La vicenda della soppressione della storia del laptop di Hunter Biden, nell’imminenza delle elezioni presidenziali Usa del 2020, si è arricchita nei giorni scorsi di nuovi particolari. Che alla censura sui social media, così come sui media tradizionali, dell’inchiesta del New York Post avesse contribuito una vera e propria operazione – questa sì – di disinformazione era ormai chiaro, ancora più evidente grazie ai Twitter Files.
Ma dalla scorsa settimana gli autori di quella operazione hanno nomi e cognomi: il presidente Joe Biden e l’attuale segretario di Stato Antony Blinken.
Nuova testimonianza
Durante l’ultimo dibattito presidenziale nel 2020, Biden citò la lettera di 51 ex funzionari dell’Intelligence in cui si affermava che la storia del laptop del figlio Hunter aveva “tutte le caratteristiche di un’operazione di disinformazione russa”. Oggi lo sappiamo, la disinformazione c’era, ma era la loro.
Non solo il contenuto del laptop si è dimostrato autentico, ma ora sappiamo che quella iniziativa fu orchestrata dalla stessa Campagna Biden, nella persona dell’attuale segretario di Stato Blinken. A rivelarlo, in una testimonianza giurata alla Commissione Giustizia della Camera, l’esecutore materiale di quella iniziativa: l’ex direttore ad interim della CIA Mike Morell.
Morell ha riferito ai commissari che fu proprio Antony Blinken, all’epoca tra i principali consiglieri della Campagna Biden, a contattarlo “il 17 ottobre 2020 o prima”, pochi giorni dopo lo scoop del Post dunque. E ha ammesso che fino a quella chiamata non aveva intenzione di scrivere alcuna dichiarazione per scagionare Hunter Biden. Fu la conversazione avuta con Blinken a spingerlo ad assumere quella iniziativa, attivandosi per raccogliere le firme di una cinquantina di suoi colleghi.
Morell, all’epoca uno dei candidati a dirigere l’Agenzia sotto Biden, ha ammesso di averla organizzata per “aiutare il vicepresidente Biden… perché volevo che vincesse le elezioni”.
La vera disinformazione
Una iniziativa politica di parte spacciata dai media come un parere pro veritate di esperti e usata per giustificare la censura di notizie vere, per impedire al pubblico americano di conoscere informazioni rilevanti sui rapporti d’affari della famiglia Biden con entità legate al Partito Comunista Cinese.
Come emerso dai Twitter Files e dalle dichiarazioni del fondatore di Facebook Zuckerberg, l’FBI aveva già provveduto a insinuare nei social media, nelle interlocuzioni con cadenza settimanale che intratteneva con i vertici delle piattaforme, il sospetto che un’operazione di disinformazione russa avrebbe colpito Biden nei giorni immediatamente precedenti il voto.
La lettera dei 51 ex funzionari di Intelligence ebbe un ruolo decisivo nella decisione dei social di censurare la storia del laptop di Hunter, proprio perché li convinse che fosse proprio quella la disinformazione russa preannunciatagli dall’FBI.
La chiamata di Blinken e le 51 firme
Alle 22:53 della notte della chiamata, Blinken inviò a Morell un articolo di USA Today affermando che l’FBI stava valutando se la storia del laptop di Hunter faceva parte di una “campagna di disinformazione”. Oggi sappiamo che in realtà l’FBI stava addirittura già indagando sui contenuti del laptop di cui era venuta in possesso. Sapeva benissimo dunque che non si trattava di disinformazione russa.
Nei due giorni successivi, Morell raccolse le firme di 51 ex funzionari dell’Intelligence, tra cui altri quattro ex direttori della CIA, inclusi John Brennan e Leon Panetta. Morell ha testimoniato di aver inviato un’e-mail dicendo a Nick Shapiro, ex vice capo dello staff di Brennan, che la Campagna Biden voleva che la dichiarazione arrivasse ad un particolare giornalista del Washington Post.
