Non ci pare proprio che sabato scorso, qualcuno, liberale o no, si sia messo a “tifare” per Evgeny Prigozhin, oppure abbia dato per certa, imminente o probabile la caduta di Vladimir Putin (“il successo della rivolta resta al momento altamente improbabile”, scrivevamo sabato, prima dell’annuncio del ritiro della Wagner).
Il punto era ed è un altro – e l’ha messo in evidenza Enzo Reale su Atlantico Quotidiano: indipendentemente dai motivi e dalle finalità che hanno spinto Prigozhin, e perfino dagli esiti, “il colpo inferto alla credibilità e alla tenuta del sistema putiniano è di quelli da cui difficilmente un regime autoritario può uscire indenne”.
Ciò che i putiniani non vedono
Non un golpe in senso classico o una guerra civile, quella in corso sembra piuttosto una lotta intestina tra clan, alimentata dagli evidenti e clamorosi fallimenti militari e politici della cosiddetta “operazione militare speciale”. Se le cose stessero andando secondo i piani, il Ministero della Difesa russo non sarebbe impegnato a liquidare la Wagner e la Wagner non avrebbe marciato su Mosca.
Questo ci pare il contesto che i simpatizzanti del regime putiniano – vuoi per sincera ammirazione del modello Putin, vuoi per semplice anti-americanismo e anti-occidentalismo, non escludendo la combinazione di entrambi – rifiutano di vedere. Prima del 24 febbraio, dicevano che Putin non avrebbe mai invaso l’Ucraina, i piani di attacco erano solo disinformazione Usa. Poi, ad invasione avviata, che resistere era inutile, avrebbe solo prolungato l’agonia, la potente armata russa avrebbe “sventrato” l’Ucraina in breve tempo. Per non parlare di chi ancora oggi nega l’evidenza delle atrocità commesse dai russi.
Ora, di nuovo, saremmo noi a non aver capito nulla di quanto avvenuto sabato, sarebbe tutta una messa in scena, una mossa da geniale scacchista di Putin, non si sa bene a quale scopo che non potesse raggiungere senza l’imbarazzo in mondovisione di un’insurrezione armata alle porte di Mosca.
Qualcuno fa notare che ora la Wagner, in Bielorussia, sarebbe a 100 chilometri da Kiev. Ok, ammesso che abbia solo cambiato fronte, Putin aveva proprio bisogno di inscenare un quasi-golpe ai suoi danni per ordinare a Prigozhin di dispiegare la sua armata altrove? Se così fosse, non avrebbe comunque un problemino?
L’effetto boomerang
Si rifiutano di vedere quello che è sotto gli occhi di tutti. Prima del 24 febbraio 2022 un regime change in Russia era semplicemente impensabile – e anche subito dopo appariva, giustamente, velleitario come obiettivo di guerra da parte occidentale. Sabato scorso, invece, è stato “il” tema della giornata.
Che non si sia effettivamente concretizzato in questi giorni – e nessuno comunque lo aveva dato per certo – è del tutto secondario. Una evoluzione ritenuta impossibile in Russia fino ad un anno e mezzo fa, oggi è entrata nel ventaglio delle possibilità.
Forse non accadrà, ma l’innegabile realtà, a prescindere dalla genesi e dall’esito dell’insurrezione o tentato golpe di sabato, è che l’invasione russa dell’Ucraina, iniziata con un tentativo di regime change a Kiev, si sta ritorcendo contro chi l’ha concepita, destabilizzando il sistema di potere putiniano. Una “nemesi storica da manuale”, come ha osservato Reale: la minaccia esistenziale che si voleva portare all’Ucraina, sta tornando indietro come un boomerang in Russia.
In ogni caso, Putin e la Russia non ne escono bene. Sfidato come mai prima, il leader russo ha dovuto trattare. Per motivi che non conosciamo ancora, non ha potuto o voluto annientare i “traditori”, come pure aveva annunciato nel suo breve discorso tv. I tempi di reazione delle forze armate regolari, a cominciare con la facilità con cui la Wagner ha preso il controllo del comando di Rostov, hanno destato sospetti di impreparazione e addirittura connivenze.
Messa in scena?
Una messa in scena? Ma a quale scopo? A chi giova? Attendiamo una teoria coerente e supportata da fatti. Ma ammesso anche che Putin abbia avuto bisogno di una messa in scena dai costi altissimi per la credibilità sua personale e della Federazione Russa, al fine di raggiungere un qualche obiettivo politico o militare (per esempio, risolvere il conflitto aperto da mesi tra Wagner e Ministero della Difesa), o semplicemente di mostrarsi ancora l’unico in grado di mediare tra i diversi blocchi di potere, proprio averne avuto bisogno non si può certo definire una dimostrazione di forza, tradisce invece una del tutto inedita debolezza e un graduale declino di autorità.
Persino Soloviev e i suoi ospiti hanno dovuto riconoscere che quanto avvenuto sabato ha minato l’autorità di Putin e della Federazione Russa. Per la prima volta si apre una crepa sull’immagine di unità e compattezza del potere russo, su cui Putin ha costruito il suo mito di forza e imbattibilità.