Attacco iraniano a Israele: un altro “regalo” della presidenza Biden

Ennesimo monito di Biden ignorato. Anni di appeasement con Teheran e di erosione della deterrenza Usa. Primo attacco diretto non può restare senza risposta

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Non bisogna farsi ingannare da una timeline parziale che purtroppo molti media mainstream hanno riproposto in queste ore. Questa guerra non è iniziata con il raid israeliano sul consolato iraniano a Damasco, trasformato dai Pasdaran in un centro di comando da dove coordinare gli attacchi contro Israele. Questa guerra è iniziata il 7 ottobre scorso con l’attacco di Hamas, il proxy iraniano nella Striscia di Gaza.

Un attacco pianificato da Teheran insieme a quello che chiama l’Asse della Resistenza, ovvero la rete di milizie filo-iraniane che da anni infestano quasi tutti i Paesi intorno allo Stato ebraico, dagli Hezbollah in Libano ai ribelli Houthi nello Yemen, passando naturalmente per Siria e Iraq.

Dal 7 ottobre, Teheran ha mobilitato tutte le sue milizie in Medio Oriente per colpire Israele e le forze Usa nella regione. Non è passato praticamente giorno senza un lancio di razzi Hezbollah dal Libano, un attacco Houthi nel Mar Rosso o delle milizie irachene contro le basi Usa in Siria e Iraq.

L’amministrazione Biden ha una responsabilità significativa per questo attacco iraniano, ha commentato John Bolton, perché per sei mesi ha ignorato l’attacco di Hamas come parte della più ampia strategia iraniana dell’“anello di fuoco” contro Israele.

Erosione della deterrenza Usa

Come avevamo avvertito mesi fa, troppo flebile la risposta dell’amministrazione Biden, insufficiente a ristabilire la necessaria deterrenza. Non si contano, dal 7 ottobre, le volte che il presidente Biden in persona ha detto “don’t”, non fatelo, e puntualmente i suoi avvertimenti sono stati ignorati.

Questo è risultato di anni di appeasement delle amministrazioni Obama e Biden con il regime di Teheran e i suoi proxies in Medio Oriente e di erosione della deterrenza Usa. Persino dopo il 7 ottobre l’amministrazione Biden ha continuato a scongelare asset iraniani sotto sanzione per decine di miliardi di dollari.

Dall’inizio dell’operazione israeliana nella Striscia di Gaza l’amministrazione Biden ha fatto di tutto per frenare e legare le mani al governo Netanyahu. Nei giorni e nelle ore precedenti l’attacco iraniano di stanotte, l’obiettivo era impedire l’operazione a Rafah e Washington non aveva bloccato al Consiglio di Sicurezza Onu una risoluzione di Cina e Russia che chiedeva il cessate-il-fuoco ma non l’immediato rilascio degli ostaggi.

Né può sfuggire il significato di ciò che sta accadendo ormai da mesi nel Mar Rosso. Biden sta radendo al suolo la credibilità della deterrenza Usa non riuscendo ad avere la meglio su una milizia yemenita. I ribelli Houthi si sono già fatti beffe di reiterati avvertimenti e linee rosse Usa. Sono ancora lì, continuano a colpire con sempre maggiore precisione e hanno lanciato il loro primo attacco mortale. Uno spettacolo avvilente per noi ma incoraggiante per i nemici dell’America.

L’errore di fondo dell’amministrazione Biden è ostinarsi a concepire e ad affrontare questi attacchi separatamente e non per quello che sono: una guerra multi-teatro. Finché il regista – il regime iraniano – ne esce indenne, finché gli viene permesso di godersi lo spettacolo mangiando popcorn senza pagare un prezzo per le sue azioni, non c’è deterrenza.

