Come si spiega l’odio verso gli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas

All’Aja assenti i testimoni più importanti. Ogni atrocità legittima in nome della “resistenza” contro i presunti oppressori: donne e bambini inclusi

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Quando, l’11 gennaio, è iniziato presso la Corte internazionale di giustizia dell’Aja, in Olanda, il processo contro Israele per l’accusa di genocidio mossa dal Sudafrica, erano assenti i testimoni più importanti che potevano sostenere le ragioni dello Stato ebraico: i più di 130 ostaggi israeliani che sono ancora tenuti prigionieri da Hamas nella Striscia di Gaza.

La campagna

Per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla questione, il governo di Gerusalemme si era rivolto a delle agenzie pubblicitarie olandesi per pubblicare cartelloni pubblicitari con le foto degli ostaggi. Ma secondo un loro comunicato stampa, dieci agenzie si sono rifiutate di pubblicare i cartelloni.

La campagna di sensibilizzazione era stata sviluppata dall’agenzia pubblicitaria governativa israeliana Lapam, e aveva coinvolto dieci agenzie pubblicitarie olandesi nelle aree dell’Aja, Rotterdam e all’aeroporto di Schiphol. I manifesti mostravano immagini di vari ostaggi, indicandone i nomi e specificando che erano detenuti a Gaza, con la didascalia “Lei/Lui non può testimoniare oggi”.

Nel corso della collaborazione con una di queste agenzie, il design e il messaggio previsti per i manifesti erano stati approvati. Tuttavia, in modo del tutto inaspettato, quando i manifesti dovevano essere affissi, le agenzie hanno comunicato la cancellazione dell’annuncio.

L’umanità messa da parte

Questa non è la prima volta che attraverso i manifesti viene espressa una forte ostilità nei confronti degli ostaggi, anche se sono civili innocenti: già nei primi giorni dopo i massacri del 7 ottobre, aveva fatto scalpore la notizia che a Londra venivano strappati i manifesti degli israeliani rapiti. Un fenomeno estesosi poi anche ad altri Paesi, compresa l’Italia, dove sono stati strappati persino davanti al Memoriale della Shoah di Bologna.

In alcuni casi, l’astio degli antisraeliani ha preso di mira anche i parenti degli ostaggi, che in questi mesi hanno visitato diverse istituzioni e comunità ebraiche in giro per il mondo per sensibilizzare l’opinione pubblica: a novembre è successo a Melbourne, in Australia, dove dei manifestanti hanno protestato davanti ad un albergo per impedire l’accesso ai familiari delle vittime e degli ostaggi, di ritorno da un evento organizzato dalla comunità ebraica locale.

In tale occasione Anthony Albanese, il primo ministro australiano, affermò che “quello che stiamo vedendo rappresenta l’umanità messa da parte. Non ci sono scuse né ragioni per le quali delle persone dovrebbero organizzare una manifestazione contro le famiglie in lutto”. Mentre Alex Ryvchin, co-amministratore delegato del Consiglio esecutivo degli ebrei australiani, ha dichiarato che “il movimento anti-israeliano sta diventando indistinguibile dal neonazismo, nel suo totale disprezzo verso qualsiasi norma di decenza e nella sua ossessione di intimidire e molestare gli obiettivi più vulnerabili”.

Le origini dell’odio

Ma come si spiega tanto astio verso gli ostaggi e le loro famiglie, per il solo fatto di essere israeliani? L’antisemitismo c’entra, ma solo fino a un certo punto. Infatti, come spiegava a novembre Federico Rampini sul Corriere della sera, soprattutto per i giovani di sinistra rientrare in categorie quali l’essere maschi, bianchi o ricchi ti rende automaticamente la causa di ogni male che avviene nel mondo. Per cui, nemmeno donne e bambini rapiti dai terroristi meritano alcuna pietà, se rientrano in certe categorie.

Questo modo di pensare non nasce con l’ideologia woke, ma ha radici ben più profonde: basti ricordare cosa avvenne a metà del ‘900 agli esuli istriani in Italia o ai Pieds-Noirs francesi dopo la Guerra d’Algeria.

Nel primo caso, basti ricordare cosa avvenne ai profughi fuggiti dalla Jugoslavia nel 1947: giunti nel porto di Ancona, dovettero essere difesi dalla polizia mentre manifestanti comunisti volevano linciarli. Saliti sul treno, una volta giunti alla stazione di Bologna, ormai deboli e denutriti, videro i ferrovieri che per “protesta” versavano per terra il latte destinato ai bambini.

Non è andata meglio ai Pieds-Noirs, i francesi che da generazioni vivevano in Algeria: nel 1962, al termine della guerra che portò all’indipendenza del Paese nordafricano, in 900.000 dovettero lasciare il Paese, poiché gli arabi algerini li minacciarono con lo slogan “la valigia o la bara”. Anche loro furono trattati con ostilità dalla sinistra d’oltralpe: a Marsiglia, furono accolti dai portuali con cartelli su cui si leggeva “A mare i Pieds-Noirs”, mentre il sindaco socialista, Gaston Defferre, nel luglio 1962 disse: “Marsiglia ha 150.000 abitanti di troppo, i Pieds-Noirs vadano a reinserirsi altrove”.

Questo odio derivava dal fatto che i Pieds-Noirs venivano dipinti come razzisti e sfruttatori degli arabi: in realtà, per la maggior parte erano operai o piccoli impiegati, con un reddito medio inferiore a quello dei francesi della madrepatria. E siccome in molti casi vivevano in Algeria da diverse generazioni, senza aver mai visto la Francia prima dell’esodo, nel ’62 vi giunsero senza avere nemmeno un parente lì.

Questi due esempi spiegano l’odio che oggi porta una parte della sinistra a prendere di mira gli ostaggi israeliani e a giustificare o minimizzare gli attacchi del 7 ottobre: perché da tempo le etichette di “razzista”, “fascista” o “colonialista” sono diventate delle armi per disumanizzare determinate categorie. Per cui, anche anziani, donne e bambini, se vi rientrano, diventano dei mostri verso i quali ogni atrocità è legittimata in nome di una presunta “resistenza”.

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