Il 10 giugno il Wall Street Journal pubblica uno scoop dal titolo “Il brutale calcolo del capo di Gaza: lo spargimento di sangue dei civili aiuterà Hamas”. La notizia rimbalza da una redazione di giornale all’altra in tutto il mondo. Ecco che si palesa la corrispondenza tra Yahya Sinwar, il leader di Hamas a Gaza e la leadership del movimento all’estero.
Il costo umano
I documenti rivelerebbero importanti dettagli sulla strategia della resistenza palestinese. “Abbiamo gli israeliani esattamente dove vogliamo”, avrebbe affermato con sicurezza Sinwar in un messaggio, illustrando il suo approccio calcolato al conflitto. Questa affermazione sottolinea la sua convinzione che la preparazione strategica di Al-Qassam sia sufficiente per condurre e vincere la guerra di liberazione.
Non si sa dove – ora – si trovi Sinwar, ma si presume che si nasconda nelle profondità del labirintico sistema di tunnel di Hamas sotto Gaza. I messaggi riportati dal WSJ offrono uno sguardo raro nella mente dell’uomo che guida il pensiero di Hamas sulla guerra e suggeriscono una determinazione senza compromessi a continuare a combattere, indipendentemente dal costo umano: “Abbiamo gli israeliani esattamente dove vogliamo”. Al contempo l’entità della tragedia a Gaza è enorme.
Oltre 37.000 vite sono state perse, tra civili e terroristi. Il recente raid israeliano a Nuseirat, che ha provocato la morte di quasi 300 palestinesi, compresi quattro ostaggi israeliani, evidenzia l’impatto devastante sulle vite innocenti e la più ampia crisi umanitaria che travolge Gaza. Di fronte a questa realtà Sinwar risponde citando la storia e facendo riferimento alla lotta dell’Algeria contro il dominio coloniale francese.
Sarà lieto Alessandro Orsini a dire – con il suo linguaggio diversamente-accademico – che Israele sta perdendo la guerra perché “Israele ha ammazzato molti civili libanesi e palestinesi tutte le volte che non è riuscita ad ammazzare i militanti di quelle due organizzazioni. Non riuscendo a uccidere i guerriglieri, uccide i civili. Israele deve uccidere qualcuno”.
Le perdite di cui parla il leader di Hamas, però, non sono solo quelle dei civili palestinesi, anche la leadership di Hamas si è dichiarata pronta al sacrificio per la libertà. In un messaggio al leader politico Ismail Haniyeh, dopo la morte dei figli di Haniyeh per mano degli israeliani, Sinwar ha scritto che le loro morti e quelle di altri palestinesi avrebbero “infuso vita nelle vene di questa nazione, spingendola a risorgere verso la sua gloria e onore”.
Strategia nota da decenni
Hanno un bel dire – commentando il rapporto del WSJ – le Forze di Difesa Israeliane (IDF) nel rilevare su X che “Sinwar trae profitto dalla morte dei civili di Gaza, definendoli “sacrifici necessari” al fine di sollecitare pressioni internazionali sugli sforzi di Israele per eliminare la sua organizzazione terroristica”. Quale novità? Da decenni – non solo dall’ottobre 2023 – è noto che postazioni missilistiche e di artiglieria sono poste, nella striscia di Gaza, sopra scuole, ospedali, abitazioni o su qualunque struttura civile possibile.
Nonostante questa consolidata evidenza ecco che sempre l’ineffabile Orsini – e con lui legioni di “anime” tanto “belle”, quanto stolide ed opportunistiche, puntano il loro dito affermando: “i soldati israeliani sono terroristi, sono la feccia del mondo”.
Ciò che fa più orrore in questa vicenda è il consapevole e cinico uso che Sinwar fa della popolazione civile. Con poche, ma oneste parole egli ha fatto “carne di porco” di secoli di convenzione di guerra. Pur assodato il fatto che in una guerra asimmetrica, come è sempre un conflitto tra uno stato ed un movimento insurrezionale, l’interazione tra “combattenti” e “non combattenti” sia differente a quello all’interno di guerre fra stati, qui siamo al parossismo.
Se da un lato non sfugge il fatto che in un territorio piccolo – come quello intorno a Gaza – non vi possono essere strutture e impianti militari ben separati da quelle civili, dall’altro è altrettanto evidente che utilizzare i civili – spesso volutamente partecipi – come scudi umani ha il duplice scopo sia di limitare l’azione del nemico, sia di massimizzare l’elemento propagandistico, nel caso un attacco subito avesse provocato la morte di “innocenti”. Certo è che l’IDF stia agendo con estrema durezza, come da mandato politico, ma non perseguendo una logica di “sterminio”, cosa che sarebbe molto semplice da attuare.
