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Arma giudiziaria contro Trump, ma possibile effetto boomerang politico

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Nel gergo politico americano, la “sorpresa di ottobre” (October suprise) è un evento di forte impatto mediatico che, collocandosi in prossimità delle elezioni presidenziali o per il Congresso (che si tengono sempre all’inizio di novembre, così come molte elezioni statali o locali), è in grado di influenzarne l’esito. La primogenitura del termine è attribuita a William Casey, direttore della vittoriosa campagna presidenziale di Ronald Reagan nel 1980.

Anche le elezioni che portarono inaspettatamente Donald Trump alla Casa Bianca rispettarono la tradizione ed ebbero la loro “sorpresa di ottobre”.

Anzi, a dire il vero, più di una. Si iniziò con il clamoroso audio del “discorso da spogliatoio” in cui Trump indulgeva in linguaggio sessista. Si proseguì con la pubblicazione da parte di Wikileaks delle e-mail del direttore della campagna di Hillary Clinton, John Podesta. Poi le agenzie di intelligence Usa accusarono la Russia di utilizzare hacker informatici per influenzare l’esito delle elezioni.

Ricordate l’Emailgate di Hillary?

Ma soprattutto, il 28 ottobre 2016, a meno di due settimane dal voto, il direttore dell’FBI James Comey scrisse al Congresso comunicando che avrebbe compiuto gli appropriati passi investigativi per verificare ulteriore materiale probatorio che riguardava l’utilizzo, da parte di Hillary Clinton, di un server di posta privato mentre era segretario di Stato.

Si trattava, di fatto, della clamorosa riapertura di un’inchiesta che l’FBI aveva completato nel precedente mese di luglio, concludendo che con la sua condotta la Clinton aveva sì violato le regole in materia di gestione dei documenti ufficiali, ma non aveva rilevanza penale.

Successivamente, il 6 novembre – due giorni prima delle elezioni – con una nuova lettera al Congresso il direttore dell’FBI ribadì che anche alla luce delle nuove prove non vi erano i presupposti per un’incriminazione della Clinton. Ma ormai la frittata era fatta: vinse Trump.

In una teleconferenza con i propri principali donatori, la Clinton, qualche giorno dopo le elezioni, disse che la propria sconfitta era da attribuire a più fattori, ma che tra quelli decisivi vi erano le lettere del direttore dell’FBI.

La prima lettera aveva azzerato il suo vantaggio, mentre la seconda lettera – che, ancora una volta, la scagionava – aveva avuto il paradossale effetto di galvanizzare i sostenitori di Trump, che nella vicenda avevano rinvenuto un’ulteriore riprova di una loro radicata convinzione, ovvero che la Clinton fosse protetta da un sistema corrotto e “truccato”.

Il silenzio investigativo pre-elettorale

Un aspetto poco considerato della vicenda è che, all’epoca, il direttore dell’FBI decise di non seguire un protocollo adottato da anni dal Dipartimento della Giustizia, secondo cui tutti i funzionari – inclusi quelli dell’FBI – non devono scegliere la tempistica di dichiarazioni, atti investigativi, richieste di rinvii a giudizio con lo scopo di influenzare un’elezione, e devono evitare passi che diano anche solo l’impressione di tale scopo.

Esiste una regola operativa – ma non codificata – che individua in 60 (secondo alcuni 90) giorni prima di un’elezione il termine di inizio di questa sorta di “silenzio investigativo pre-elettorale”, che deve essere osservato fatti salvi, ovviamente, i casi di urgenza o necessità.

Si tratta di una regola di equilibrio, che si basa sulla considerazione che in due-tre mesi non vi è tempo sufficiente per arrivare ad una sentenza, e pertanto non vi è modo, per l’elettorato, di sapere, prima delle elezioni, se le accuse mosse contro un candidato sono realmente fondate.

La perquisizione di Mar-a-Lago

È per questo che alcuni osservatori hanno notato che la perquisizione della residenza di Donald Trump da parte degli agenti dell’FBI è avvenuta esattamente 91 giorni prima delle elezioni di medio termine del prossimo mese di novembre. Si è trattato di un atto clamoroso e senza precedenti: non era mai successo, infatti, che l’ufficio o la residenza di un ex presidente fossero perquisiti.

Naturalmente, non conosciamo i dettagli, a causa del segreto investigativo. Secondo fonti giornalistiche, l’inchiesta riguarderebbe documenti riservati che Trump avrebbe portato con sé quando ha lasciato la Casa Bianca.

Già a febbraio si era appreso che informazioni riservate erano state rinvenute in 15 scatole di documenti in possesso di Trump. Gli Archivi Nazionali – dove devono essere depositati e conservati tutti i documenti delle amministrazioni passate – ne hanno richiesto ed ottenuto la consegna negoziando con Trump ed i suoi legali.

Non è frequente che funzionari governativi di alto livello vengano perseguiti per il modo in cui hanno gestito informazioni riservate. Ci sono state, è vero, delle importanti eccezioni, come nel caso del generale Petraeus, che condivise informazioni riservate con la propria amante che stava scrivendo un libro (e anche allora l’accusa – patteggiata – fu per un reato minore).

Ma il più delle volte il governo, di fatto, vuole solo ottenere la restituzione dei documenti. A meno che, ovviamente, l’indagine non riguardi pericoli per la sicurezza nazionale, derivanti dalla divulgazione di informazioni segrete (non sappiamo se è questo il caso).

