La politica ucraina dell’amministrazione Biden continua a caratterizzarsi per la sua ambivalenza. Da un lato, Washington ha appena varato un pacchetto di assistenza senza precedenti (40 miliardi di dollari, di cui 20 in aiuti militari), che suggerisce un impegno di lungo termine nel sostenere lo sforzo bellico di Kiev. Agli ucraini cominciano finalmente ad arrivare armamenti più pesanti, artiglieria e tank di fabbricazione sovietica. Un aiuto che però rischia di rivelarsi tardivo e ancora troppo limitato.
I no Usa a Zelensky
Dall’altro lato, infatti, il presidente Biden ha negato a Kiev la fornitura di missili a medio raggio, i sistemi MLRS e Himars, decisione criticata ieri anche dal Wall Street Journal, e qualche giorno fa è trapelato l’accordo informale tra i Paesi Nato secondo cui l’Alleanza non avrebbe mai fornito agli ucraini caccia e tank di tipo occidentale. Della no-fly zone, che il presidente Zelensky aveva invocato fin dall’inizio, nemmeno a parlarne, questione chiusa da mesi.
Ieri, il capo di Stato maggiore Usa, Mark Milley, ha dichiarato a Fox News che “risolvere (la situazione, ndr) attraverso i negoziati sarebbe la scelta logica” e che “entrambe le parti devono arrivare da sole a questa conclusione”. Le prossime settimane, comunque, saranno “decisive”, ha aggiunto il generale.
La rappresentazione propagata da molti, in questi mesi, di una pericolosa escalation da parte Usa e Nato, sia verbale che nell’invio di armamenti non solo “difensivi”, non corrisponde alla realtà dei fatti: a ben vedere l’amministrazione Biden è stata, sia all’inizio che durante il conflitto, molto riluttante ad accogliere le richieste che giungevano da Kiev, mostrando di voler evitare non solo un coinvolgimento diretto, ma anche qualsiasi rischio di escalation accidentale. E gli ultimi no della Casa Bianca a Zelensky arrivano nei giorni più critici per gli ucraini, mentre la situazione nel Donbass sembra volgere al peggio.
Le linee rosse di Putin
Negando a Kiev la fornitura di missili a medio raggio, ancora una volta il presidente Biden ha rassicurato Putin su ciò che gli Stati Uniti non sono disposti a fare per difendere l’Ucraina, tanto che Medvedev ha pubblicamente espresso apprezzamento per la “saggezza” della decisione del presidente Usa.
Ma è dall’inizio del conflitto che Washington è molto esplicita nel far capire a Mosca di non volersi nemmeno avvicinare alle linee rosse tracciate dal Cremlino, di fatto subendole. E ancor prima, a dicembre dello scorso anno, Biden aveva escluso categoricamente un intervento diretto Usa a difesa di Kiev, regalando al suo avversario una preziosa informazione su cui basare le sue scelte.
I segnali del disimpegno
Ci sono almeno altri due segnali che fanno ipotizzare un disimpegno Usa: i toni belligeranti della Casa Bianca sono ormai un lontano ricordo e ora l’intera amministrazione, a partire dal presidente, sembra concentrata sui temi domestici in vista delle elezioni di midterm.
L’inflazione e l’economia che stenta sono le principali cause della bassa popolarità di Biden e la strage di Uvalde rappresenta un’occasione di mobilitazione dell’elettorato Dem, sensibile al tema del controllo delle armi.
Anche con riguardo a tutto ciò che si muove in Europa – dai governi europei che fremono per un cessate-il-fuoco e concessioni da parte di Kiev, all’ultimo pacchetto di sanzioni con lo stop parziale al petrolio russo – l’amministrazione Biden sembra distratta, lascia fare agli alleati europei, i quali però sono riusciti ad incasinarsi e ad incrinare l’immagine di compattezza mostrata nelle prime settimane.
Il rifiuto di Washington di mettere insieme una coalizione per rompere il blocco russo alle esportazioni di grano ucraino nel Mar Nero, osserva il Wall Street Journal, è una concessione preventiva che consente alla Russia di esercitare una maggiore pressione economica sull’Ucraina e sull’Occidente senza timore di una risposta. “Questo non è un modo per vincere una guerra e nemmeno per forzare una situazione di stallo in termini più favorevoli all’Ucraina”.
