Un vecchio adagio dice: “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”. La saggezza popolare sembra essere confermata dalle prime nomine annunciate da Donald Trump.
Determinato ad evitare i ripensamenti dello scorso mandato (si pensi ad esempio a Mike Pence e John Bolton, poi scaricati senza troppi complimenti), il neoeletto presidente degli Stati Uniti sta procedendo ad affidare incarichi di punta a persone di provata fede MAGA.
Musk e Ramaswamy
Non ha bisogno di alcuna presentazione Elon Musk. L’uomo di Tesla, Starlink e Space X, che ha trasformato il Twitter della censura democratica in X, amico di Trump e grande finanziatore della sua campagna elettorale, andrà a ricoprire il ruolo di capo dell’appena istituito Department of Government Efficiency (un organo consultivo esterno al governo), assieme a Vivek Ramaswamy, già avversario di Trump alle ultime primarie dei Repubblicani.
La missione è chiara: portare alle stelle non l’uomo, ma l’efficienza organizzativa delle istituzioni americane, tagliando costi a più non posso, eliminando regolamenti, semplificando procedure.
Rubio segretario di Stato
Volto molto noto al pubblico americano, forse un po’ meno a quello europeo, è Marco Rubio, fresco di nomina al ruolo di Segretario di Stato, posizione che a suo tempo fu ricoperta da Henry Kissinger durante la presidenza di Nixon e Ford.
Figlio di immigrati cubani, un record di presenze alle sedute del Senato, scettico sulla teoria del riscaldamento globale indotto dall’uomo, grande oppositore dell’Obamacare, Rubio si è col tempo avvicinato alle idee di Trump, ammorbidendo le precedenti posizioni interventiste in politica estera che lo avevano spinto ad appoggiare l’invasione dell’Iraq nel 2003 e guadagnandosi una reputazione di pragmatico.
Sarà interessante vederlo all’opera nel caso della guerra russo-ucraina: per quanto Rubio abbia criticato ferocemente l’invasione organizzata da Putin, ha ammesso che la situazione è a un punto morto, di fatto prendendo in considerazione la fine della guerra in cambio di qualche concessione alla Russia. [1]
L’impressione è che Trump lo abbia scelto per mostrare i muscoli in politica estera quando serve, così da equilibrare il proprio non interventismo, e portare a casa il risultato migliore senza impantanarsi in interventi militari costosi e impopolari.
Una miscela sapiente di grosso bastone e carota, forse pensata per gestire con intelligenza la sfida posta dalla Cina, di cui Rubio è uno dei più forti critici, tanto da essersi guadagnato non meglio precisate sanzioni da parte del regime di Pechino [2, 3].
Con questa nomina, Trump potrebbe mostrare di avere in testa un’idea precisa di politica estera: arrivare ad accordi e compromessi separati con alcuni attori (Russia, Cina) e metterne sotto pressione altri, come l’Iran, per evitare il consolidamento di un asse anti-americano.
Ratcliffe per la CIA
John Ratcliffe è la scelta di Trump come prossimo capo della CIA. Ultraconservatore texano, fama di cattivo quando si tratta di Cina e Iran, è un forte critico della politica estera di Biden, da lui considerata troppo tiepida nel sostegno ad Israele e non abbastanza dura nei confronti del regime di Teheran.
È stato accusato dai Democratici di aver desecretato, in qualità di Director of National Intelligence, alcuni documenti riservati allo scopo di danneggiare Biden durante le presidenziali del 2020. [4]
La prima donna capo dello staff
Trump sarà sicuramente un misogino che vede le donne unicamente come oggetti sessuali da portarsi a letto, fatto sta che è il primo presidente americano a nominare una donna come White House Chief of Staff, un ruolo vagamente paragonabile a quello del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio italiano.
Si tratta di Susie Wiles, una distinta signora di 67 anni, abituata a dirigere i lavori dietro le quinte e a stare lontana dai riflettori, così riservata da non voler prendere la parola nemmeno durante il discorso in cui Trump ha annunciato la propria vittoria.
Alle dirette dipendenze di Wiles ci sarà Stephen Miller, nel ruolo di White House Deputy Chief of Staff, vale a dire occhi e orecchie del presidente a supervisionare il funzionamento della burocrazia alla Casa Bianca.
Classe 1985, Miller è dichiaratamente conservatore fin dall’adolescenza, al punto di aver pubblicamente criticato la sua stessa scuola per non aver fatto recitare agli studenti il Pledge of Allegiance, il giuramento di fedeltà alla bandiera a stelle strisce, ancora richiesto in gran parte delle scuole pubbliche americane [5]. Autore di diversi discorsi pronunciati da Trump, viene indicato come un fautore del populismo stato-nazione.
