Come l’Occidente ha voltato le spalle a Israele: tutto inizia con la Dottrina Obama

Ad armare l’Iran (e Hamas) la politica mediorientale di Obama-Biden: un piccolo impero con sei eserciti fuori dai suoi confini. Rischio “calamità biblica” per Israele

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Si dà sempre per scontato che Israele e l’Occidente siano dalla stessa parte. Che l’Occidente non abbandonerebbe mai lo Stato ebraico, né ne metterebbe mai a rischio l’esistenza. Ma, causa numerosi cambiamenti politici e geopolitici avvenuti negli ultimi quindici anni circa, questo non è mai stato meno vero che adesso.

Proveremo in questa serie di articoli ad identificare le principali ragioni per cui, questa volta, l’Occidente non è affatto dalla parte di Israele. Anzi.

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L’accordo sul nucleare

Comincia tutto con la Dottrina Obama. Non appena eletto presidente, Barack Obama fece partire, tramite l’Oman, la diplomazia track 2 segreta per trattare con l’Iran. Senza informare gli alleati dell’area come Israele e Arabia Saudita. Il primo di una lunga serie di “messaggi segreti” che Obama avrebbe inviato nel corso della sua presidenza all’ayatollah Ali Khamenei conteneva una concessione di apertura, senza condizioni: l’arricchimento dell’uranio.

Il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), o accordo sul nucleare iraniano, fu fasullo sin dall’inizio. In pratica, regalava all’Iran la capacità “threshold”, la tecnologia per costruire una bomba in ogni momento avesse voluto. E comunque conteneva una Sunset Clause di soli dieci anni. Una volta costruita l’infrastruttura “per scopi pacifici”, a partire dal 2025 l’Iran avrebbe potuto diventare legalmente una potenza nucleare.

Per giunta il JCPOA conteneva clausole segrete che consentivano all’Iran di aggirare i termini dell’accordo. Non che facesse differenza, perché come rivelato dai documenti segreti del regime degli ayatollah che l’Intelligence israeliana riuscì a contrabbandare fuori dall’Iran nel 2018, l’Iran non rispettò nemmeno le clausole ufficiali del JCPOA, manco per un minuto.

Iran potenza egemonica

Ma la Dottrina Obama non si fermava a rendere l’Iran una potenza nucleare “threshold”, lo vedeva come una potenza egemonica regionale. Come spiegato dall’allora presidente a Jeffrey Goldberg, direttore di The Atlantic e portavoce non ufficiale della politica estera obamiana, gli stati del Golfo avrebbero dovuto imparare a “share the neighborhood” (condividere il vicinato) con l’Iran.

In pratica, tramite il JCPOA, Obama voleva creare un sistema bipolare, come quello della Guerra Fredda, con Iran e Arabia Saudita in vece di Usa/Urss, che mantenesse il Medio Oriente stabile. Una strana strategia. Perché ciò che rendeva stabile la Guerra Fredda era il possesso di armi nucleari da ambo le parti, non da una sola.

Obama “vendette” il JCPOA come un accordo che scongiurava il pericolo dell’atomica iraniana con la complicità di media compiacenti, in una operazione di manipolazione dell’informazione guidata dal suo assistente Ben Rhodes.

Insomma, col possesso di armi nucleari la Dottrina Obama concedeva all’Iran l’egemonia regionale. Per convincere l’Iran della sua buona fede, Obama si tenne alla larga dalla guerra in Siria, dove l’Iran era accorso in soccorso del vitale (per i suoi progetti egemonici) Assad, ritirò le truppe americane dall’Iraq e appoggiò il governo Maliki (provocando la nascita dell’Isis), sollevò le sanzioni e ritornò all’Iran miliardi di fondi congelati nelle banche americane.

Obama bloccò una poderosa inchiesta della DEA sui traffici di droga e sul riciclaggio di denaro del principale proxy iraniano, Hezbollah. Nonché un tentativo israeliano di assassinare Qassem Soleimani, il comandante delle Forze Al Quds, le forze speciali dei Pasdaran il cui compito è gestire proprio le attività dei proxy al di fuori dei confini. Soleimani, fino ad allora considerato uno dei più grandi terroristi del globo, era anche inesplicabilmente nominato nel JCPOA, che gli accordava un’amnistia.