Putin non ha rinunciato ai suoi piani di rovesciare Kiev e di minacciare direttamente la Nato. L’ambivalenza dell’amministrazione Biden nella difesa dell’Ucraina incoraggia Mosca a credere di poter ancora ottenere una vittoria strategica.
I quattro errori di Biden
D’altronde, quella nei confronti della Russia è un’ambivalenza che caratterizza l’amministrazione Biden fin dal suo insediamento e da cui sono scaturiti i quattro errori del 2021 che hanno molto probabilmente incoraggiato Putin a procedere con i piani di invasione dell’Ucraina: il rinnovo del trattato Start (che Trump aveva tenuto in sospeso); lo stop alle concessioni per lo sfruttamento di idrocarburi nel demanio federale; il via libera di fatto al completamento del Nord Stream 2, rinunciando alle sanzioni; e, infine, a inizio dicembre, davanti alla minaccia credibile di invasione messa in piedi da Putin nei mesi precedenti, l’aver escluso un intervento diretto Usa a difesa di Kiev e aperto invece a negoziati diretti con Mosca e i partner Nato sulla sicurezza in Europa orientale.
L’impressione era che Washington fosse disposta a “sacrificare” l’Ucraina di fronte ad un fatto compiuto. Tra gennaio e febbraio di quest’anno, l’improvviso ripensamento. Ma anche il terzo errore di valutazione. L’intelligence Usa è stata perfetta nel prevedere che Putin avrebbe invaso, contro l’opinione contraria di numerosi analisti e osservatori, ma aver sovrastimato l’efficienza delle forze armate russe può aver indotto la Casa Bianca a ritenere che un aiuto militare più imponente non avrebbe fatto la differenza.
Poche ore prima dell’invasione, i vertici militari Usa non nascondevano il proprio pessimismo. In audizione al Congresso, il capo di Stato maggiore Milley ipotizzava la caduta di Kiev in 72 ore. Se queste erano le aspettative, non sorprende che fino a quel momento gli aiuti militari fossero molto limitati e consistessero in armamenti leggeri.
È verosimile che allora l’Ucraina era data per persa e che l’obiettivo di Washington fosse limitato a ricompattare gli alleati della Nato e all’adozione di sanzioni permanenti contro Mosca, recidendo i pericolosi intrecci di interessi tra Ue (Germania in testa) e Russia.
L’eccessivo ottimismo
Ma poi, con il passare dei giorni e delle settimane, la resistenza degli ucraini e gli insuccessi russi hanno mutato il quadro, facendo assaporare la prospettiva di una sconfitta di Mosca, o per lo meno di un suo indebolimento. “Vogliamo vedere la Russia indebolita ad un livello tale per cui non possa fare il tipo di cose che ha fatto invadendo l’Ucraina”, affermava il segretario alla Difesa Lloyd Austin. E costringendo Washington ad un upgrade degli aiuti militari a Kiev, ma sempre attentamente calibrati in modo da non avvicinarsi alle linee rosse fissate da Mosca.
L’ambivalenza Usa è quindi rimasta nascosta dagli iniziali insuccessi russi, che hanno suscitato un trionfalismo eccessivo in Occidente. Tanto che si è iniziato a parlare addirittura di regime change a Mosca, un obiettivo che qualcuno a Washington cominciava ad accarezzare e che veniva evocato dal presidente Biden in persona nella discussa frase conclusiva di un suo discorso pubblico a Varsavia (Putin “non può restare al potere”).
Successivamente, è partito il surreale dibattito su una ipotetica “umiliazione” della Russia, per qualcuno da evitare per altri da perseguire, da cui però siamo lontanissimi, come appare evidente dalle notizie che giungono oggi dal fronte.
Quali sono i veri obiettivi Usa
La realtà è che la collaborazione di intelligence e le armi inviate dall’Occidente (dai famosi javelin a quelle più “pesanti”) hanno senz’altro aiutato gli ucraini a resistere, ad impedire la caduta di Kiev e ad infliggere all’esercito russo numerose perdite, costringendolo a concentrare le sue forze nel Donbass. Ma appaiono del tutto insufficienti a respingere gli invasori oltre le linee del 23 febbraio.