Certa è la sua ferma opposizione all’immigrazione e la sua convinzione di limitare l’accettazione delle richieste di asilo politico, tanto da aver ribadito pubblicamente che l’America è solo per gli americani, in una trasposizione in chiave nazionalista-identitaria dell’America First alla base del movimento MAGA, solitamente associato ai dazi a protezione dei posti di lavoro per gli statunitensi. Quello dell’immigrazione è quindi un tema particolarmente caro a Miller, sul quale è stato consigliere presidenziale durante il primo mandato di Trump.
Lo Zar del Confine
Tema molto sentito anche da Tom Homan. Faccia da sbirro duro e di poche parole, che ben si adatta ai suoi trascorsi in polizia, è l’uomo che Trump ha scelto come Border Czar, responsabile del progetto di deportare 11 milioni di clandestini, a cominciare da coloro che hanno commesso reati e da quelli la cui richiesta di asilo politico è stata respinta, così come promesso in maniera insistente e ripetitiva da Trump stesso in campagna elettorale.
Homan ha confermato di che pasta è fatto, rivolgendosi nel corso di un comizio direttamente ai clandestini: “Preparatevi a fare le valigie” [6]. Ha rincarato la dose, rispondendo con la massima naturalezza e senza battere ciglio ad una giornalista che gli chiedeva se ci fosse un modo di procedere a deportazioni di massa senza separare le famiglie: “Certo che c’è. Si possono deportare le famiglie tutte assieme” [7].
Un approccio senza dubbio duro e militaresco, da parte però di un uomo che certamente conosce il problema. Homan è stato infatti direttore con Barak Obama e nella prima amministrazione Trump dell’agenzia federale preposta all’immigrazione e alla sicurezza delle frontiere. Si è distinto nella sua dedizione alla caccia al clandestino al punto da ricevere una medaglia presidenziale proprio durante l’amministrazione di Obama, a sua volta uno dei presidenti più zelanti nell’espulsione di immigrati illegali dal suolo americano, come rimproverato dalla pubblicazione online di sinistra Mother Jones [8].
Una dura alle Nazioni Unite
Ad Elise Stefanik toccherà invece il ruolo di ambasciatore degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite. Nota per il suo impegno con i Repubblicani fin dalla gioventù, per le sue forti posizioni anti-abortiste e per l’opposizione agli obblighi vaccinali contro il Covid nelle aziende private, si è invece mostrata più moderata su temi quali immigrazione e matrimoni omosessuali.
Non sembra però fare sconti quando si tratta di antisemitismo, palese o sospetto: la più giovane donna ad essere eletta al Congresso nel 2014, si è guadagnata recentemente le luci della ribalta facendo passare durante un’audizione parlamentare un terribile quarto d’ora a Claudine Gay, rettore, poi dimessasi, dell’Università di Harvard [9]. Gay, a chi le chiedeva se incitare allo sterminio degli ebrei fosse ammissibile secondo le regole dell’università, aveva ambiguamente risposto: “Può darsi, dipende dal contesto”.
Huckabee in Israele
Altro grande amico degli ebrei è Mike Huckabee, prossimo ambasciatore americano a Gerusalemme. Ex governatore dell’Arkansas, posto ora occupato dalla figlia Sarah, e già avversario di Trump alle primarie repubblicane del 2016, presenza costante nelle tv americane come testimonial di pillole contro l’insonnia, Huckabee è un cristiano evangelico ed ex pastore della chiesa battista.
Contrario all’aborto e all’Obamacare, ostile alla tesi che attribuisce all’uomo la causa dei cambiamenti climatici, sembra essere una figura popolare presso l’elettorato afro-americano (non si dimentichi che furono i Democratici i fautori della segregazione razziale nel sud degli Stati Uniti). Se da una parte non fa mistero di avere amici gay, dall’altra paragona l’omosessualità all’ubriacarsi e a bestemmiare.
Sulla questione mediorientale non ha peli sulla lingua: “Non esiste alcuna Cisgiordania, si chiama Giudea e Samaria. Non ci sono colonie, ci sono città. Non c’è nessuna occupazione” [10].
Parole che certamente faranno enorme piacere ad un grande alleato di Trump, Benjamin Netanyahu, e che sembrano sancire un abbandono da parte americana del principio della soluzione a due stati.
I prossimi anni saranno fondamentali per capire se Donald Trump sarà in grado di far digerire l’idea anche al principe ed erede al trono saudita Mohammed Bin Salman, con cui è in ottimi rapporti [11], con una possibile inclusione dell’Arabia Saudita negli Accordi di Abramo.