Battaglia in casa Tory sulla svolta tassa-e-spendi di Johnson e Sunak

Al premier rimproverato un percorso “unconservative” fatto di spesa pubblica, sussidi e politiche financo definite “socialiste”

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Il bazooka da 20 miliardi di sterline del governo per aiutare gli inglesi a pagare le bollette ha messo in moto i parlamentari conservatori molto più del report di Sue Gray sul partygate. C’era da aspettarselo: da mesi le inchieste sui party durante il lockdown sono la foglia di fico dietro la quale si combatte una lotta accesa all’interno del Partito conservatore tra diversi gruppi: northerners contro southerners, thatcheriani contro One Nation, e, infine, tra fautori di una fiscal policy fatta di tagli alle tasse e sgravi fiscali e tra coloro che, visti i tempi, chiedono un maggiore impegno al governo per le famiglie più disagiate.

Al centro di queste diatribe ci sono il Cancelliere Rishi Sunak e il premier Boris Johnson, vero obiettivo dei contestatori, che gli rimproverano di avere intrapreso un percorso unconservative fatto di aumento della spesa pubblica, aumento dei sussidi e politiche financo definite “socialiste”.

Le critiche dei thatcheriani

Così il pacchetto anti-carovita presentato giovedì ai Comuni da Sunak ha fatto storcere non poco il naso alla destra post-thatcheriana: il giornalista Fraser Nelson sul Telegraph ha parlato di misure che “spingono il Paese sull’orlo della recessione”. Il deputato Tory Sir Bob Neill ha chiesto che Johnson se ne vada, e in molti nel partito guardano a Lord Frost come futuro leader di una destra che resti ancorata agli ideali della Lady di Ferro.

Anche il mondo del business energetico non ha preso affatto bene l’aumento dal 40 al 65 per cento delle imposte sulle loro attività da qui al 2025 per finanziare con 5 miliardi di sterline i tagli delle bollette. La BP ha ammesso candidamente che così facendo si disincentivano gli investimenti nel settore in UK (anche se Sunak nelle sue disposizioni ha previsto la detassazione degli utili reinvestiti).

L’era del big government e dello spend big

Dopo la pandemia si è costantemente assistito a un aumento della spesa pubblica e delle tasse nel Regno Unito. Johnson era già stato chiaro durante la campagna elettorale 2019 nei suoi interventi alla CBI (la Confindustria britannica): in questi anni le tasse non diminuiranno, ci sono altre priorità. Certo, nessuno si aspettava che un governo Tory portasse le tasse al più alto livello dal 1945 e, a dire il vero, ci sono anche diverse scusanti.

La pandemia ha generato una serie di programmi di tutela delle imprese e dei lavoratori mai visto in tempo di pace. Dal furlough – il congedo lavorativo – alle misure prese per chi era in isolamento o manifestava problemi psicologici causa lockdown, le casse del Tesoro si sono svuotate, il debito pubblico ha raggiunto i 3 trilioni di sterline, e il rapporto tra quest’ultimo e il Pil è andato oltre il 100 per cento.

Poi ci si è messa anche la guerra in Ucraina, che ha creato problemi nella supply chain del cibo e soprattutto dell’energia: benché il Regno Unito dipenda solo dal 5 per cento dagli idrocarburi russi, l’aumento dei prezzi di gas e petrolio ha inciso per l’80 per cento sull’inflazione che, secondo le stime della Bank of England, dovrebbe arrivare al 10 per cento entro fine anno.

L’era del big government e dello spend big, cioè dell’ampliamento dei poteri dello Stato nell’economia e dell’aumento incontrollato della spesa pubblica sembra essere solo all’inizio. Sunak spera di potere tagliare le tasse prima delle prossime elezioni – altra cosa: la tasse sulle imprese passerà dal 19 al 23 per cento prima della fine della legislatura – ma qualcuno sostiene che nella finanziaria a ottobre saranno necessarie nuove misure di sostegno al potere d’acquisto degli inglesi. Lo stesso Cancelliere, già sotto accusa per essere “troppo ricco” da parte della stampa vicina al Labour, ci ha tenuto a precisare che lui non ha alcun timore a essere visto come uno che “spend big”.

Il ritorno della tripla garanzia sulle pensioni

Tra tanto rumore è passato inosservato il ripristino della “tripla garanzia”, triple lock, sulle pensioni degli inglesi, che era stato sospeso lo scorso anno dallo stesso Sunak. Nel 2010 Cameron istituì questo provvedimento che andava ad aiutare i pensionati britannici, spesso e volentieri votanti Tories. Le pensioni venivano così rivalutate secondo tre criteri: l’aumento medio dei salari britannici, il tasso di inflazione o, come paracadute minimo il 2,5 per cento. Così, oggi, i pensionati si ritroveranno un aumento pari all’inflazione prevista (10 per cento), e, certamente, questo genererà ulteriore inflazione.

Quello che chiedono i nuovi elettori ai Tories

D’altronde, le discussioni accese all’interno del Partito conservatore non sembrano tenere conto di un evidente cambiamento nella base sociale elettorale dei Tories: l’alleanza che ha portato Johnson a Downing Street è composta, anche e soprattutto, dal voto dei pensionati e degli inglesi in quelle constituencies del nord-est dove sono più necessarie misure di sostegno al reddito, e dove la gente, che da sempre ha votato Labour, si aspetta che i Tories facciano di più per loro.

Johnson e i suoi strateghi di Downing Street sanno che per rivincere nel 2024 – o nel 2023 – servirà confermare il risultato nel Red Wall, la muraglia rossa laburista che andava da Clywd in Galles al collegio di Great Grimsby nel nord-est dell’Inghilterra e che nel 2019 voltò clamorosamente le spalle al Labour dopo decenni.

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