Altro che umiliazione, i russi sono vicinissimi a completare quella che il Cremlino considera la “liberazione” del Donbass, controllano un ampio corridoio terrestre fino alla Crimea, da Mariupol a Kherson, e hanno ottenuto la resa dei difensori dell’Azofstal, vendibile come “denazificazione”.
La nuova fase della guerra, con la lenta ma inesorabile avanzata russa nel Donbass, e il no alla fornitura di missili a medio raggio a Kiev nel momento più critico, hanno fatto riemergere il tema dell’ambivalenza Usa e risollevato gli interrogativi sui reali obiettivi di guerra americani in Ucraina.
Un limbo che già nel dicembre scorso preoccupava Walter Russell Mead: “Biden deve prendere una decisione chiara. Se si impegna ad aiutare l’Ucraina a integrarsi con l’Occidente, dovrà convincere Putin che fa sul serio”, schierando “significative forze Nato nel Paese”. Viceversa, “se non pensa che l’Ucraina valga il rischio di una crisi in stile Guerra Fredda con la Russia, deve cercare la ritirata più dignitosa che Putin permetterà”.
Ieri è stato il Financial Times ad interrogarsi su quale sia l’esito che gli Stati Uniti perseguono, quali i termini di una sconfitta russa e quali le concessioni territoriali che Washington potrebbe spingere gli ucraini ad accettare.
Secondo i “talking points” interni del Consiglio di sicurezza nazionale di cui il FT ha preso visione, gli Usa mirano ad una Ucraina “democratica, sovrana e indipendente” e a fare in modo che gli sforzi della Russia per dominare l’Ucraina “si concludano con un fallimento strategico“. “Siamo concentrati nel dare all’Ucraina il più forte aiuto possibile sul campo di battaglia per assicurare che abbia quanta più leva possibile al tavolo dei negoziati”.
L’obiettivo è il “fallimento strategico” dell’aggressione russa all’Ucraina, ma quali siano i termini di questo fallimento non è ancora chiaro. Certo, è sempre possibile, come sostengono alcuni analisti, che ci sia della fog of war, l’intenzione di Washington di mantenere volutamente vaghi i suoi obiettivi di guerra.
Ma “gli europei – spiega Stefano Stefanini, ex ambasciatore italiano alla Nato – vorrebbero conoscere il finale di partita che ha in mente l’America, perché l’idea che la Russia perda – o non vinca – non è stata definita”. “Significa tornare alla situazione pre-24 febbraio? Significa annullare i guadagni territoriali che la Russia ha ottenuto nel 2014? Significa cambio di regime a Mosca? Niente di tutto ciò è chiaro”, osserva Stefanini.
Il ritorno allo status quo ante
Come appariva chiaro già nelle prime settimane, nonostante le difficoltà russe, gli aiuti militari dell’Occidente a Kiev erano e sono tuttora inadeguati allo scopo di ottenere una sconfitta di Mosca, che potremmo definire con quel ritorno allo status quo ante l’invasione del 24 febbraio menzionato di recente da Kissinger al forum di Davos.
In un’intervista alla televisione ucraina, la scorsa settimana, il presidente Zelensky ha suggerito che Kiev sarebbe soddisfatta di un ritorno allo status quo pre-invasione: “Considererei una vittoria, ad oggi, avanzare alla linea del 24 febbraio senza inutili perdite”.
Mentre gli ucraini vorrebbero lanciare una contro-offensiva per respingere i russi sulle posizioni che occupavano prima dell’invasione – obiettivo che persino Kissinger ritiene non superi quel punto oltre il quale “non riguarderebbe la libertà dell’Ucraina, ma sarebbe una nuova guerra contro la Russia” – ad oggi questa richiederebbe l’utilizzo di armi che Washington non ha intenzione di inviare, ritenendole ad estremo rischio escalation. Questo è il paradosso: le armi che servirebbero a Kiev per far male davvero alla Russia sono ritenute da Washington dannose per gli interessi Usa.
