Esteri

Al Jolani e il mito del complotto ebraico

La strampalata teoria secondo cui al-Jolani sarebbe in realtà ebreo. Come il mito del complotto ebraico-sionista-israeliano è sempre stato la linfa portante dell’antisemitismo

Caduto Assad e sciolto come neve al sole il regime Ba’th, ecco sorgere l’astro del nuovo raiss Abū Muḥammad al-Jawlānī. La repentina fine della dittatura degli Assad, abbandonati anche da quelli che, poco prima, erano fedeli sostenitori, ha portato il mondo ad interrogarsi sulla figura di questo nuovo padrone del Paese, poco più che quarantenne e sconosciuto ai più.

L’ambiguità di al-Jolani

Ecco che i media hanno iniziato ad indagare su quest’uomo con un passato ambiguo. Prima braccio armato in Siria per Dāʿesh, poi per al-Qāʿida, infine per al-Nuṣra, ovvero per tutta la galassia dell’estremismo e del terrorismo islamico contemporaneo. Questi cambi di casacca trovavano sintesi nel fine ultimo – ecco un elemento caratteristico della politica dell’uomo – di combattere il regime siriano, i clientes dell’Iran di Hezbollah e, dopo il 2015, anche lo Stato Islamico.

Preso il potere ha immediatamente iniziato una “operazione simpatia” per non alienarsi né l’Occidente, né la Russia. Quanto sia sincero questo pseudo moderatismo non è dato sapere, tanto che i russi, prudenzialmente, hanno fatto prendere il mare alle loro unità ancorate a Tartus, mentre esecuzioni sommarie stanno decimando i vecchi quadri del regime di Assad.

L’ambiguità del personaggio e la certa sconfitta strategica dell’Iran e delle sue pretese egemoniche, a tutto favore del neo ottomanesimo di Erdogan e – incidentalmente – di Israele, ha fatto si che gli “anti-occidentalisti” dell’Occidente abbiano preso di mira al-Jawlānī. I canali social sono stati, come sempre, veicolo delle più strane teorie.

La teoria su al-Jolani

Tra le tante ecco la più interessante: il 13 dicembre, su X, Mads Palsvig, già fondatore, nel 2020, di un partitello dal nome “Folkepartei (partito del Popolo) JFK21” ed ora presidente del Partito per la Prosperità (VelstandsPartiet) lascia questa nota: “Che sorpresa: il capo dei ribelli siriani alias Isis, alias Israel Secret Intelligence Service Al-Julani è ebreo e si è laureato presso la facoltà di giurisprudenza islamica di Tel Aviv”.

Ecco comparire la longa manus israeliana! L’autore è abituale mestatore dei più vari complotti “giudo-plutocratici” (per utilizzare antiche espressioni). Tutto resterebbe nell’ambito della curiosità se il post non avesse trovato facile sponda in un vasto pubblico, che sarebbe troppo comodo ridurre all’espressione del disagio.

Ecco quindi che – come a rilanciare – un certo Harun Kimani risponde che il vero nome del nuovo raiss di Damasco sarebbe Yonatan Zvi-David, “una talpa del Mossad”. Viene citata la versione on line dello storico quotidiano Yediot Ahronoth che, nel 2013, rivelò che negli anni ’50 “spie del Mossad sposarono delle arabe per nascondere la propria identità. Gli agenti segreti del Progetto Ulisse del Mossad assunsero false identità, sposarono palestinesi, ebbero figli, il tutto mentre fornivano informazioni agli operatori israeliani”.

Nonostante che queste anime belle, talvolta e sempre più raramente, cerchino di fare distinzioni tra “sionismo” ed “ebraismo”, tra Israele e gli “ebrei” ricorrono alla medesima retorica del complotto che è sempre stata la linfa portante dell’antisemitismo.

Dreyfus e i Protocolli dei Savi di Sion

D’altronde – come ha correttamente scritto Michele Magno nella primavera 2024 – l’antisemitismo è come un fiume carsico: riemerge in superficie ogni volta che Israele combatte per la propria sopravvivenza. Del resto, come  aveva intuito Theodor W. Adorno, le radici dell’antisemitismo si spingono sino alla profondità più oscura e misteriosa della nostra civiltà.

Vi è un sottile fil rouge che unisce la teoria, sopra enunciata, che vuole al-Jawlānī ebreo “infiltrato” e la figura del “vil marrano” ebreo e/o mussulmano convertito nella Spagna cattolica per mero opportunismo e segretamente legato alla fede dei padri. Alla fine dell’Ottocento vi furono prove generali dell’uso politico della teoria del complotto giudaico con l’Affaire Dreyfus, ma solo con il Novecento esso acquisì completezza di struttura.

Si pensi alla divulgazione dei “Protocolli dei Savi di Sion”, documento creato nel 1903 dall’Ochrana, la polizia segreta zarista, con l’intento di diffondere l’odio verso gli ebrei e nonostante fosse stato smascherato come falso già nel 1921, continuò a circolare in ambienti antisemiti in vari Paesi, nel quale vi si descrive un presunto complotto giudaico per il dominio del mondo.

Il volume diffonde un’idea già presente in alcuni testi russi del XIX secolo. Il più noto è “Il libro di Kahal” (termine indicante la forma di autogoverno delle comunità ebraiche dell’Europa orientale) di Jacob Brafmam. Nonostante la precoce scoperta della non autenticità del testo, esso godette di una tale fortuna da essere humus fecondo, sia per la vulgata nazional-socialista, sia per le dottrine nazionaliste e pan-arabe del Medio-Oriente.

