È difficile, al momento, vedere dove la politica tariffaria di Trump possa andare a finire, se non nel caos. Voler reindustrializzare l’America e rinegoziare accordi commerciali, magari eliminando le barriere non tariffarie (iper-regolamentazione, cattive condizioni di lavoro, normative ambientali lassiste), è un obiettivo meritevole, ma richiederebbe una strategia precisa e disciplinata, sia nell’esecuzione che nel messaggio, non la confusione che arriva in questo momento dalla Casa Bianca.
Dazi permanenti?
In primo luogo, non è così chiaro che i dazi del “Liberation Day” siano, come molti pensano, solo una tattica negoziale. I segnali provenienti dall’amministrazione Trump sono poco chiari e a volte contraddittori, ma spesso indicano che la Casa Bianca ritiene che i dazi siano in realtà una buona cosa, e destinati a rimanere per sempre.
Il segnale più immediato in questa direzione è il modo assurdo in cui sono stati calcolati: sulla base dei deficit commerciali. L’ossessione di Trump per quest’ultimi è estremamente problematica. Trump sembra credere che importazioni ed esportazioni debbano essere perfettamente bilanciate. Una proposizione in pratica impossibile, come capisce chiunque abbia anche solo un’infarinatura di economia.
Gli alleati
Il segnale più evidente che per Trump il “Liberation Day” non riguarda rinegoziare gli accordi per arrivare a zero dazi viene dalla sua attitudine nei confronti di chi la mossa di azzerare i dazi l’ha già fatta. Argentina e Israele avevano già azzerato i dazi sulla importazioni americane al momento in cui è stato varato il “Liberation Day”; in entrambi i casi, Trump gli ha applicato tariffe lo stesso.
Quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è recato a Washington, si è dichiarato disposto a lavorare con gli Stati Uniti anche per bilanciare importazioni ed esportazioni (non si sa bene come). La risposta di Trump è stata: “forse”, “vedremo”.
Il che porta a chiedersi, se né l’azzeramento delle tariffe, né il bilanciamento dei commerci sono sufficienti, cosa vuole Trump? Forse si può dedurre dalla risposta di Trump alle prime proposte di azzerare le tariffe provenienti dall’Unione europea. Non è sufficiente, dice Trump:
L’Ue è stata molto dura nel corso degli anni. Dico sempre che è stata creata proprio per danneggiare gli Stati Uniti nel commercio, questo è il motivo per cui è stata creata. Abbiamo un deficit di 350 miliardi di dollari con l’Unione europea, e questo deficit è destinato a scomparire rapidamente. Uno dei modi in cui questo deficit può scomparire facilmente e rapidamente è che saranno costretti ad acquistare la nostra energia perché ne hanno bisogno.
Una concezione imperiale
Trump sembra vedere il commercio come un gioco a somma zero, in cui una delle due parti viene “fregata” dall’altro. Ritiene che per molti anni siano stati fregati gli Stati Uniti, e adesso pare chiedere un indennizzo.
O peggio, Trump sembra quasi pensare che l’America sia un impero al quale i clienti stranieri devono tributo. Sembra che, quasi come un imperatore della dinastia Ming dell’antica Cina, consideri il commercio non come qualcosa di reciprocamente vantaggioso, ma come una concessione ai barbari, per la quale bisogna pagare.
Ma l’America non è un impero, ma una nazione egemonica. La cui egemonia si basa in gran parte sulla funzione del dollaro statunitense come valuta di scambio internazionale. E questo funziona solo finché conviene a tutti.
Tasse e deficit
Sebbene sia sempre opportuno parlare di ridurre le tasse, eliminare l’imposta federale sul reddito a favore delle entrate generate dai dazi, come talvolta Trump sembra proporre, è un’operazione complessa, verosimilmente impossibile senza tagliare il budget federale in maniera drammatica, e soprattutto che sposterebbe l’onere fiscale dai ricchi alla classe media.
Sarei qui negligente se non sottolineassi anche che la politica tariffaria di Trump è molto probabilmente illegale. La Costituzione degli Stati Uniti è chiara: è il Congresso a regolamentare il commercio, non l’Esecutivo. Trump ha aggirato il problema dichiarando uno stato di emergenza nazionale. Definire gli ultimi 30 anni di politica economica, indipendentemente dal fatto che siano stati buoni o cattivi, una “emergenza nazionale” è ovviamente un abuso del concetto.
Il vittimismo MAGA
Più in generale, ultimamente si sentono molti discorsi strani e allarmanti negli ambienti MAGA. Argomenti come decrescita felice e autarchia, che portano davvero a chiedersi cosa stia succedendo. E per carità, non attacchiamo a dire che si tratta di “scacchi in 4D”.
Va anche detto che, sebbene la preoccupazione del popolo americano per il futuro della competizione economica con la Cina sia comprensibile, anzi tardiva, è in qualche modo inquietante sentire il popolo più ricco e viziato del pianeta, il cui Pil pro capite supera quello di quasi tutti gli altri, lamentarsi che il resto del mondo lo stia derubando. Questa mentalità da vittima che ha preso il sopravvento sul movimento MAGA è perniciosa.
La sfida della reindustrializzazione
Per quanto riguarda la reindustrializzazione, richiederà la costruzione di nuove fabbriche, un compito ora reso più difficile dai dazi, poiché la maggior parte dei macchinari industriali viene prodotta al di fuori degli Stati Uniti.
Supponendo che sia una buona idea per l’America tornare a produrre magliette e tostapane, ciò richiederebbe manodopera non qualificata, la maggior parte della quale ora è composta da immigrati. Il che contrasta con le politiche di Trump sull’immigrazione.
Anche le fabbriche ad alta tecnologia rappresentano una sfida, poiché gli Stati Uniti hanno anche una carenza di lavoratori qualificati in lavori tecnici. Ormai lì tutti sono laureati in teoria della danza lesbica e studi sul patriarcato.
Ma soprattutto, ci vogliono anni per costruire nuove fabbriche. Nel frattempo, il pubblico statunitense dovrà accettare un aumento dei prezzi al consumo. Come ha sottolineato Peter Schiff, il 98 per cento delle scarpe che indossano gli americani è prodotto all’estero. La produzione calzaturiera statunitense non può certo colmare il divario, e ci vorranno anni prima che recuperi, se mai ci riuscirà.
Probabilmente molte piccole imprese che contano per la loro sopravvivenza su importazioni a basso costo, tutte quelle piccole industrie di caffè, o che offrono sottoscrizioni online per kit da barba, falliranno.
La sfida con la Cina
Infine, se l’obiettivo dell’America è la competizione globale con la Cina, che senso ha dichiarare guerra commerciale al mondo intero? Alienare tutti non li spinge ancora di più nelle braccia della Cina?
L’incertezza
Al momento il caos è frenato dall’incertezza sulle reali intenzioni di Trump, aggravata dai messaggi confusi della Casa Bianca. La stessa incertezza sta però affondando il mercato azionario. Alla fine, man mano che il quadro si chiarisce, tutti dovranno fare la loro mossa. Trump forse pensa che tutte le mosse andranno nella sua direzione, ma non è necessariamente vero.
Anche a livello interno, Trump non ha il margine di manovra che pensa. La pressione dei dazi e il caos commerciale globale si faranno sentire sui consumatori statunitensi più prima che poi. L’economia è sempre ciò che decreta il successo o il fallimento di una presidenza. In questi tempi di polarizzazione, in cui il prossimo presidente sente il bisogno di stigmatizzare e annullare tutto ciò che ha fatto il precedente, una recessione economica rischia di condannare l’intera eredità di Trump.