Antisemitismo nei campus: le risposte shock dei rettori di Harvard, Penn e MIT

Bancarotta morale delle università di élite Usa: i rettori in audizione al Congresso rifiutano di dire che “invocare il genocidio degli ebrei” viola i loro codici di condotta

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Mentre qui da noi la cd Commissione Segre (Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo etc etc…) è desaparecida – in plenaria non si riunisce dal 20 settembre e dal 7 ottobre si è riunito tre volte l’Ufficio di presidenza, svolgendo una audizione in due mesi – il Congresso Usa prende molto sul serio manifestazioni e atti di antisemitismo. Martedì la Camera Usa ha approvato una mozione di condanna dell’antisemitismo (13 deputati Democratici hanno votato contro), ma soprattutto sono stati convocati in Commissione Istruzione i rettori delle più prestigiose università, quelle della esclusiva Ivy League, dove vengono formate le future élite del Paese.

Come noto, infatti, dal 7 ottobre questi atenei sono stati teatro di manifestazioni pro-Hamas e di veri e propri atti di intimidazione nei confronti di studenti ebrei. Alcuni di questi studenti sono stati invitati dal Gruppo Repubblicano alla Camera a parlare del fenomeno dell’antisemitismo nei campus e a raccontare le loro esperienze.

Attacchi agli studenti ebrei

“Sono stata costretta a lasciare il mio gruppo di studio perché i membri del mio gruppo mi hanno detto che le persone al Festival musicale Nova meritavano di morire perché stavano facendo una festa su una terra rubata”, ha raccontato Talia Khan, studentessa del MIT. “Questo è lo stesso clima di antisemitismo che ha portato al massacro degli ebrei nel corso dei secoli. Non si tratta solo di molestie. Sono in gioco le nostre vite”.

“Essere ebrea alla New York University ha significato essere aggredita fisicamente nella biblioteca da un compagno di studi mentre indossavo una bandiera israeliana, e vedere il mio aggressore andare in giro liberamente per il campus”, ha raccontato Bella Ingber. “Oggi nel 2023, alla New York University, sento appelli a gasare gli ebrei e mi viene detto che Hitler aveva ragione”, ha aggiunto. “Sono la nipote di sopravvissuti all’Olocausto. Non andremo da nessuna parte. L’antisemitismo e il sostegno al terrorismo non dovrebbero avere casa alla New York University o in qualsiasi altro campus universitario. Abbiamo fatto la promessa mai più. E mai più è ora”.

Jonathan Frieden di Harvard ha raccontato che “una folla di 200 persone”, molte non di Harvard, ha marciato in una sala studio cantando frasi antisemite. “Molti dei miei amici sono corsi dal preside e all’ufficio DEI (Diversity Equity Inclusion, sic!), ma avevano chiuso a chiave le porte per la loro sicurezza”. “Molte volte alla settimana, mentre vado a lezione, cammino in mezzo a folle di persone che cantano ‘dal fiume al mare’… i miei amici ebrei nel campus mi dicono quanto hanno paura di andare a lezione“.

Eyal Yakoby, della Penn, ha detto “sono qui oggi perché 36 ore fa, io, insieme alla maggior parte del campus, abbiamo cercato rifugio nelle nostre stanze mentre compagni di corso e professori cantavano con orgoglio per il genocidio degli ebrei”. “Sei un piccolo e sporco ebreo, meriti di morire”, si è sentito dire da compagni di corso e professori. “Pensavo fossero sciocchezze, allarmismo, finché non mi sono reso conto che Penn raccomandava agli studenti di non indossare abiti-accessori legati all’ebraismo“, ha aggiunto.

L’audizione dei rettori

Racconti da brivido, ma uno spaccato inquietante della debacle morale di queste istituzioni è quello offerto dall’audizione dei rettori in Commissione Istruzione, in particolare dalle loro risposte proprio sugli appelli a cancellare Israele e al genocidio degli ebrei che si sono sentiti nei loro campus. Innanzitutto, colpisce ascoltare i responsabili delle più prestigiose università americane avere difficoltà ad articolare il proprio pensiero, barcamenarsi e arrampicarsi sugli specchi per eludere domande tutto sommato semplici.

Il problema con queste domande è che per loro non erano affatto semplici, dovendo sforzarsi di non cadere nelle loro stesse contraddizioni. Infatti, queste università si sono dotate di regolamenti stringenti che limitano fortemente il free speech, sia di docenti che di studenti, in nome del politicamente corretto spinto fino al parossismo dall’ideologia woke.

Un vero e proprio apparato di controllo interno del linguaggio, introdotto a partire dal 2015-2016, fatto di regole, strutture e processi burocratici, ovviamente sanzioni. Si rischia un’azione disciplinare per “misgender”, per non aver usato il pronome corretto riferendosi ad una persona trans.

“Dipende dal contesto”

Questo impianto orwelliano ha ceduto penosamente di fronte alle domande della deputata Elise Stefanik, che ha chiesto ripetutamente ai rettori di Harvard Claudine Gay, del MIT Sally Kornbluthe e della Penn Liz Magill se i canti e gli slogan sentiti durante le marce nei loro campus (“There is only one solution, Intifada revolution”, o il famigerato “From the river to the sea…”), che evocano l’eliminazione di Israele e il genocidio di ebrei, violassero il loro codice di condotta o le loro regole in materia di bullismo o molestie.

La risposta, ripetuta come un disco rotto da tutti i rettori, è stata che “dipende dal contesto” e “se le parole si trasformano in condotta”, cioè nel caso di specie nella effettiva uccisione di ebrei.

