Cosa fare di Gaza: i piani per il giorno dopo la liberazione da Hamas

Né un conflitto arabo-israeliano, né rischio pulizia etnica. L’ipotesi di un mandato internazionale su Gaza con il coinvolgimento di Stati arabi amici

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Israele può vincere l’assedio di Gaza a tre condizioni: militare, umanitaria, politica. La prima non è di nostra competenza, della seconda abbiamo già scritto, qui ci concentriamo sulla terza.

Cosa fare di Gaza?

Il tema è cosa fare di Gaza, dopo che Israele avrà vinto la guerra mossale da Hamas: il piano del giorno dopo. Ne discutono alcuni articoli apparsi, ad esempio, sul francese Le Figaro, l’emiratina Al Arabiya, il washintoniano Foreign Affairs. E già ne discutono perché, quanto più favorevole sarà la promessa politica fatta ai palestinesi di Gaza, tanto più velocemente Hamas sarà costretta alla resa.

Fondamentalmente, si tratterebbe di trasferire il controllo della Gaza liberata da Hamas, ad una o più potenze mandatarie. Preferibilmente arabe, da scegliersi fra gli ottimi amici che Usa e Israele hanno nella regione: Egitto, Giordania, Arabia Saudita ed altri.

Ciò che potrebbe stupire solo chi ancora si attarda a blaterare di un conflitto arabo-israeliano, come vivessimo ancora negli anni ’70 del secondo scorso. Dice Gérard Araud che oggi Israele ha ottimi rapporti con tutti i suoi vicini arabi: i quali nutrono una forte ostilità nei confronti di Hamas, in quanto imparentata alla loro opposizione interna, genericamente nota come Fratelli Mussulmani.

Le monarchie del Golfo, ad esempio, “mostrano nei fatti la massima indifferenza nei confronti della causa palestinese”, in quanto “la base delle relazioni internazionali è che il nemico del mio nemico è mio amico. Il nemico comune di Israele e dell’Arabia Saudita è l’Iran”. Non per nulla, l’unico vicino arabo ostile è Hezbollah, che fa capo all’Iran.

Avigdor Lieberman

Tale proposta non è nemmeno originale, bensì già discussa al tempo delle precedenti crisi di Gaza, intervenute quasi ogni quattro anni dalla fine dell’occupazione israeliana, nel 2005: la guerra di Gaza del 2008-2009, quella del luglio 2014, quella del novembre 2018, gli scontri del maggio 2021 e, ora, la guerra del 2023.

Chiamiamo a testimonianza Avigdor Lieberman: da sempre propugnatore della rioccupazione totale, onde provocare la caduta di Hamas. Nel 2014 egli, allora ministro degli esteri, faceva saper che, una volta cacciata Hamas, “dobbiamo pensare alla possibilità di affidare la gestione della Striscia di Gaza all’Onu. Non escludo assolutamente questa opzione”. E, nel 2018, si dimetteva da ministro della difesa per protesta contro l’ennesimo cessate-il-fuoco concesso da Netanyahu ad Hamas.

Lieberman è un politico che non gode di buona stampa. Ma, a posteriori, conviene riconoscergli una lucidità maggiore rispetto a quella di un Netanyahu che ha preferito accomodarsi nella regolarità della tragedia gestendo, di volta in volta, le successive esplosioni.

Il ritorno allo status quo, una scemenza

Ciò che Netanyahu certamente non calcolava, era l’inattesa complessità e l’innegabile successo tattico dell’ultima operazione dell’esercito miliziano di Hamas: tanto in termini di macello dei civili israeliani, quanto di presa degli ostaggi.

Naturalmente, la risposta a tali vistosi crimini di guerra potrebbe venire in forma di un blocco ancora più stretto, dentro il quale “il controllo di Gaza passerebbe presumibilmente ai signori della guerra o ad un’organizzazione succeduta ad Hamas, che possa governare sulle macerie ma non essere in grado di uccidere gli israeliani”.

Almeno nel breve periodo, perché “dopotutto, Hamas ha acquisito un arsenale e ha costruito un’estesa rete di tunnel nonostante i severi controlli israeliani e la stretta sorveglianza di Gaza”. Foreign Affairs definisce un simile soluzione come “una versione più cupa dello status quo ante, solo con molte più persone morte da entrambe le parti e le infrastrutture vitali di Gaza polverizzate”.

Condivide l’emiratina Al Arabiya: “chiaramente, la politica di no-policy di Israele nei confronti di Gaza ha portato direttamente a ripetuti cicli di intensa violenza, a partire dal 2008. Qualunque cosa accada a livello militare, Israele dovrà comunque affrontare la domanda che ha sempre evitato in passato, ovvero come potrebbe essere un accordo stabile e duraturo dentro e per Gaza”.