Ora con questo attacco diretto verso il territorio israeliano Teheran lancia la sua sfida. Non solo a Israele ma anche alla leadership americana. Che l’attacco abbia successo o meno, l’Iran sta cercando di ridefinire a suo vantaggio l’equilibrio della deterrenza nella regione. Lo scrivevamo lo scorso 8 marzo:

La preoccupazione di Washington di non offrire pretesti per un allargamento del conflitto supera di gran lunga quella di ripristinare la credibilità della deterrenza Usa. Il che, tradotto, significa che gli Usa subiscono la deterrenza dell’Iran, esercitata attraverso il suoi proxies, più di quanto Teheran subisca la loro. La volontà di Washington di non allargare il conflitto a Gaza, e anzi arrivare quanto prima ad un cessate-il-fuoco, anche evitando di reagire agli attacchi dei proxies iraniani, li sta in realtà incoraggiando nella loro escalation.

Attacco dimostrativo?

Al momento in cui scriviamo, quella iraniana potrebbe ancora rivelarsi un’azione dimostrativa ad uso più che altro interno al regime, una sceneggiata politica con mezzi militari, più che una rappresaglia dalla potenza distruttiva. I droni ci metteranno ore ad arrivare a destinazione e verranno facilmente rilevati e intercettati.

Se anche la risposta iraniana si limiterà al lancio di qualche centinaio di droni, il punto non è cosa riusciranno a colpire (poco o niente), ma da dove sono partiti. Non dai territori controllati da uno dei proxy iraniani, come accaduto fino ad oggi, ma direttamente dal territorio iraniano. Poca cosa dal punto di vista militare, ma enorme dal punto di vista politico. Per la prima volta nella storia, l’Iran ha osato attaccare Israele dal suo territorio. Una prima volta che non può essere lasciata senza risposta.

Cosa ben diversa sarebbe se l’attacco con i droni avesse la funzione di saturare le difese aeree israeliane e ad esso seguisse il lancio di missili balistici, come preventivato in alcuni rapporti di Intelligence Usa trapelati sulla stampa. In realtà, le voci circolate ieri notte del lancio di missili balistici non hanno fino ad ora trovato conferme né da Israele né dagli Usa.

Errore di calcolo?

Si è trattato di una “risposta all’aggressione del regime sionista contro le nostre sedi diplomatiche a Damasco. La questione può dirsi conclusa“, ha dichiarato in una nota la missione iraniana all’Onu, mostrando la volontà di ritenere chiuso “l’incidente”. Bisognerà vedere però cosa ne pensa Israele. Anche se, come probabile, non provocherà vittime, Israele non può non rispondere al primo attacco diretto dell’Iran dal suo territorio, non può permettersi di subire la deterrenza iraniana.

Teheran potrebbe aver commesso un grave errore di calcolo. Ma a tale errore avrebbe senz’altro contribuito l’atteggiamento pubblico dell’amministrazione Biden nei confronti di Israele nelle ultime settimane, le divergenze sull’operazione a Gaza sempre più esibite nei commenti dei funzionari Usa, e la sua impressione di aver eroso la deterrenza israeliana con il 7 ottobre.

In ogni caso, la guerra che Hamas e gli altri proxies iraniani hanno mosso a Israele dal 7 ottobre scorso è iniziata a Teheran ed è solo a Teheran che può finire, con la caduta del regime iraniano. Potranno esserci tregue più o meno lunghe, ma non è mai stato chiaro come oggi – o almeno dovrebbero esserlo – che l’unica strada verso la pace in Medio Oriente è la caduta del regime degli ayatollah in Iran.

Israele e Stati Uniti non dovranno limitarsi a intercettare e distruggere qualsiasi cosa venga lanciata dall’Iran, dal Libano, dalla Siria o dallo Yemen, ma se vorranno ristabilire la loro deterrenza dovranno colpire duramente gli interessi strategici iraniani: le infrastrutture del programma nucleare, i comandi dei Pasdaran, i centri nevralgici militari e politici del regime. Sarebbe un errore lasciare solo Israele nella risposta all’attacco iraniano.

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