le rese saranno rispettivamente di 2,8 MWh/m2 per i pannelli al silicio policristallino e 4 MWh/m2 per quelli al silicio monocristallino.
Conclusioni
In definitiva, 1 m2 di pannello richiede la spesa di 2,05 MWh circa di energia (1,67 MWh da fonti fossili) e restituirà in 20 anni 2,8/4 MWh a seconda del tipo, cioè appena il 37/95 per cento in più dell’energia spesa. Visto da un’altra angolazione, il pannello dovrà “ripagare” l’energia da spendere per il suo ciclo di vita rispettivamente per i primi 14 anni e mezzo, o 10 anni, a seconda della tecnologia dei pannelli, che rappresentano quindi i “break even points” energetici.
Inoltre, per i primi 12 e 8 anni rispettivamente, l’impianto fotovoltaico restituirà solo la quota di energia fossile impiegata per il suo ciclo di vita.
In termini tecnici, ciò vuol dire che l’EROEI (Energy Return on Energy Invested, Ritorno di Energia su Energia Investita) effettivo vale 1,37/1,95, in ogni caso ben al di sotto del valore minimo di 5 risultante dalle buone pratiche industriali in materia di generazione di energia elettrica per avere una soddisfacente profittabilità energetica.
In conclusione, per rispondere alla domanda del titolo, alla luce di quanto visto, ritenete che il fotovoltaico sia una tecnologia “green” o cosa?