Nel corso della presidenza Obama, lobbysti e inviati iraniani visitarono la casa Bianca in segreto “dozzine di volte”.

Per quando Obama lasciò la Casa Bianca, l’Iran si era trasformato in un piccolo impero, con milizie proxy e basi missilistiche, indipendenti dai governi locali, non più solo in Libano, ma anche in Iraq e Siria (Figure 1 e 2). Secondo un comandante iraniano: “L’Iran ha ora sei eserciti fuori dai suoi confini”.

Il secondo pilastro: il Qatar

L’Iran non era il pilastro unico della politica mediorientale di Obama. Il secondo pilastro era il Qatar. Un piccolo ma influente stato del Golfo Persico di circa tre milioni di abitanti, dei quali solo circa 300 mila con cittadinanza, ricco di petrolio e gas naturale, e principale sponsor internazionale della Fratellanza Musulmana.

Pur essendo l’uno sciita e l’altro sunnita, l’Iran rivoluzionario e il Qatar patrono dei Fratelli Musulmani hanno molto in comune. Entrambi sono islamisti, ed entrambi vogliono veder cadere i regimi mediorientali attuali. Hanno una lunga storia di collaborazione che va indietro a Khomeini, o addirittura al fondatore della Fratellanza Hassan Al Banna. La Fratellanza Musulmana vede la rivoluzione iraniana del 1979 e la creazione della Repubblica Islamica come esempi da seguire anche nel mondo sunnita.

La cosiddetta Primavera Araba, sbandierata come una rivoluzione per la democrazia, è stata in larga parte una serie di colpi di stato, tentati o riusciti, dei Fratelli Musulmani. Per la cronaca: Hamas è parte della Fratellanza Musulmana e, come ormai risaputo, i suoi leader vivono in esilio dorato a Doha.

In quegli anni Qatar e Iran erano su fronti opposti in Siria, ma l’appoggio dell’amministrazione Obama alla Primavera Araba, dall’abbandono di Mubarak alla rimozione di Gheddafi, sembrava sempre cadere dal lato dei Fratelli Musulmani. Almeno laddove l’Iran non aveva a che soffrirne. Ma anche in quegli anni di amara guerra, gli islamisti arabi e quelli persiani non mancavano di spezzare il pane.

La Dottrina Salman

Ma come reagirono gli alleati tradizionali degli Stati Uniti nella regione alla Dottrina Obama? Nel 2015 l’Arabia Saudita affida il ruolo di ministro della difesa al giovane ed energico erede al trono Mohammed Bin Salman, che non tarda a varare la Dottrina Salman, in diretta contrapposizione alla Dottrina Obama.

Da lì a poco, cogliendo di sorpresa l’amministrazione Obama, una coalizione di Paesi arabi guidati dall’Arabia Saudita invaderà lo Yemen, per sradicare il gruppo rivoluzionario Houthi, cliente dell’Iran.

La resistenza di Israele

Il secondo alleato americano a fare resistenza contro la Dottrina Obama fu, naturalmente, Israele. In particolar modo il primo ministro Benjamin Netanyahu. La discordia tra Barak e Bibi è materiale per le leggende.

Non solo l’amministrazione Obama era sorda allo scetticismo degli israeliani su Teheran e nucleare iraniano, ma insisteva per un accordo “a due Stati” con i palestinesi sui confini del 1967.

Quando i negoziati fallirono, l’inviato speciale di Obama, Martin Indyk, un membro del New Israel Fund, un’organizzazione di estrema sinistra che finanzia ong israeliane filo-palestinesi, e del Brookings Institution, un think tank ben noto per essere la lobby del Qatar negli Usa, in una mossa senza precedenti per un diplomatico americano, incolpò apertamente Israele.

Nel 2015, quando Netanyahu era in corsa per la rielezione, Obama mandò il suo campaign manager migliore, e utilizzò anche fondi federali, per fare in modo che vincesse l’opposizione. Ma senza successo.