Un doppio standard clamoroso e odioso. Lo stesso codice di condotta contro il cosiddetto hate speech applicato rigorosamente a tutela delle minoranze considerate oppresse, come afroamericani e comunità Lgbtq, diviene improvvisamente molto più sfumato se l’incitamento all’odio prende di mira gli ebrei.

“Rettore Magill, alla Penn invocare il genocidio di ebrei viola le regole o il codice di condotta, sì o no”, ha chiesto la deputata Stefanik. “Se le parole si trasformano in una condotta può essere molestia, sì”, ha risposto Magill.

Stefanik: “Sto chiedendo se precisamente invocare il genocidio di ebrei rappresenta bullismo o molestia”.

Magill: “È una decisione che dipende dal contesto… Se le parole si trasformano in condotta può essere molestia, sì”.

Stefanik, incredula: “Condotta che significa atto di genocidio?! Questo è inaccettabile Signora Magill. Le darò un’ulteriore occasione affinché il mondo possa ascoltare la sua risposta: invocare il genocidio di ebrei viola il codice di condotta della Penn in materia di bullismo e molestia, sì o no?

Magill: “Può essere molestia”.

La stessa domanda la deputata Stefanik la rivolge quindi al rettore di Harvard Claudine Gay: “Ad Harvard invocare il genocidio di ebrei viola le regole su bullismo e molestia, sì o no?”

Nonostante la pessima figura della sua collega pochi secondi prima, anche il rettore di Harvard risponde sfrontatamente: “Può essere, dipende dal contesto“.

Stefanik: “Quale contesto?”

Gay: “Mirato ad una singola persona”.

Stefanik: “È mirato a studenti ebrei, persone ebree. Comprende che la sua risposta li sta disumanizzando? Comprende che la disumanizzazione è parte dell’antisemitismo? Le chiederò un’altra volta: invocare il genocidio di ebrei viola le regole di Harvard su bullismo e molestia, sì o no?”

Gay: “La retorica antisemita, quando diventa condotta assimilabile a bullismo, molestia, intimidazione, è perseguibile e noi agiamo”.

Stefanik: “Quindi la risposta è sì, invocare il genocidio di ebrei viola il codice di condotta di Harvard, corretto?”

Gay: “Di nuovo, dipende dal contesto“.

Stefanik: “Non dipende dal contesto, la risposta è sì e questo è il motivo per cui dovrebbe dimettersi“.

Contrordine compagni

Le risposte dei rettori sono state talmente scioccanti da aver suscitato critiche politiche bipartisan, non solo dai Repubblicani ma anche da parte dei Democratici e dei media liberal. E nella giornata di ieri i rettori sono pateticamente corsi ai ripari con comunicati e videomessaggi in cui pretendono di affermare ciò che non avevano voluto affermare poche ore prima nella loro audizione al Congresso, nonostante avessero avuto più e più occasioni per farlo.

Dalle parole ai fatti

Il problema qui non è nemmeno il free speech, dietro cui i rettori si sono nascosti con incredibile faccia tosta, visto che da anni lo calpestano in nome della “diversità” e della “inclusione” woke. Il solo “speech”, la parola, non è punibile, eppure da anni e per molto meno hanno cominciato a punirlo, se rivolto ad alcune minoranze.

Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre le università non hanno solo fallito nel condannare e perseguire il cosiddetto hate speech contro Israele e gli ebrei secondo il loro standard, come avrebbero fatto nei confronti di altre minoranze. Il loro più grave fallimento sta nell’aver rinunciato a far rispettare i loro stessi codici di condotta in materia di molestie, intimidazioni e atti vandalici.

Rispondendo alla deputata Stefanik i rettori hanno sostenuto che la retorica antisemita viola le regole ed è perseguibile “quando si trasforma in una condotta”, cioè quando dalle parole si passa ai fatti. Ebbene, è proprio quello che è accaduto dal 7 ottobre in poi nei loro campus! I manifestanti pro-Hamas non si sono limitati a intonare canti e slogan d’odio, dalle parole sono passati all’azione. Gli studenti ebrei, come abbiamo riportato, sono stati presi di mira con aggressioni, intimidazioni e umiliazioni.

I finanziamenti stranieri

Tra l’altro, Stefanik ha anche chiesto al rettore di Harvard Claudine Gay se fosse vero che l’università ha ricevuto finanziamenti per 1,5 miliardi di dollari da enti legati a governi stranieri per il suo Dipartimento di Studi sul Medio Oriente, ma anche in questo caso senza ricevere una risposta chiara. Non ha negato, né confermato, limitandosi a rispondere che l’ateneo riceve finanziamenti da tutto il mondo.

Non una domanda campata in aria, perché le università della Ivy League sono state al centro di indagini del Dipartimento dell’Istruzione per le donazioni e i contratti siglati con entità straniere, anche di Paesi come Cina, Iran, Russia, Qatar e Arabia Saudita. Ai sensi della Sezione 117 dell’Higher Education Act del 1965, le università americane sono tenute a rivelare tutte le donazioni superiori a 250.000 dollari provenienti da fonti straniere.

Dal 2012 Harvard ha ricevuto oltre 1 miliardo di dollari. Nel 2020 il Dipartimento ha chiesto ad Harvard di fornire informazioni sui finanziamenti ricevuti da due società di telecomunicazioni cinesi (Huawei e ZTE), due società russe (Kaspersky e Skolkovo Foundation), dalla iraniana Fondazione Alavi, controllata dalla Fondazione Bonyad Mostazafan, che è sotto sanzioni e presieduta da Hossein Dehghan dei Pasdaran, e dall’Università di Tecnologia di Wuhan.

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