Corti internazionali obsolete: perché l’accusa di genocidio a Israele non regge

Giurisprudenza fortemente ideologizzata. Il terrorismo di Stato è una scelta aprioristica di istituzioni totalitarie, non dell’unica democrazia del Medio Oriente

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Solo pochi giorni fa il procuratore capo della Corte Penale Internazionale Karim Khan ha chiesto alla Camera preliminare del Tribunale di emettere mandati di arresto contro il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il suo ministro della difesa Yoav Gallant e per i capi di Hamas.

I capi di accusa che il procuratore della Corte dell’Aja ha formulato per Yahya Sinwar, Mohammed Diab Ibrahim Al-Masri (comandante in capo dell’ala militare di Hamas, le Brigate Al-Qassam), e Ismail Haniyeh fanno riferimento alla violazione degli articoli 7 e 8 dello Statuto di Roma e sono i seguenti: sterminio come crimine contro l’umanità; omicidio come crimine contro l’umanità e come crimine di guerra; presa di ostaggi come crimine di guerra; stupro e altri atti di violenza sessuale come crimini contro l’umanità e anche come crimini di guerra nel contesto della prigionia; tortura come crimine contro l’umanità, e anche come crimine di guerra, nel contesto della prigionia; trattamenti crudeli come crimine di guerra, nel contesto della prigionia; oltraggio alla dignità personale come crimine di guerra, nel contesto della prigionia.

Violazione ai medesimi articoli dello Statuto di Roma sono alla base della richiesta del mandato di arresto per Netanyahu e Gallant che si sviluppa nei seguenti capi di accusa: affamare i civili come metodo di guerra e come crimine di guerra; aver causato intenzionalmente grandi sofferenze, o gravi lesioni al corpo o alla salute; trattamenti crudeli come crimine di guerra; uccisione intenzionale o omicidio come crimine di guerra; attacchi intenzionalmente diretti contro una popolazione civile come crimine di guerra; sterminio e/o omicidio, anche nel contesto di morti per fame, come crimine contro l’umanità; persecuzione come crimine contro l’umanità, altri atti inumani come crimini contro l’umanità. Questi i fatti.

L’equivalenza Israele-Hamas

Poco conta che la richiesta d’arresto debba essere ancora ratificata. La bomba politica è scoppiata. Per quanto sia noto che la CPI abbia il limite di poter agire solo nei confronti di persone fisiche e non di Stati o organizzazioni a diverso titolo interessate, suscita stupore che – per la prima volta nella storia di questa Corte – si siano messi sullo stesso piano rappresentati di uno Stato, riconosciuto nel consesso delle Nazioni Unite, ed una organizzazione politica che, statutariamente, esalta la violenza.

Come ovvio entrambe le parti protestano la propria innocenza: una fonte politica israeliana – citata da Ynet – ha definito la richiesta del procuratore capo della CPI di richiedere l’emissione di mandati di arresto contro il primo ministro Netanyahu e il ministro della difesa Gallant “ipocrisia e vergogna internazionale”. Una fonte di Hamas – citata dai media internazionali e ripresa da Haaretz – ha detto che la decisione della CPI “mette sullo stesso piano la vittima con il carnefice”. Il fatto che entrambe le parti abbiano gridato allo scandalo dimostra quanto sia pilatesca la decisione di Khan.

I limiti della CPI

Altrettanto ovvio che – a livello internazionale – le cancellerie abbiano reagito secondo la posizione “geopolitica” tenuta dai diversi Stati, non senza imbarazzi. Pare che nessuno (a parte gli Stati Uniti, che non aderiscono alla CPI) voglia smentire la Corte e le sue decisioni, ma nessuno pare entusiasta di queste.

È un fatto che – come ha sottolineato l’Internazionale – la CPI, considerata un grande passo avanti al momento della sua nascita nel 2002, oggi rischia di diventare obsoleta. Il mandato d’arresto nei confronti Vladimir Putin non ha cambiato nulla nel conflitto ucraino, e lo stesso rischia di succedere con quello contro Netanyahu. Il futuro della CPI appare fosco e “residuale”.

Istituzione nata nell’illusione di una armonia internazionale generalmente condivisa, appare inadeguata ad affrontare la rinascita di una logica di confronto, dove la guerra torna ad essere strumento “effettivo” e credibile della politica. Dato certo è che in Israele si è fatto quadrato attorno al primo ministro, a prescindere dai dubbi sul suo operato.

Ma quello che rilevano tutti i sondaggi è che, se anche avvenisse una marginalizzazione politica di Netanyahu, sostituito da Benny Gantz o da uno dei suoi principali avversari politici, il conflitto con Hamas continuerebbe; non si è in grado di prevedere il suo livello di intensità, ma si può essere certi che l’IDF non dirà: “scusate ci siamo sbagliati!”. Prova di questo è che l’Autorità Nazionale Palestinese – a parte alcuni richiami ai diritti del popolo palestinese – non si è certo spesa a favore di Hamas – anzi – e che il tasso di violenza in atto in Cisgiordania è estremamente basso.

I limiti politici e concettuali che sottendono la decisione del procuratore Khan risiedono sia nell’adesione ad una giurisprudenza fortemente ideologizzata (cioè nell’applicazione di filosofie che equiparano i differenti attori politici nelle loro finalità), sia nelle conseguenze provocate. Se da tempo gli Stati Uniti cercavano di fare pressioni sul governo israeliano affinché rivedesse le modalità delle azioni sul campo, ecco che la decisione del procuratore capo della CPI ha – ipso facto – riallineato Washington a Gerusalemme.