La leva degli aiuti militari

È vero che, per calmare le polemiche sull’attitudine anti-israeliana della sua amministrazione e rassicurare lo Stato ebraico, Obama approvò il più grande pacchetto di aiuti militari ad Israele mai visto, 38 miliardi di dollari, ma tali aiuti sono ormai, oltre che una donazione all’industria militare americana, uno strumento di pressione. Rendono Israele sempre meno tecnologicamente e logisticamente indipendente e sempre più soggetto alla volontà dell’America. Israele non è nemmeno autorizzato a produrre in loco i necessari missili intercettori per Iron Dome. Cosicché, ogni volta che da Gaza ricominciano a sparare razzi, deve trattare con gli americani per rimpinguare le scorte.

Mentre l’opinione pubblica americana lamenta tutti i soldi spesi per “le armi ad Israele”, e il resto del mondo, comprensibilmente, lamenta come gli israeliani siano i cocchi degli Americani, l’America utilizza la leva degli aiuti militari per far accettare ad Israele un riallineamento strategico, sull’asse Qatar-Iran, che mette in pericolo l’esistenza stessa dello Stato Ebraico. E questo temo diventerà sempre più palese nelle prossime settimane.

Infine nel 2016, sulla via della porta della Casa Bianca, l’ultimo smacco. L’ambasciatrice di Obama all’Onu Samatha Power rifiutò di utilizzare il veto in una risoluzione delle Nazioni Unite che riconosceva Gerusalemme Est come “territorio occupato”.

La parentesi Trump

Tuttavia, nel 2016 l’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump ribaltò le carte. A Trump il JCPOA non piaceva, e lo annullò molto presto nel corso sua presidenza. Rimise l’Iran sotto sanzioni, e bombardò l’aviazione di Assad dopo un attacco con armi chimiche. Quando l’Iran tramò vendetta, fece uccidere in un attacco di drone proprio quel generale Qassem Soleimani che Obama aveva graziato.

Per controbilanciare la risoluzione Onu su Gerusalemme Est, spostò l’ambasciata americana a Gerusalemme, riconoscendola di fatto come la capitale di Israele. Sul processo di pace, mise al torchio Abbas, del quale aveva velocemente imparato a non fidarsi.

L’amministrazione Obama rimaneva attiva dietro le quinte. Tanto che l’ex segretario di Stato John Kerry teneva bene informato l’Iran sulle mosse americane e israeliane.

Gli Accordi di Abramo

Ma soprattutto Trump si fece garante degli Accordi di Abramo, la cui caratteristica rivoluzionaria era di mettere la pace tra Paesi arabi e Israele prima della pace tra Israele e palestinesi, nella certezza che quest’ultima avrebbe seguito in buon ordine. Per decenni, si era provato a fare il contrario con nessun successo.

Con gli Accordi di Abramo sia Israele che i Paesi arabi intendevano creare una informale alleanza economico-politico-militare per contenere l’Iran. Gli alleati tradizionali degli Usa tirarono un sospiro di sollievo, ma non durò molto.

Il ritorno della Dottrina Obama

Con l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca la Dottrina Obama tornò sulla scena. E con vendetta. Biden iniziò subito a fare ogni tipo di concessione agli iraniani cercando di convincerli a rientrare nel JCPOA, rafforzò i rapporti col Qatar, utilizzandolo come broker in trattative delicate come quella con i Talebani per il ritiro dall’Afghanistan. E soprattutto designandolo come “importante alleato non appartenente alla Nato”. La stessa designazione di Israele.

Ci troviamo perciò attualmente nella strana condizione per cui un “importante alleato” ospita, in un esilio dorato, la leadership di una organizzazione terroristica che ha appena massacrato nella maniera più efferata 1400 cittadini, perlopiù civili, di un altro “importante alleato”, e che ne detiene in ostaggio altri 200. Una leadership che lancia appelli globali alla completa distruzione dell’importante alleato Israele dalla televisione di Stato (Al Jazeera), dell’importante alleato Qatar.

L’Arabia Saudita, che tutti sapevano, si stava preparando ad unirsi agli Accordi di Abramo, stressata anche dall’insuccesso della sua campagna in Yemen, si ritrovò senza sapere che pesci pigliare. Una delle prime mosse di Biden come presidente fu rimuovere i nemici dei sauditi in Yemen, gli Houthi, milizia cliente dell’Iran, dalla lista delle organizzazioni terroristiche.

