Tre lezioni dal passo falso sugli extra-profitti delle banche

Tassa neutralizzata, la misura corretta ha spinto gli istituti di credito a rafforzare il proprio patrimonio. Ma non sempre si potrà rimediare in corso d’opera

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meloni profitti

Molto rumore per (quasi) nulla. Questa potrebbe essere un’efficace sintesi sulla vicenda tassa sugli extra-profitti alle banche. Come si ricorderà, nell’immediatezza dell’improvviso annuncio della tassa – che provocò una forte ondata di vendite sui titoli bancari e un calo dell’indice borsistico milanese – esprimemmo le nostre valutazioni critiche sulla misura.

In particolare, scrivevamo che “a settembre vedremo se è stato solo un innocente cedimento estivo al populismo demagogico o un preoccupante sbandamento dirigistico della maggioranza di governo”. Oggi possiamo affermare che, fortunatamente (si fa per dire), si è verificata la prima ipotesi e la tassa annunciata è stata sostanzialmente annullata.

La tassa facoltativa

È però opportuno evidenziare come ciò sia avvenuto. Infatti, il governo non ha mai ritirato la proposta, verosimilmente per non perdere la faccia su una misura che aveva pomposamente annunciato come strumento di giustizia sociale. Si è limitato a devitalizzarla attraverso un emendamento approvato durante il procedimento di conversione in legge del decreto legge n. 104/2023.

In particolare, si è introdotto una opzione facoltativa a disposizione degli istituti di credito, i quali erano chiamati a versare la tassa o a procedere ad un accantonamento a riserva non distribuibile con la finalità, o meglio l’auspicio, di favorire il credito. Non sorprenderà scoprire che tutte le banche, compresi i primi cinque gruppi, hanno optato per l’accantonamento a riserva non distribuibile pari a 2,5 volte l’importo teorico del prelievo fiscale: per le prime cinque banche si tratta di 4,2 miliardi per il 2023.

D’altronde, chiunque fosse posto di fronte all’alternativa di pagare una tassa o accantonare la somma nel proprio patrimonio sceglierebbe quest’ultima opzione. Non occorre essere un genio della finanza per capirlo. Peraltro, anche Monte Paschi di Siena ha scelto la via dell’accantonamento malgrado l’azionista principale sia il Tesoro, a dimostrazione, ammesso ve ne fosse ancora bisogno, della totale irragionevolezza della tassa straordinaria.

Ex malo, bonum

Questa vicenda, forse, ci fornisce qualche insegnamento. In primo luogo, non tutti i mali vengono per nuocere quando ci si accorge di avere commesso un errore, anche se non lo si ammette ad alta voce, e lo si corregge. Infatti, nel caso specifico, la misura corretta ha spinto gli istituti di credito del Paese a rafforzare il proprio patrimonio, anche se al fine di evitare il versamento dell’imposta straordinaria.

Una strada grazie alla quale le banche hanno probabilmente anticipato rafforzamenti patrimoniali che, in prospettiva, alla luce del probabile deteriorarsi del credito, potrebbero essere suggeriti o imposti dalle autorità di supervisione e vigilanza. Stavolta, alla fine, è andata bene.

Toni meno perentori

In secondo luogo, è consigliabile abbandonare i toni perentoriamente assertivi con cui spesso si accompagnano le misure varate in Consiglio dei Ministri, sia perché spesso ciò appare esageratamente sopra le righe (la cronaca politica è piena di riforme epocali e di migliori governi della storia ecc.), sia perché ciò costringe, di fronte alle fisiologiche critiche, ad assumere espresse posizioni di difesa ad oltranza, anche quando queste non sembrano molto solide.

Basti ripensare alle dichiarazioni con cui il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari rivendicava orgogliosamente una misura (“non rispondiamo ai banchieri e ora facciamo pagare i furbi”) che poi è stata sostanzialmente abbandonata. Rileggere adesso queste dichiarazioni non fanno fare una gran bella figura, anzi. Sarebbe stato meglio, per l’appunto, avere toni meno perentori. È una lezione che vale quasi sempre e per tutti.

Diffidare dai laudatores

In terzo luogo, occorre sempre diffidare dai laudatores del Principe. Si comprende che la dirigenza, parlamentare e di partito, sostenga a prescindere il proprio leader. Ma i molti che sostengono una leadership politica senza averne un interesse diretto e concreto devono invece svolgere quella funzione di critica costruttiva che è indispensabile per non fargli smarrire la direzione e, dunque, dissipare il consenso ottenuto.

Sembra che ciò sia successo in questo caso con una modifica della norma originaria sostanzialmente abrogativa, visto che nessuno ha scelto di versare la tassa. E può anche essere apprezzato l’ingegno di avere evitato un palese dietrofront. Difatti, la questione è ormai in sordina e non ha più avuto ampia eco, se non nella stampa specializzata. Ma ciò non muta la realtà e cioè che questa vicenda sia stata un clamoroso passo falso, anche se poi fortunatamente rimediato.

L’auspicio è che in futuro ci siano meno passi falsi così grossolani, perché comunque danneggiano l’immagine dell’Esecutivo, e che il governo tenga, d’ora in poi, più in considerazioni le considerazioni critiche che provengono dai settori mediatici e culturali amici, perché non sempre si potrà rimediare in corso d’opera, come è accaduto stavolta.

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