Insomma, il ritorno allo status quo sarebbe una scemenza, il disvelamento della quale dà infine ragione a Lieberman: Gaza deve essere liberata e consegnata ad un mandato internazionale non israeliano.

Mandato diretto o indiretto

Le alternative presentate da Foreign Affairs, sono due: (I) la prima è una gestione temporanea diretta delle Nazioni Unite, che si concluda con la riconsegna alla Autorità Nazionale Palestinese (ANP).

L’autorevole rivista, però, ammette che “sarà difficile convincere Israele, dove la sfiducia nei confronti dell’Onu è profonda” e “si tratterebbe di un’impresa enorme per l’Onu, la cui capacità istituzionale è già messa a dura prova, gravata da una burocrazia rigida e complicata”.

(II) Perciò offre una seconda alternativa: una gestione temporanea indiretta delle Nazioni Unite. Un gruppo di contatto (Israele, Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Ue, Onu e ANP) che venga autorizzato dall’Onu a “organizzare un’amministrazione transitoria per Gaza”. In altri termini, un mandato.

In entrambe le alternative – scrive Foreign Affairs – gli Arabi amici ricchi ci metterebbero i soldi, in particolare l’Arabia Saudita: “non solo ha i fondi per fare la differenza, ma la sua partecipazione conferirà all’impresa anche legittimità regionale”. Senza contare i soldi che potrebbero venire dalla rendita gasiera, che si dice potenzialmente ingente.

Gli Arabi amici poveri ci metterebbero i 10.000 o più soldati: “la funzione primaria delle forze di pace sarebbe quella di polizia. La forza stessa dovrebbe includere truppe provenienti dagli Stati arabi, in parte per ridurre al minimo le barriere linguistiche ma anche per rafforzare l’idea che la missione è guidata da arabi”. Ciò che appare decisamente possibile in virtù dei menzionati ottimi rapporti di Israele con tutti i suoi vicini arabi ed autoritari.

Un mandato per i due Stati

Il problema, semmai, è un altro: entrambe le alternative si concludono con la riconsegna di Gaza alla ANP. Con le parole di Foreign Affairs, entrambe hanno “l’obiettivo politico di far rivivere una moribonda ANP”. Con una triplice motivazione:

  • anzitutto, “ripristinando l’amministrazione dell’ANP a Gaza, verrebbe preservata anche la possibilità della soluzione dei due-Stati, che ormai appare irraggiungibile”;
  • in secondo luogo, se non venisse salvaguardata la soluzione a due-Stati, “Cina e Russia, membri permanenti del Consiglio di Sicurezza con diritto di veto, potrebbero ostacolare una risoluzione”;
  • in terzo luogo, se non venisse salvaguardata la soluzione a due-Stati, “i Paesi arabi saranno riluttanti a partecipare a un simile piano del giorno dopo”.

Ostacoli ai due Stati

L’autorevole rivista, però, ammette un ostacolo maggiore, che l’inclusione della ANP metterebbe sul tavolo pure il tema della Cisgiordania: “molti Stati arabi … potrebbero chiedere a Israele di fare concessioni territoriali e di fermare la costruzione di insediamenti in Cisgiordania”. Infatti, l’accordo dovrebbe – oltre ad “organizzare un’amministrazione transitoria per Gaza” – pure “sviluppare un piano per le elezioni in Cisgiordania e Gaza”.

E questo sarebbe un bel problema, in quanto “Israele potrebbe esitare alla prospettiva di fare tali concessioni”. Per esemplificare, basti pensare alla questione di Gerusalemme, richiamata da Araud: “la monarchia saudita dichiara di voler dimostrare la sua legittimità in quanto custode dei luoghi santi. Tuttavia, il terzo luogo sacro dell’Islam è Gerusalemme … Per l’Arabia Saudita, questo rappresenta una sfida delicata ed essa potrebbe, quindi, chiedere un prezzo elevato per il suo sostegno o riconoscimento”.

E questo particolare, da solo, destina la soluzione proposta da Foreign Affairs al novero delle proposte di realizzazione impossibile.

Lo sa bene l’emiratina Al Arabiya, che si porta avanti col lavoro: “ora, la domanda è: che tipo di governo emergerà a Gaza dopo la guerra … ciò potrebbe comportare un maggiore controllo per l’ANP con sede a Ramallah, qualche nuova governance locale, un governo sotto la tutela dell’esercito israeliano o, forse, una coalizione di Stati arabi … Israele e gli Stati arabi sono strategicamente allineati su Gaza”.