Alla fine, Shapiro inviò la lettera a Politico, che la pubblicò il 19 ottobre con il titolo: “La storia di Hunter Biden è disinformazione russa, dicono dozzine di ex funzionari”. I firmatari della lettera affermavano che la storia del New York Post aveva “tutte le classiche caratteristiche di un’operazione di disinformazione russa”.
La lettera fu utilizzata anche dallo stesso candidato Joe Biden durante il dibattito del 22 ottobre contro Donald Trump, per respingere l’accusa di aver usato la sua influenza a beneficio degli affari della sua famiglia, cui erano arrivati milioni di dollari dalla Cina mentre era vicepresidente.
La credibilità di Blinken
Ora, la rivelazione dovrebbe imbarazzare non poco il Dipartimento di Stato. Che il segretario Blinken abbia orchestrato una tale operazione di disinformazione non depone certo per la credibilità della diplomazia americana. Dovrebbe, perché ovviamente anche questa notizia è stata “silenziata” dal “complesso industriale della censura” americano e a stento è arrivata oltreoceano.
Il “sicario” dell’era Obama
La lettera di Morell e soci in aiuto di Biden è un chiarissimo esempio di politicizzazione dell’Intelligence diventata la norma dall’amministrazione Obama in poi.
Né può sorprendere che la Campagna Biden per questo “lavoro sporco” si sia rivolta al “sicario” dell’era Obama (così lo ha definito Andrew McCarthy). Mike Morell è infatti una vecchia conoscenza e ha all’attivo almeno un’altra clamorosa falsificazione di intelligence.
Fu infatti il principale artefice della falsa narrazione spacciata dall’amministrazione Obama in seguito al massacro jihadista dell’11 settembre 2012 a Bengasi, in cui furono uccisi l’ambasciatore Christopher Stevens, il funzionario Sean Smith e due ex Navy Seal, Glen Doherty e Tyrone S. Woods – come ricostruisce l’accurato film 13 Hours: The Secret Soldiers of Benghazi, proprio in questi giorni in programmazione su Sky.
Si trattò di un attacco terroristico organizzato, nell’undicesimo anniversario dell’11 Settembre, ma non si poteva dire a meno di due mesi dalle presidenziali del 2012 in cui Obama cercava la rielezione. Avrebbe stonato con il messaggio della campagna di Obama secondo cui al-Qaeda era ormai sconfitta.
La falsa versione su Bengasi
Così all’opinione pubblica venne venduta la storia di un massacro dovuto alla degenerazione di proteste spontanee dei libici in reazione ad un video anti-musulmano.
La CIA sapeva fin dall’inizio che erano stati i jihadisti ad attaccare il complesso e aveva subito informato Washington, compreso il Dipartimento di Stato. Ma il segretario di Stato in persona, Hillary Clinton, rilasciò una dichiarazione incolpando il video, anche se in messaggi privati alla figlia e al presidente libico attribuiva l’attacco ad Ansar al-Sharia, affiliata ad al-Qaeda.
I punti principali del rapporto sull’accaduto, da condividere con il Congresso e il pubblico, furono preparati da funzionari dell’Intelligence in coordinamento con la Casa Bianca, il Dipartimento di Stato, l’FBI e altre agenzie.
Inizialmente menzionavano la matrice jihadista, ma furono manipolati per oscurare il ruolo dei terroristi e creare l’impressione errata di una rivolta “spontanea” causata dal video, tagliando il termine “islamico”, sostituendo “attacchi” con “dimostrazioni”, rimuovendo “legami con al-Qaeda” e la citazione di Ansar al Sharia.
Fu Susan Rice, oggi consigliere di Biden alla Casa Bianca, a fare il giro dei talk show domenicali per vendere la versione politicamente corretta. Successivamente, messo alle strette e chiamato a testimoniare sotto giuramento al Senato, Mike Morell ha ammesso di aver apportato personalmente modifiche significative al rapporto.