Washington D.C., 3 novembre 2004. È tarda notte e gli americani sono incollati alle tv con il fiato sospeso. Lo scrutinio in Ohio procede a rilento e sembra delineare un testa a testa tra il candidato repubblicano, il presidente in carica George W. Bush, e il suo sfidante John Kerry, senatore democratico del Massachusetts. Per ottenere la maggioranza dell’Electoral College è necessario conquistare il Buckeye State, che porta in dote 20 Grandi Elettori. Dopo qualche ora arrivano i dati delle contee rurali e Bush supera Kerry con circa 100 mila voti di scarto, un margine sufficientemente ampio da assicurargli la vittoria.
Se nel 2000 l’ex governatore del Texas la spuntò sul filo del rasoio contro l’allora vicepresidente Al Gore senza conquistare il popular vote, quattro anni dopo il 50,7 per cento degli americani gli diede fiducia. Ricordiamo che il voto popolare non va sempre a braccetto con il sistema dei Grandi Elettori, come ci insegna anche l’illustre caso di Donald Trump. L’aumento dell’affluenza e l’effetto traino per l’incumbent premiarono il Partito Repubblicano di Bush, ma quel successo avrebbe segnato la fine di un’epoca gloriosa per il Grand old party.
I trend politici iniziati negli anni Novanta ci raccontano una storia diversa. I Repubblicani hanno avuto la sfortuna di perdere il popular vote in sette delle ultime otto elezioni presidenziali. A cosa è dovuto questo fenomeno? E, soprattutto, l’Elefantino potrà tornare ai fasti della stagione reaganiana, quando rappresentava la casa della silent majority e riusciva a surclassare i Dem?
Un Paese sempre meno bianco
Gli Stati Uniti stanno sperimentando dei cambiamenti demografici che hanno modificato la loro identità. Un dato che emerge subito è il calo della popolazione di discendenza europea – sia in valori assoluti, sia in termini percentuali. Secondo le stime dello United States Census Bureau, i cittadini che nel 2010 rientravano nella categoria “white alone” erano 223.553.265 (72,4 per cento); nel 2020 erano 204.277.273 (61,6 per cento, la cifra più bassa mai registrata).
La quota dei bianchi – storico bacino elettorale del Gop – in costante diminuzione e l’incremento delle minoranze etniche – propense a votare Democratico – hanno fatto suonare un campanello d’allarme per i Repubblicani. Una stima realizzata nel 2018 dall’istituto FiveThirthyEight ha mostrato come sarebbe stata la House of Representatives dopo le elezioni di midterm se, per paradosso, avessero votato solo le persone di colore. I dati sono terrificanti: pochissimi distretti vinti dal Gop (47 seggi) in un oceano blu (388 seggi).
Trasponendo le cifre della proiezione sulla mappa dell’Electoral College, il risultato sarebbe approssimativamente questo: 522 Grandi Elettori per i Democratici, 16 per i Repubblicani (che si aggiudicherebbero solo il Wyoming, il Tennessee e due distretti su tre del Nebraska).
La strategia di Trump
Donald Trump è stato accusato di alimentare l’odio razziale e di provare una fascinazione per la white supremacy. Ma le calunnie dei media non potrebbero essere più lontane dalla realtà. Il Tycoon è impegnato a ridisegnare i confini del Gop per renderlo attrattivo agli occhi delle minoranze. Secondo gli ultimi sondaggi, la sua operazione di rebranding sta favorendo l’avvicinamento dei gruppi che costituiscono l’architrave della Democratic coalition.
In un’intervista rilasciata su Newsmax lo scorso 18 gennaio, il fedelissimo trumpiano Matt Gaetz, deputato per il primo distretto congressuale della Florida, aveva affermato in modo provocatorio: “Per ogni Karen che perdiamo, c’è un Jamal o un Julio pronto ad iscriversi al movimento MAGA”. Cosa ha voluto dire? Semplice: mentre le donne bianche dei sobborghi (Karen) sembrano disaffezionarsi ai Repubblicani – furono loro a decretare il successo di Joe Biden –, gli arabi (Jamal) e gli ispanici (Julio) aderiscono alla piattaforma MAGA con un fervore mai visto prima.
Una coalizione multietnica per il Gop
Il sondaggista e stratega politico Patrick Ruffini ha analizzato questo cambiamento di portata epocale nel saggio “Party of the People: Inside the Multiracial Populist Coalition Remaking the GOP”. Lo studioso intravede nelle elezioni presidenziali del 2020 i prodromi di un riallineamento demografico: la working class non bianca che si schiera in misura crescente con Trump, abbandonando per la prima volta i Democratici.