Parimenti la decisione di Irlanda, Norvegia, Spagna di riconoscere lo Stato palestinese è apparsa a molti, in sede europea, una emotiva “fuga in avanti”. Quali confini avrebbe questo Stato? Quelli della risoluzione 242? Cioè quelli che Arafat rifiutò quando gli vennero offerti da Barak nel 2000? Quei confini – sciaguratamente rifiutati – non sono più credibili a causa dell’aumento di insediamenti israeliani in quell’area, che non potranno essere smantellati tutti. Poi questi territori da chi dovrebbero essere governati? È certo che la comunità internazionale avrebbe difficoltà ad accettare una autorità politica ufficiale espressa da Hamas, patentemente troppo instabile.

Il “democidio”

A spingere ad una riflessione più seria è il fatto che siano stati messi sul medesimo piano uno Stato sovrano ed una “polity”. Innanzitutto vi è un segnale dei tempi. Fino alla metà del Novecento lo Stato era l’attore politico per antonomasia, depositario del potere Domi militiaeque assoluto, mitigato, semmai da proprie regole interne e dal riconoscimento dei propri limiti nell’ambito della gestione del potere e, fino alla carta del 1945 (ed in buona parte anche dopo), hobbesianamente, superiorem non recognoscens.

Ora esso è in confronto con attori “fluidi” portatori di valori ed interessi che nulla hanno a che fare con la classica conservazione o alterazione dello status quo dell’arena mondiale tipica dell’entità statale, così come venne studiata da Fred C. Iklé (“Every War Must End”, 1991). In ambito accademico stimolanti, ma non privi di insidie sono gli studi di Rudolph J. Rummel sul “terrorismo di Stato” (“Stati assassini”, 2005 tit. orig. “Death by Government”, 1994). La sua teorica si esprime nell’assioma “Il potere uccide; il potere assoluto uccide assolutamente”.

Da qui la convinzione – oggettivamente dimostrata – che gli Stati, massimo vertice storico della concentrazione-centralizzazione del potere, sono “industrie del massacro”, se è vero che nel XX secolo hanno ucciso, non in guerra, circa 174 milioni di persone e di propri cittadini. Ne consegue la teoria del “democidio”, uccisione intenzionale e a sangue freddo di persone disarmate da parte dei governi che appare essere la chiave di volta per comprendere la natura del Leviatano statale e la sua incomparabile pericolosità.

Rummel pone un freno alla sua ricerca concludendo che la democrazia è la forma di governo che è meno probabile uccida i propri cittadini e che le democrazie non fanno mai (o praticamente mai) la guerra tra di loro.

L’accusa di genocidio

Sulla stessa linea compare Luciano Pellicani – che promosse la traduzione di Rummel nella collana di Rubettino, da lui curata – nella voce “Terrorismo” (1998) per Treccani. Il terrorismo da parte di “polity” – più semplice nella sua identificazione e percezione – avviene quando un gruppo organizzato a immagine e somiglianza di un esercito clandestino contesta la legittimità dell’ordine esistente.

Nel caso di specie, innescato dal procuratore Khan, buon ultimo si pone Alessandro Orsini che nel suo recente instant book sostiene che Israele sia “uno Stato terrorista perché presenta le caratteristiche fondamentali degli Stati del terrore […]. L’osservazione sociologica mostra chiaramente che Israele opera attraverso le proprie istituzioni per imporre ai palestinesi di vivere nel terrore”.

Dimenticandosi che il modello proposto dai suoi “mentori” è che il terrorismo di Stato è una scelta aprioristica di istituzioni totalitarie e che Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente, difettosa, certo, ma quale democrazia non lo è? Insistendo su questo ragionamento volutamente parziale e scientifico solo nel linguaggio, Orsini prosegue: “Siccome Israele non può distruggere Hamas direttamente, allora usa il terrorismo di Stato contro gli abitanti di Gaza che, in base al punto di vista israeliano, sostengono Hamas. Israele uccide i civili a Gaza per ridurre il sostegno popolare verso Hamas. Israele cerca di indebolire Hamas indirettamente: ecco perché si chiama teoria della guerra indiretta”.

Qui si dimentica e così non tenne in cale Khan che – forzando all’estremo – quasi ogni episodio bellico diventa – nei fatti “criminale”. Per quanto si cerchi di applicare in modo rigoroso uno ius in bello è ovvio che in un campo di battaglia urbano (Gaza), soprattutto quando una delle forze utilizza come scudi civili e infrastrutture sensibili (ospedali, scuole ecc. ) come rifugio e come piattaforma per sistemi d’arma (cosa vietata dal diritto internazionale) il quadro non può non moltiplicarsi e la popolazione civile non può essere tenuta fuori dal contesto bellico.

Dimostrazione che Israele non può essere accusato di genocidio (mentre Hamas sì) è la constatazione che in Israele l’arabo è lingua a statuto speciale e che dei 9.656.000 israeliani 2.070.000 sono arabi (in costante aumento) ed essi non sono sottoposti ad apartheid, tanto da essere arruolati nell’IDF.

Se il Tribunale dell’Aja dovesse indagare su ogni conflitto non vi sarebbe leader politico innocente. Quello che conta – nel presente e nel passato – è la percezione dei fatti, più che i fatti stessi. È un fatto che nel periodo ’43-’45 le vittime civili italiane dei bombardamenti alleati (39.000) fu superiore a quelli delle vittime della violenza nazi-fascista (37.000). Ciò non toglie che tutti noi sappiamo chi furono i liberatori e chi i criminali agli occhi della storia.

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