Nulla potrebbe raffigurare in modo plasticamente più efficace questo legame, quanto la foto che vede sodali e simpatizzanti il Führer ed il gran Muftì di Gerusalemme Muḥammad Amīn al-Ḥusaynī. Interessante notare come il mito del complotto ebraico (giudeo o sionista che sia nulla cambia) rispunti ogni volta avvenga al mondo un evento di tale clamore da rendere inaccettabile ogni possibile logica giustificazione di esso.

Le Torri Gemelle

Non è difficile ricordare come dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 contro le Twin Towers a New York fu diffusa la notizia, poi rivelatasi falsa, secondo cui oltre 4.000 dipendenti ebrei che lavoravano al WTC ed al Pentagono non si sarebbero presentati al lavoro il giorno degli attentati, avvisati preventivamente dal servizio segreto israeliano, il Mossad, o perché consapevoli dei fatti in quanto complici del complotto.

La notizia prese corso il 17 settembre, pubblicata e diffusa in Medio Oriente da una tv vicina ad Hezbollah, quindi all’Iran. È però agli atti che cinque giorni prima (12 settembre) il Jerusalem Post in un’edizione straordinaria, già citava la stima provvisoria di 270-400 ebrei rimasti uccisi nell’attentato.

Nei mesi successivi alcuni siti web, di orientamento antisemita, ripresero e diffusero strumentalmente la falsa notizia. Secondo altre tesi complottiste, gli attentati sarebbero stati formulati da un presunto “ebraismo mondiale” con l’ipotetico scopo di destabilizzare il mondo in favore della causa degli Stati Uniti e di Israele.

Nel Bel Paese fu Giulietto Chiesa a sostenere questa teoria, non tanto perché volesse dar credito all’esistenza di un complotto – esclusivamente – ebraico, ma perché convinto di un altro complotto, quello occidentale; laddove il sionista Israele sarebbe stato l’emissario del “Grande Satana” americano che voleva gettare discredito verso il mondo islamico (senza tener minimamente conto delle molte differenze all’interno della Umma).

Ebraismo vs sionismo

Ecco che si pone il confronto “ebraismo” vs “sionismo”. Intellettuali del calibro di Moni Ovadia vedono i due paradigmi come antitetici, dimenticando come tutte le ideologie “forti” (cioè quelle che hanno una weltanshauung estremamente dogmatica e auspicano la creazione dell’“Uomo nuovo”) sono nate in un brodo di coltura sociale dove vi erano religioni dominanti ed anche nella versione più secolarizzata e contrastante sono da esse influenzate.

Il rapporto tra le ideologie “forti” e la religione, può essere estremamente dialettico e conflittuale, ma sovente vi sono delle complementarietà, proprio perché entrambe condividono finalità “millenaristiche”, siano esse laiche o trascendentali .

Nel caso “ebraismo” e “sionismo” si prendano ad esempio alcune affermazioni di Cecilia Parodi, attivista pro-pal, altrove difesa dallo stesso Ovadia: “Odio tutti gli ebrei, odio tutti gli israeliani, tutti, tutti. Odio tutti quelli che li difendono. Se un giorno dovessi vedervi tutti appesi per i piedi […] io vi giuro che sarò in prima fila a sputarvi addosso”. Al di là della censurabile scompostezza dell’affermazione, ecco che il legame tra l’etnia, la religione ed il suo riflesso secolarizzato risulta inscindibile.

La retorica del complotto

Il mito di quello “ebraico-sionista” – pur con le sue peculiarità – si inserisce nel più vasto ambito del complottismo politico strumento tanto irrazionale, quanto efficace. Come ricorda Ciuffoletti (“Retorica del complotto”, 1993) “la forma specifica di irrazionalità che caratterizza le teorie cospiratorie è dotata di una peculiare logica altamente razionale e operativa. In effetti le teorie cospiratorie non possono venire confutate scientificamente. Esse non soltanto sono coerenti dal punto di vista logico, ma possono essere dotate di tutti quegli attributi che caratterizzano un paradigma scientifico. Pertanto o accettiamo la presenza di una mitologia […] oppure facciamo nostro il punto di vista puramente prammatico, stando al quale non esiste alcuna verità trascendente. La questione si riduce al credere o al non credere”.

La fragilità della massa

Nonostante l’impalpabilità di queste teorie, esse trovano legioni sterminate di adepti, anche se esistono – ora più che mai – strumenti conoscitivi in grado di smontare con i fatti queste teorie in pochi attimi; ma è proprio la fragilità della massa moderna ad essere il propulsore di queste dottrine cospirative che, per dirla con Rossini, partono come un “venticello” e si trasformano in un “rombo di cannone”.

Con parole tanto lucide, quanto disperate, Hannah Arendt ricorda come le masse “non credono nella realtà del mondo visibile, della propria esistenza; non si fidano dei loro occhi e orecchi, ma soltanto della loro immaginazione […] Si lasciano convincere non dai fatti e neppure dai fatti inventati, ma soltanto dalla compattezza del sistema” (“Le origini del totalitarismo”, 1996).

Capitalismo ed ebraismo

Ecco che nel mito del complotto ebraico-sionista-israeliano si assommano differenti immaginari: il denaro e l’alterità. Ebrei e massoni, i senza patria, sono i corruttori – ormai da un secolo e mezzo – della tradizione e dei valori “originari” (altro mito) su cui devono poggiare le “vere” nazioni.

Ecco che sopravvive la tesi del giovane Marx di una identità fra “capitalismo” ed “ebraismo”: una tesi che, seppur artificiosa, trova ancora credito, ormai più nella cultura politica di “sinistra” che il quella di “destra”.

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