Fino a trent’anni fa il reddito era il principale cleavage nelle intenzioni di voto. Ruffini menziona un dato incontrovertibile: gli elettori che guadagnavano oltre 200 mila dollari all’anno erano più a destra della media nazionale di circa il 40-45 per cento. Ora, invece, è il diploma a fare la differenza. Le persone laureate sono tendenzialmente più vicine ai Democratici; viceversa, è probabile che chi non frequenti il college sbarri la croce sul simbolo dei Repubblicani. Tra questi ci sono molti afroamericani, ispanici e asiatici.
L’autore della ricerca stima che i Repubblicani siano in crescita tra i latinos degli Stati conservatori, come Texas e Florida – ma non solo. Trump starebbe catalizzando delle quote consistenti di elettorato non bianco anche negli Swing States e in alcune storiche roccaforti del Partito Repubblicano passate ai Dem nell’ultimo decennio (Virginia, Colorado e New Mexico). Si ipotizza uno scenario inedito: il Gop di Trump sarebbe capace di costruire una coalizione multietnica imperniata sulla classe operaia, che consegnerà ai Repubblicani il controllo della Casa Bianca per i prossimi cicli elettorali.
Economia, woke culture, politica estera
Quali sono i temi che appassionano le minoranze etniche? Sicuramente le proposte business-friendly di Trump, favorevoli a deregolamentare l’economia e a sostenere le aziende con uno shock fiscale. Il cavallo di battaglia trumpiano no-tax-on-tips riscuote un certo interesse tra i camerieri di colore, dal momento che ricaverebbero le loro mance senza pagare ulteriori tasse. La libertà d’impresa, lo sviluppo e il contrasto all’inflazione sono argomenti molto cari agli immigrati provenienti da Cuba, che sfuggono alla dittatura castrista nella speranza di vivere l’American Dream.
Il Tycoon promette battaglia anche sul versante etico. La sua retorica contro l’indottrinamento scolastico e la propaganda gender ha conquistato le simpatie di chi vede nella woke culture una minaccia ai valori della famiglia. Un sondaggio condotto da USA Today e dalla Suffolk University ha rivelato che Trump sarebbe davanti a Kamala Harris di 11 punti tra i latinos (49 per cento a 38 per cento). Un dato che non deve sorprenderci, se consideriamo che gli ispanici sono un segmento demografico religioso e ostile al politically correct. Persino gli afroamericani, socialmente conservatori ma schierati in larghissima parte con i Dem, si muovono nella direzione del Gop (il 21 per cento sosterrebbe Trump, rispetto al 9 per cento del 2020).
Il suo pragmatismo in politica estera sta seducendo un gruppo che, insospettabilmente, lo preferisce a Kamala Harris: i musulmani. Trump è stato invitato a fare un comizio presso la comunità islamica di Novi, in Michigan, e l’imam Belal Alzuhairi l’ha accolto ringraziandolo perché “promette la pace, non la guerra, e vuole fermare lo spargimento di sangue in tutto il mondo. Credo che Dio gli abbia salvato la vita per un motivo”. È evidente che il periodo neocon sia un capitolo chiuso della storia americana. Il Gop di oggi vuole dirimere le controversie internazionali, anziché crearne di nuove.
I Dem nel panico
Si respira un certo nervosismo in casa Dem. I sondaggi riservati terrorizzano Kamala Harris, che ha deciso di correre ai ripari ostentando gli endorsment dei volti noti dello spettacolo. Ma la nominee democratica sa bene che è l’America profonda a scegliere il prossimo inquilino della Casa Bianca, non Hollywood. La crescente disaffezione di afroamericani, latinos e asiatici per il duo Biden-Harris prima (e Harris-Walz poi) preoccupa chi credeva che il Partito Democratico avrebbe ottenuto il sostegno incondizionato delle minoranze etniche.
Un Gop plurale e performante tra i nuovi americani può mettere in discussione l’egemonia democratica del popular vote. Va da sé che l’eventuale sconfitta di Kamala Harris porterebbe l’Asinello ad accantonare definitivamente la identity politics per spingersi al centro, recuperando l’antica vocazione di “party of the people”. Chissà se in futuro vedremo sempre più Jamal o Julio indossare il cappello rosso con su scritto Make America Great Again.