In ogni caso, perché ricorrere ad un mandato di perquisizione? Ipotizziamo che l’indagine riguardi, effettivamente, i documenti presidenziali, e non altro. Evidentemente, le informazioni in possesso dell’FBI, nuove e convincenti, devono aver persuaso il procuratore generale che Trump non avrebbe più provveduto ad altre riconsegne spontanee, come quella di febbraio. E che un mandato di comparizione, con ordine di consegna dei documenti, non sarebbe stato adempiuto.

In casi come questi, i mandati di perquisizione sono l’ultima risorsa, e possono essere utilizzati anche nei casi in cui vi sia il timore di distruzione delle prove. Ma anche qui, in mancanza di informazioni ufficiali, siamo solo nel campo delle ipotesi.

L’ombra del 6 gennaio

Potrebbe anche trattarsi di una tattica investigativa: il mandato di perquisizione potrebbe essere stato richiesto per la violazione della normativa sulla conservazione dei documenti presidenziali, ma il vero obiettivo potrebbe essere il “sacro Graal” per gli avversari di Trump, ovvero prove di un suo coinvolgimento personale e diretto nell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio.

Si moltiplicano gli appelli – anche bipartisan, come quello dell’ex vice di Trump Mike Pence, o del redivivo ex governatore democratico di New York Andrew Cuomo – al Dipartimento della Giustizia affinché spieghi le ragioni che hanno condotto la perquisizione.

Cosa più facile a dirsi che a farsi, però. Non è detto che gli inquirenti vogliano rivelare informazioni che è bene restino riservate ai fini investigativi. Inoltre, c’è la famosa regola (non scritta) dei 90 (o 60?) giorni di “silenzio pre-elettorale” da rispettare. Insomma, è probabile che per un po’ non conosceremo i dettagli della perquisizione e gli sviluppi dell’inchiesta.

Le reazioni politiche

Possiamo dunque solo interrogarci su quali possono essere le ricadute politiche di questo ennesimo colpo di scena. Ci sono le reazioni scontate: per i Democratici più estremisti, Trump è colpevole e merita semplicemente la galera.

Nel campo repubblicano, da parte della base trumpiana è caccia a coloro che non si sono affrettati a manifestare la propria solidarietà nei confronti dell’ex presidente, o lo hanno fatto timidamente, o con distinguo.

Poi ci sono le reazioni meno scontate: la portavoce della Casa Bianca ha detto che il presidente Biden non era stato avvertito, e ha appreso la notizia dalla stampa. È possibile che FBI e Dipartimento di Giustizia abbiano agito in autonomia – rientrerebbe nelle loro prerogative.

Ma una cosa è certa: Biden avrebbe preferito che l’attenzione mediatica fosse dedicata ai recenti risultati legislativi ottenuti dal suo partito, piuttosto che (nel bene o nel male) a Trump.

Sfiducia nell’FBI

Se non è stato avvertito, Biden ha un’ottima scusa per tenersi il più distante possibile da una vicenda che può avere effetti indesiderati. Se la perquisizione a carico di Trump si risolverà in una bolla di sapone, rischia solo di aggravarsi il pregiudizio che molti americani – soprattutto Repubblicani – nutrono nei confronti di un sistema investigativo federale che viene percepito non come arbitro imparziale, ma come un attore politicamente motivato.

A settembre 2021, secondo un sondaggio Gallup, solo il 44 per cento degli americani ha valutato l’operato dell’FBI “eccellente” o “buono”. Il sondaggio ha registrato per la principale agenzia investigativa federale un crollo di consensi di 13 punti rispetto al 2019.

E ha evidenziato l’importanza del fattore dell’appartenenza politica: solo il 26 per cento dei Repubblicani ha valutato positivamente l’operato dell’FBI, contro il 41 per cento dei Democratici. Numeri emblematici.

Doppio standard

D’altro canto, i sostenitori di Trump hanno facile gioco nell’evidenziare la disparità di trattamento rispetto ad altri casi in cui oggetto di interesse investigativo sono stati autorevoli personaggi del Partito Democratico. Tra tutti, Hillary Clinton, con le sue 33 mila email cancellate, senza aver mai subito l’onta di una perquisizione.

Superata una linea rossa

In ogni caso, per le istituzioni e la politica Usa si tratta del passaggio di una sorta di “linea rossa”. Non era mai successo che un ex presidente fosse perquisito su richiesta dell’amministrazione del suo successore. Prima era solo una possibilità teorica mai realizzatasi; ora si tratta di un precedente concreto.

Se il Dipartimento di Giustizia non darà spiegazioni convincenti, l’effetto “boomerang” (dal punto di vista politico) è dietro l’angolo. Un recentissimo sondaggio (Monmouth University) ha rivelato che le udienze dell’inchiesta del Congresso sull’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 non hanno avuto quell’impatto negativo sull’immagine di Trump che i Democratici speravano.

Nel campo repubblicano, se decidesse di ricandidarsi, sarebbe ancora lui il candidato di punta. E se non emergeranno a suo carico chiari elementi di colpevolezza, la base trumpiana potrebbe anzi uscirne galvanizzata, proprio come avvenne alla vigilia delle presidenziali del 2016.