Un mandato per i tre Stati

La rivista americana cerca di difendersi, argomentando che solo una soluzione veramente ambiziosa potrebbe interessare l’amministrazione Biden, alla ricerca di un grande successo diplomatico, da spendere nelle prossime elezioni presidenziali contro il favorito Trump.

Ma dubitiamo Biden non possa farsi forte anche di un accordo dalle ambizioni più piccole, se realizzabile. In particolare, un mandato internazionale che assicuri sì, agli Arabi amici, il governo temporaneo della Gaza liberata da Hamas e i fondi per la ricostruzione di quella … ma senza prevederne univocamente la consegna a termine alla ANP.

Per esempio, prevedendo che l’amministrazione mandataria, dopo alcuni anni, organizzi un plebiscito che consenta agli abitanti di Gaza di scegliere fra la riunione con l’ANP e l’indipendenza: i due-Stati (Israele-ANP) contro i tre-Stati (Israele-ANP-Gaza). Senza escludere che il terzo Stato, quello di Gaza, accetti il protettorato degli Stati arabi mandatari.

Ciò consentirebbe di portare velocemente a termine la trattativa nel gruppo di contatto: abbastanza velocemente da costringere Hamas alla resa, prima che l’ultimo civile palestinese di Gaza sia morto o costretto alla evacuazione. Pure Biden potrebbe ben accontentarsi, né gli sarebbe difficile vendere un accordo dalle ambizioni più piccole come il grande successo diplomatico che esso, in effetti sarebbe.

Certo, Russia e Cina potrebbero opporsi. Ma, in tal caso, al gruppo di contatto basterà trasformarsi in coalizione dei volonterosi: procedere, risolvendo il problema del qui e subito, solo rinviando la sanzione Onu a babbo morto. In ogni caso, non si tratterebbe di una costruzione giuridica più illegale dell’attuale Stato-di-fatto, che Hamas ha instaurato a Gaza dal 2007.

Il governo israeliano

Incerto è cosa ne pensi il governo israeliano. Intanto riguardo al mandato internazionale. Certamente contrario è, in cuor suo, Benjamin Netanyahu, ostinato nella difesa dello status quo al di qua del fiume Giordano. Alla sua scuola sembra iscriversi il ministro degli esteri Eli Cohen, quando dice: “alla fine di questa guerra, non solo Hamas non sarà più a Gaza, ma anche il territorio di Gaza diminuirà”, con evidente riferimento ad un blocco ancora più stretto.

Mentre, piuttosto favorevoli paiono altre parti della destra, come dimostra il citato Lieberman. Ai fini del mandato, non guasta che il precedente governo Netanyahu sia stato sostituito da uno di coalizione di emergenza, includente politici meno ostinati di lui.

Molto favorevole l’unico politico rilevante rimasto fuori dal governo di unione nazionale, Yair Lapid: sia quanto alla diagnosi (“non ci fermeremo finché Hamas non se ne sarà andata, e allora ci sarà lì un vuoto di governo”), che quanto alla prognosi (“la strategia di uscita dovrebbe essere aiutare la comunità internazionale”).

In secondo luogo, cosa ne pensi il governo israeliano è incerto pure riguardo alla destinazione del mandato internazionale.

Il citato Lapid precisa: “aiutare la comunità internazionale ad aiutare l’ANP ad assumere il controllo”. Quindi, intende rafforzare l’ANP. E tale pare essere pure l’opinione delle altre opposizioni, ad esempio Nitzan Horowitz del Meretz: “quello che sta accadendo è anche un fallimento della politica di Netanyahu … la dottrina di Netanyahu era di rafforzare Hamas pagando all’organizzazione milioni di dollari ogni mese, per cercare di creare un cuneo tra i palestinesi di Gaza e quelli della Cisgiordania”.

Al contrario, Lieberman si era tenuto sul vago. Come lui potrebbero essere altre parti della destra. Quanto a Netanyahu, precisamente poiché la sua politica è creare un cuneo tra Gaza e Cisgiordania, egli è l’ultima persona al mondo che insisterebbe a destinare il mandato internazionale alla riconsegna di Gaza alla ANP.

Conclusioni

Insomma, non solo non siamo in presenza di alcun conflitto arabo-israeliano, bensì una guerra fra Hamas e Israele. Ma neppure siamo in presenza del rischio di pulizia etnica. Gaza liberata da Hamas tornerebbe ai suoi abitanti, attraverso un mandato internazionale. Solo, non necessariamente in forma di provincia dello Stato della ANP, bensì magari in forma di stato indipendente, magari sotto protettorato di qualche Stato arabo.

Tanto più velocemente una simile promessa politica verrà fatta ai palestinesi di Gaza, tanto più velocemente Hamas sarà costretta alla resa.

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