La nostra stampa ci aggiorna abbastanza regolarmente sugli sviluppi della Commissione d’inchiesta della Camera sull’assalto del 6 gennaio al Campidoglio Usa. L’assalto dei manifestanti, come ricorderete, avvenne al termine di un raduno poco distante organizzato dal presidente Donald Trump per mettere pressione soprattutto ai Repubblicani, in particolare al vicepresidente Pence, perché rigettassero il voto dei grandi elettori per Joe Biden sulla base della sua denuncia di elezioni rubate.
Ora la Commissione 6 Gennaio, voluta dalla Speaker della Camera Nancy Pelosi, pretende di dimostrare non solo che Trump è moralmente e politicamente responsabile dell’assalto, ma anche che è penalmente responsabile di una rivolta violenta, allo scopo di convincere il Dipartimento di Giustizia ad incriminarlo.
Un processo politico
Avrete letto delle testimonianze e delle ulteriori prove che inchioderebbero l’ex presidente alle sue responsabilità, ma difficilmente avrete appreso dai nostri media mainstream della faziosità e delle modalità operative della Commissione. Si tratta di un processo politico, dove non è ammessa parola alla difesa né alcun contraddittorio, dove giudice e accusa coincidono, tutti i “giurati” sono stati meticolosamente scelti tra gli accusatori di Trump, anche quando Repubblicani, come la figlia dell’ex vicepresidente Cheney.
Prove inesistenti
Peccato che le prove siano inesistenti. La strategia di confondere lo stato d’animo di Trump con le parole sconclusionate degli estremisti che hanno preso d’assalto il Campidoglio è puro illusionismo. La Commissione non ha presentato uno straccio di prova che l’ex presidente avesse chiesto a qualcuno di venire a Washington armato o di compiere atti di violenza prima, durante o dopo la manifestazione.
Il processo (spesso in prime time tv) si svolge più o meno in questo modo: vengono fatti ascoltare o letti alcuni passaggi dei discorsi di Trump, quindi le farneticazioni di qualche fanatico in relazione alla retorica dell’ex presidente, poi vengono proiettati sul grande schermo alcuni video dei manifestanti che assaltano la polizia e fanno irruzione in Campidoglio. Il tutto dovrebbe dimostrare che Trump ha ordinato una rivolta violenta.
Non è così che funziona il diritto penale, come ha osservato l’ex procuratore Andy McCarthy su National Review, non un trumpiano. Quelle della Commissione non sono udienze, perché “nel nostro sistema le udienze prevedono il contraddittorio, sia nelle indagini del Congresso che in tribunale”.
Per esempio, viene presentata come prova l’uso nei suoi discorsi della parola “fight”, lotta. Ora, tutti sappiamo che parole come “lottare” e “combattere” fanno parte del bagaglio retorico di qualsiasi politico nel senso di combattere per il proprio Paese, lottare contro le ingiustizie, opporsi ai propri avversari politici e così via. Quando in campagna elettorale Barack Obama ebbe a dire “if they bring a knife to the fight, we bring a gun”, nessuno si è sognato di pensare che intendesse letteralmente e non metaforicamente.
Basti solo pensare che la pubblica accusa ha respinto i tentativi dei manifestanti sotto processo per l’assalto del 6 gennaio, cioè dei veri imputati, di citare come attenuante della loro condotta la retorica di Trump, sia quella del suo discorso di quel giorno, sia in generale i suoi appelli a “fermare il furto”.
Avvalorata la versione di Trump
La versione di Trump è che stava cercando di aumentare la pressione politica sul Congresso, non di provocare una rivolta violenta. Paradossalmente tutte le “prove” che stanno emergendo dai lavori della Commissione 6 Gennaio sembrano andare esattamente in quella direzione.
Non c’è alcuna prova che Trump avesse ordinato, o anche solo desiderasse che il raduno diventasse violento, a cominciare da quel passaggio del suo discorso – ovviamente ignorato dalla Commissione – quando disse: “So che tutti qui marceranno presto verso il Campidoglio per far sentire pacificamente e patriotticamente la vostra voce”.
Sono state recitate parti del discorso di Trump in cui affermava esplicitamente che lo scopo di marciare verso il Campidoglio era di “cercare di dare ai nostri Repubblicani – i deboli, perché i forti non hanno bisogno del nostro aiuto – il tipo di orgoglio e audacia di cui hanno bisogno per riprendersi il nostro Paese”, per fare “la cosa giusta”. Lungi dall’essere passaggi incriminanti, incoraggiare i propri sostenitori a “far sentire la propria voce” al Campidoglio è del tutto coerente – per quanto imprudente sia stato – con lo scopo di esercitare una pressione politica.
La super-testimone
Per non parlare di quella che anche i nostri media hanno presentato come “super-testimone”, Cassidy Hutchinson, ex assistente del capo dello staff del presidente Mark Meadows. Una super-testimone che non è stata direttamente testimone di nulla di ciò che ha raccontato, che è stata smentita dai diretti interessati e che era così sconvolta dalla condotta di Trump in quelle drammatiche ore del 6 gennaio da cercare di ottenere una posizione nel suo staff nei giorni successivi.
Impeachable
Diverso sarebbe, come osserva McCarthy, se la condotta dell’ex presidente in quei giorni fosse esaminata in un processo di impeachment, i cui parametri sono politici oltre che penali. Gli elementi per ritenerla “impeachable” non mancherebbero, mentre non c’è uno straccio di prova che sia penalmente rilevante come pretende la Commissione 6 Gennaio.
Si dà il caso però che mentre prosegue il processo-farsa contro Trump al Congresso, da una corte vera sia arrivato un verdetto che in qualche misura rende giustizia alle denunce dell’ex presidente – almeno alcune di esse – di irregolarità delle elezioni del 2020. Ce ne siamo occupati in questo articolo.