Secondo tutte le previsioni il presidente del Brasile Jair Bolsonaro avrebbe dovuto essere schiantato già al primo turno delle elezioni. Invece no. Ha perso, è rimasto indietro 5 punti rispetto all’ex presidente socialista Lula Ignacio da Silva, come alcuni sondaggi prudenti e più realistici avevano pronosticato.
Però ha raccolto 2 milioni di voti in più, il suo Partito Liberale ha conquistato la maggioranza relativa sia in Senato che alla Camera, oltre al governo di 8 Stati al primo turno e il vantaggio in altri 8 Stati. Anche se Lula dovesse vincere il secondo turno, il prossimo 30 ottobre, si troverebbe contro il Congresso e il 60 per cento del territorio.
Lula vince grazie al voto del Nord Est, dove si concentrano le grandi città sull’Atlantico, e vince in Amazzonia, ma perde nelle altre regioni rurali dell’Ovest e del Sud, dove il presidente uscente raccoglie fino al 70 per cento dei voti. In parole povere, Lula può vincere, ma rimarrebbe un’anatra zoppa, in un Paese anche geograficamente diviso.
L’odio contro Bolsonaro
L’odio contro Bolsonaro è stato pazientemente e metodicamente coltivato dai media. Il presidente conservatore è stato, prima di tutto, accusato di fascismo, per il suo passato di militare nel periodo della dittatura.
Ma l’azione politica di Bolsonaro è stata ispirata dal liberalismo classico, non dallo statalismo fascista: separazione delle grandi aziende dallo Stato, privatizzazioni, liberalizzazioni, riduzione delle tasse, riforma delle pensioni.
Lula, socialismo & corruzione
I brasiliani che votarono Bolsonaro nel 2018 venivano da 16 anni di socialismo “moderato” del Partito dei Lavoratori. Questo sistema, molto pompato dai media, aveva anche prodotto una crescita decennale, legata ai prezzi dell’energia, ma dal 2014 almeno era entrato in crisi.
Negli anni successivi, la maxi inchiesta giudiziaria “Autolavaggio” aveva portato alla luce una gigantesca rete di corruzione che coinvolgeva il Partito dei Lavoratori di Lula, l’azienda petrolifera di Stato Petrobras e le maggiori banche.
Lula stesso venne condannato a 12 anni di carcere. I brasiliani, indignati per il loro tenore di vita sempre peggiore e per la corruzione che era emersa, nel 2018 optarono per un’alternativa radicale. Fu un cambiamento anche culturale. Per curiosità: fu l’anno in cui von Mises superò Marx nelle ricerche su Google.
Amazzonia e Covid, le accuse del giornalista collettivo
Già nel primo anno della presidenza di Bolsonaro, il giornalista collettivo ha trovato il modo di accusarlo della peggiore nefandezza pensabile: bruciare l’Amazzonia, come un novello Nerone ma su scala planetaria.
Ancora oggi, molte persone informate, sia in Brasile che all’estero sono convinte che il presidente brasiliano uscente abbia ordinato una massiccia deforestazione e che questa sia all’origine dei grandi incendi del 2019, ritenuti i peggiori di sempre.
Il presidente francese Emmanuel Macron era giunto a proporre una sorta di commissariamento internazionale dell’Amazzonia, sottraendola alla sovranità del Brasile. Ma i dati dimostrano che gli incendi del 2019 non fossero molto peggiori della media negli altri anni, idem dicasi per il tasso di disboscamento.
E il tutto in un ambiente legale che protegge la natura amazzone (i contadini devono preservare la foresta nell’80 per cento dei loro terreni) che Bolsonaro non aveva toccato. Visto che il presidente è scettico sulle teorie del riscaldamento globale, il giornalista collettivo gli attribuisce la colpa “oggettiva” di aver provocato la catastrofe naturale.
L’anno dopo è arrivato il Covid-19 anche in Brasile ed è stata la seconda occasione per puntare il dito contro il presidente conservatore. Si disse in più occasioni che il Brasile di Bolsonaro, assieme agli Usa di Trump, fossero quelli più colpiti dall’epidemia, a causa della mala gestione dei loro leader.
Ma come Trump, Bolsonaro impostò la risposta sul modello federale, lasciando ad ogni Stato il compito di combattere l’epidemia, senza imporre una linea nazionale.
Dal canto suo, il presidente, ammalatosi e poi guarito dal Covid, ebbe sempre un atteggiamento opposto rispetto a quello del nostro governo: uscire dall’emergenza il prima possibile. Questo modo di porsi, dai media è stato tradotto in: presidente negazionista. Quindi anche anti-scientifico.
Ogni morto di Covid è stato imputato a lui. Eppure, se si misura la mortalità in termini relativi (in proporzione alla popolazione), il Brasile figura al 19mo posto nel mondo, molto al di sotto del Perù (attualmente primo al mondo per mortalità in rapporto alla popolazione) e di ben 16 Stati europei. E nel corso della pandemia, dal 2020, non è mai stato ai primissimi posti per mortalità da Covid.
I giudici rimettono in pista Lula
Proprio nel bel mezzo della pandemia e delle violente critiche internazionali a Bolsonaro, la Corte Suprema, a sorpresa, scarcerò Lula. La magistratura, che aveva distrutto il sistema del Partito dei Lavoratori, lo ripescò, spolverò e preparò alla rivincita del 2022.
In compenso, in questo anno elettorale, sono iniziate le inchieste su Bolsonaro e sui suoi finanziatori più ricchi, ora accusati di voler organizzare un golpe.
Gli errori di Bolsonaro
Bolsonaro avrà certamente fatto tanti errori. Per affrontare la crisi economica dovuta al Covid-19 ha adottato una linea di politica economica molto più populista rispetto alla sua originaria. Ha litigato con i vertici di Petrobras (sostituiti l’anno scorso) per sussidiare il carburante.
Anche in questi mesi di campagna elettorale ha elargito l’equivalente di 8 miliardi di euro in aiuti di Stato alle categorie più colpite. Crisi energetica e il Covid hanno lasciato un Paese impoverito e con il 15 per cento di disoccupazione.
Ma l’economia sta ripartendo. Gli ultimi dati mostrano una crescita dell’occupazione (quasi 300 mila posti di lavoro creati solo in agosto) e della produzione.
Lo “scandalo” Bolsonaro
Non sono questi aspetti pratici che interessano al giornalista collettivo. Il Bolsonaro che fa scandalo è quello liberista, “anti-scientifico” sul Covid e sul riscaldamento globale, “populista e razzista” nel modo di parlare. Poi si scopre che non era così odiato in patria, ancora dopo tutto quel che la stampa nel mondo aveva fatto contro di lui.