Entro breve i sauditi, pur continuando ad ammiccare agli Accordi di Abramo, rientrarono nei ranghi, tornando a un’attitudine pre-Dottrina Salman nei confronti degli Stati Uniti. Si ritirano dallo Yemen, che oggi è in mano agli Houthi. “Ora controlliamo quattro capitali arabe”, esultò un funzionario iraniano (Damasco, Bagdad, Beirut, Sanaa). I sauditi accettarono perfino di riaprire un dialogo con l’Iran, pur tramite la Cina. Forse in un tentativo di spaventare Biden e controbilanciare l’influenza americana.

Per quanto riguarda Israele, le pressioni americane si fecero sentire subito. Con lo sblocco dei fondi destinati all’Autorità Palestinese, pur sapendo che una parte sarebbe andata ad Hamas, e con le pressioni sul governo Lapid per concludere un accordo col governo libanese, ospite e complice di Hezbollah, sullo sfruttamento dei giacimenti di gas di fronte alle coste dei due Paesi.

Come fa notare l’analista della Foundation for Defense of Democracies Tony Badran:

Ciò che l’amministrazione [Biden] sta comunicando, con investimenti all’estero e maggiore coinvolgimento, e con l’inserirsi degli Stati Uniti come garante tra Israele ed Hezbollah, è che da qui in avanti mette numerosi limiti alle azioni israeliane in Libano. In altre parole, che il Libano deve essere integrato nella regione come base di Hezbollah.

Bastoni tra le ruote a Netanyahu

Quando poi Benjamin Netanyahu tornò al governo, l’amministrazione Biden iniziò una vera e propria campagna per spodestarlo. Il governo americano fece la mossa senza precedenti di intervenire nel dibattito politico interno di Israele sulla riforma della giustizia, già di per sé estremamente divisivo, trasformandolo in uno degli ormai familiari movimenti di “resistenza” che appaiono ogni volta che vince le elezioni qualcuno inviso alle élite dell’Occidente (Trump, Bolsonaro, Orban, Duda, Netanyahu), pretendendo di star salvando la democrazia pur spesso utilizzando metodi tutt’altro che democratici.

C’è poco da stupirsi quindi che, malgrado le gran dichiarazioni di affetto e solidarietà ad Israele, l’amministrazione Biden abbia da subito iniziato a mettere i bastoni tra le ruote alla guerra contro Hamas.

Calamità biblica per Israele

Al momento con la sua strategia, coordinata col Qatar, di “morte da mille rilasci di ostaggi”, Biden sta chiaramente cercando di ritardare l’offensiva di Israele all’infinito, salvare Hamas dalla completa distruzione, e preservare l’asse Qatar-Iran come nuovo alleato dell’Occidente.

Ma malgrado la reiterata ostilità di Obama-Biden verso Israele, il riallineamento della politica mediorientale americana rimane. A questo punto, che alla Casa Bianca ci sia un Democratico o un Repubblicano, c’è da chiedersi se la Dottrina Obama, nella quale gli Stati Uniti e l’Occidente hanno ormai investito molti anni e sforzi, non sia ormai troppo avanzata per essere rescissa.

La guerra che Israele ha dichiarato ad Hamas non è una vendetta. Si tratta di ristabilire la sua deterrenza in Medio Oriente. Se Hamas ne viene fuori sembrando il vincitore, per Israele sarà, per dirlo con Caroline Glick “una calamità di proporzioni bibliche”.

Isolato nel mondo, e trattato malamente dal suo più verosimile alleato americano, Israele emergerebbe dalla guerra con la sua posizione internazionale in briciole. La pace con Egitto e Giordania probabilmente non sopravviverebbe a lungo. Gli Accordi di Abramo verrebbero rescissi. E l’idea di normalizzazione con l’Arabia Saudita finirebbe nel dimenticatoio. L’Iran emergerebbe come la superpotenza regionale, e nel giro di pochi mesi ci si aspetterebbe che testi un’arma nucleare. Il futuro di Israele, in breve, sarebbe tetro.

E, aggiungiamo noi, senza vedere niente di quello che sta succedendo dietro le quinte, senza aver mai sentito parlare della Dottrina Obama, il mondo concluderebbe che Israele abbia perso il supporto di alleati e opinione pubblica per aver “ucciso troppi civili a Gaza”, o qualcosa del genere. E il mondo occidentale che ha in gran parte creato l’attuale situazione potrebbe fargli tz-tz per “non averci dato retta”.

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