Le convenzioni di guerra
Nella tradizione occidentale, dall’antica Grecia in poi – con importanti eccezioni – ma soprattutto dalla fine della Guerra dei Trent’anni (1648) si sono sviluppate delle regole del gioco, ben analizzate da Michael Walzer (“Just and Unjust Wars”, 1977) conosciute con il nome latino di jus in bello, tese a rendere meno devastanti gli effetti della guerra stessa, evitando il bellum omnium contra omnes delimitando le ostilità sia dal punto di vista della durata, sia dal punto di vista della tollerabilità materiale e morale.
Lo sviluppo di rutilanti e ben visibili uniformi a partire dal XVIII sec. affondava la sua motivazione nella necessità di essere visibile la differenza tra la comunità combattente e quella “civile”. Si deve ricordare che possono essere riconosciuti quattro limiti ai quali la guerra è sottoposta: rispetto per le persone (distinzione tra belligeranti e non belligeranti); rispetto dei mezzi (proibizione di utilizzare determinate armi o determinati usi delle armi); rispetto alle cose (individuazione degli obiettivi strategici che consentirebbe solo azioni counter-force o counter-value); rispetto ai luoghi (delimitazione dei teatri operativi, creazione di zone franche ecc.).
Quest’insieme di regole, da sempre accettate a livello consuetudinario, trovarono una loro legalizzazione grazie alla Convenzione dell’Aja (1899 e 1907), sulla spinta di numerose istanze organizzative volte alla limitazione della brutalità dei conflitti e delle prime grandi manifestazioni pacifiste (come il Congresso per la pace universale, che si riunì la prima volta a Londra nel 1843, e poi a Bruxelles nel 1948 e a Parigi nel 1949; o quelle organizzate dalla Lega permanente della pace, fondata da Frédéric Passy, 1822-1912).
Il “combattente popolare”
In una guerra “simmetrica” è fatto divieto al milite di utilizzare la violenza contro la popolazione civile, ed è altrettanto vietato al “laico” di usare la violenza contro il personale in uniforme, anche se nemico. Su un piano prescrittivo, infatti, la legislazione internazionale prevede che un milite non possa essere ritenuto colpevole delle uccisioni di soldati nemici in armi, mentre il laico che uccide un soldato nemico, anche se in armi, commette un crimine punibile – secondo il diritto dei singoli stati – fino all’esecuzione capitale.
Ancora 80 anni fa il diritto di rappresaglia non era espressamente escluso dal diritto internazionale (chi non ricorda il famigerato “dieci italiani per un tedesco”? per estensione interpretativa potrebbe trovare base giuridica nell’articolo 2 della Convenzione di Ginevra del 1929 ). È ormai acclarato che il “combattente popolare”, asimmetrico istituzionalmente, cioè privo della livrea di una forza armata giuridicamente riconosciuta, si rende forte mediante la consapevole e cercata violazione del principio della separazione tra militari e civili, al fine di gettare in confusione il nemico in uniforme, costringendolo a commettere gesti che da un lato l’opinione pubblica dei Paesi “civili” non riesce a legittimare, dall’altro sono funzionali agli elementi militari della guerra “asimmetrica”.
Esempi non mancano. I vietcong diedero vita alla “suicida” offensiva del Tet (1968) proprio per entrare nella case degli americani, colpendo il “fronte interno”, mettendoli di fronte ad una guerra crudele. Tutti ricordano quella foto dove si ved il generale sudvietnamita Nguyen Ngoc Loan, capo della polizia nazionale, sparare alla testa di un prigioniero ammanettato, vestito in borghese. Poco conta ricordare che il giustiziato Nguyen Van Lém fosse un giovane ufficiale delle forze vietcong, probabilmente reo di attentati, che “nascondeva” il suo status reale con abiti civili. La televisione sentenziò la “sua” verità a tutto danno della causa sud-vietnamita.
Proprio perché l’esercito insurrezionale, rispetto al popolo, deve essere come un pesce nell’acqua -come sentenziò Mao Zedong – cioè in una sua confort-zone, un certo “uso” bellico della popolazione civile è nelle cose.
I crimini di Hamas
Però – lo dimostrano le conversazioni di Sinwar – qui siamo su un ben più alto livello: l’uso sistematico della popolazione e delle strutture civili come scudi. Tralasciando la profonda e ripugnante viltà insita in questi sedicenti combattenti, si manifesta la più netta razionalizzazione del crimine a dispregio del diritto stesso.
Come noto se una struttura civile sensibile diventa rifugio e deposito di soldati ed armi, questi edifici perdono il loro status e diventano obiettivi legittimi. L’attaccante è tenuto ad avvisare che un attacco a determinate strutture è imminente, al fine di favorire l’evacuazione della popolazione. Dopo di che … fuoco! Hamas ha sempre impedito una vera evacuazione dei civili, bloccando anche le vie di fuga verso l’Egitto, rendendosi, de facto, rea di quei reati che, vasti strati dell’opinione pubblica, imputa alle forze di Gerusalemme.
Non restano molte opzioni ad Israele se non fare quello che ha fatto, per non concedere la “vittoria” (cioè la non sconfitta) ai criminali di Hamas. Cos’altro dire: Mazel Tov!