Il rischio Afghanistan
Così facendo però l’Ucraina rischia di diventare un nuovo Afghanistan: non nel senso del pantano in cui finirono i sovietici negli anni ’80, ma dell’inglorioso e precipitoso abbandono di Kabul da parte proprio dell’amministrazione Biden lo scorso anno.
La Russia ha già perso?
Una visione ottimistica sull’esito del conflitto è quella di Charles Kupchan del Council on Foreign Relations:
“La Russia ha già subito una decisiva sconfitta strategica. Le forze ucraine hanno respinto l’avanzata su Kiev e mantengono il controllo della maggior parte del Paese; l’Occidente ha colpito la Russia con pesanti sanzioni economiche; e la Nato ha rafforzato il suo fianco orientale, mentre Finlandia e Svezia ora cercano di unirsi all’Alleanza. Sia per la Nato che per l’Ucraina, la prudenza strategica suggerisce di incassare questi risultati piuttosto che forzare la mano e correre i relativi rischi”.
Che Kiev abbia il diritto di combattere per la sua integrità territoriale, osserva Kupchan, non rende questa una scelta “strategicamente saggia”. Né il notevole successo nel respingere l’avanzata iniziale dei russi dovrebbe essere motivo di eccessiva fiducia nelle prossime fasi del conflitto. Il pragmatismo suggerirebbe a Kiev di accontentarsi.
Ma l’approccio di Kupchan muove dal presupposto liberal, che ci pare smentito dai fatti, secondo cui “in un mondo più interdipendente e globalizzato, l’Occidente avrà bisogno almeno di una certa dose di cooperazione pragmatica con Mosca per affrontare sfide comuni, come il controllo degli armamenti, il cambiamento climatico, la gestione della cybersfera e la promozione della salute globale”.
L’invasione russa dell’Ucraina non ha prodotto vincitori, sintetizza Kupchan, ma un solo chiaro sconfitto: la Russia.
Tuttavia, sebbene Mosca abbia dovuto ridimensionare i suoi obiettivi, siamo sicuri che la conquista dell’intero Donbass e del corridoio terrestre nell’Ucraina orientale e meridionale fino alla Crimea, rappresentino una sconfitta per la Russia e non, piuttosto, un trampolino di lancio verso una nuova aggressione o anche solo la base per una destabilizzazione permanente dell’Ucraina?
Nonostante le ingenti perdite sul terreno, e sebbene indebolita dalle sanzioni, infatti, la Russia può ancora strangolare l’Ucraina e quindi minarne la sovranità e l’indipendenza, a prescindere da quanto esse le verranno poi formalmente riconosciute.
E un qualsiasi esito diverso da una sconfitta russa non rischia di incoraggiare Pechino a testare la determinazione dell’Occidente a difendere Taiwan – che non è nemmeno uno Stato indipendente?
Un’occasione irripetibile
Walter Russell Mead ritiene invece che il team Biden debba fare tutto il possibile per approfittare degli errori di Putin, “un’opportunità irripetibile per segnare una vittoria storica che rimodelli il campo di gioco globale a vantaggio dell’America”.
Come affermava Zbigniew Brzezinski, “senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero, ma con l’Ucraina soggiogata e poi subordinata, la Russia diventa automaticamente un impero”. Impedire a Putin di ricostituire un impero alle porte dell’Ue e della Nato deve ora essere considerato una priorità per l’Occidente.
La transizione green globale, osserva Russell Mead, è oggi meno importante di liberare l’Europa dalla dipendenza energetica dalla Russia. Negare a Mosca gli introiti del commercio nucleare con l’Iran è più importante di un accordo sul programma nucleare di Teheran.
E data l’alleanza tra Pechino e Mosca, “tutte le battute d’arresto che Putin incontra in Ucraina sono battute d’arresto anche per Xi Jinping. Riducono il suo prestigio in Cina e all’estero dimostrando, in primo luogo, che è capace di gravi errori di calcolo nella politica mondiale e, in secondo luogo, che non è in grado di impedire agli Stati Uniti e ai loro alleati di umiliare il più importante alleato di Pechino“.
Ma con la sua ambivalenza nella difesa dell’Ucraina l’amministrazione Biden sta buttando al vento queste opportunità.