Esteri

Così l’eurolirismo ci ha fatto perdere di vista l’interesse nazionale

In Italia una visione idilliaca del multilateralismo, abbiamo esportato responsabilità e importato influenze esterne. Dall’ambasciatore Vento una controstoria della politica estera italiana

Draghi VDL

Leggendo le pagine “Il XX secolo non è finito. Transizioni e ambiguità” (Rubbettino) dell’ambasciatore Sergio Vento, ci si confronta con uno studio sistemico dell’epoca VUCA (caratterizzata da volatilità, incertezza, complessità e ambiguità) riletta attraverso le lenti di un sano e pragmatico realismo internazionale.

Un testo che si presenta come una sorta di “controstoria della politica estera italiana” che va dagli anni ’60 alla contemporaneità attraverso l’evocazione delle principali politiche svolte dall’Italia nei suoi principali scenari di influenza analizzandone gli indirizzi e i protagonisti.

Nel suo saggio Vento mischia, infatti, moralia e memoralia della sua lunga carriera, negli uffici della Farnesina (per Africa e Medio Oriente), nelle stanze di Palazzo Chigi come consigliere di vari presidenti del Consiglio, oltre che l’attività da ambasciatore in Iugoslavia, Francia, Onu e Stati Uniti. Consegnando al lettore una fenomenologia dell’interesse nazionale che affronta vari episodi di una vita al servizio per le istituzioni e che ha molto da insegnare sull’Italia di ieri, di oggi e di domani.

La timidezza italiana nel Mediterraneo

FRANCESCO SUBIACO: Il suo libro si nutre di una componente memorialistica raccogliendo i momenti più significativi della sua carriera diplomatica. Tra cui si segnala la sua attività istituzionale in luoghi di spicco della scacchiera mediterranea: dall’Algeria del post Mattei alla Turchia di Bülent Ecevit, fino agli uffici di Nord Africa e Medio Oriente della Farnesina, oltre che ai contatti con protagonisti come Mubarak, Rabin nel suo ruolo di consigliere diplomatico di vari governi. Come valuta, quindi, le evoluzioni e il ruolo dell’Italia nella scacchiera del Mediterraneo?

SERGIO VENTO: Il termine che descrive efficacemente i lineamenti della nostra presenza nel Mediterraneo è forse quello di “timidezza”. Un atteggiamento rinunciatario che purtroppo, a parte rare eccezioni, dall’inizio degli anni 2000 ad oggi è la cifra della nostra presenza nelle dinamiche strategiche di questa area.

Non c’è dubbio che l’11 Settembre abbia creato, infatti, un lungo periodo di allarme, diffidenza e tensione, da parte dell’Occidente verso l’islam politico oltre che verso i Paesi del Mediterraneo. Una tensione che ha in parte ridimensionato la naturale dialettica che si era sviluppata negli anni della Prima Repubblica e la nostra naturale proiezione euromediterranea.

Un deficit di iniziative con alcune eccezioni quali il rafforzamento dei rapporti con l’Egitto di Mubarak, con la Turchia di Erdogan e un dialogo realistico con la Libia di Gheddafi. Tale deficit, però, si è acuito con la deleteria iniziativa americana delle Primavere Arabe e con i conseguenti spazi offerti alle autocrazie, cinese nel continente africano, e russa in Siria e Libia.

Gli errori in Libia

FS: Può darci una indicazione in più?

SV: Ad esempio, trasformando, dopo la morte di Gheddafi, la Libia in un failed state – se non proprio in un rogue state – ridotto ad essere come una sorta di Somalia del Mediterraneo… In uno scenario in cui è poi affiorata una incapacità italiana di cogliere momenti di convergenza con la Turchia di Erdogan sulla Libia al fine di creare piattaforme per una azione comune.

Un errore incomprensibile dal momento che sia Roma che Ankara appoggiavamo le autorità di Tripoli… Il deficit, o comunque la debolezza, dell’azione italiana ha lasciato la Libia in uno scenario di incertezza, instabilità e insicurezza.

Mentre per quanto riguarda il rapporto con l’Algeria i nostri tradizionali legami in campo energetico dopo un lungo periodo di stasi (per la preferenza accordata alle importazioni di gas russo) hanno avuto un rilancio anche per effetto delle sanzioni alla Russia. Si tratta di uno sviluppo per quanto riguarda la ricerca di fonti di approvvigionamento alternative a quelle con Mosca dopo anni di relativa noncuranza dell’Italia che però si dovrà confrontare con le posizioni di Mosca e quelle di Parigi nel rapporto con l’Algeria.

Il multilateralismo all’italiana

FS: Nel corso degli anni ha avuto esperienza diretta della principali realtà multilaterali dal 1979 al 1984, come vice-rappresentante italiano presso Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) a Parigi, più tardi come rappresentante permanente alle Nazioni Unite, a New York, dal 1999 al 2003. Come valuta l’approccio italiano al multilateralismo, dall’Onu all’Unione europea?

SV: Sulla dimensione multilaterale della politica internazionale si registra spesso in Italia una visione idilliaca e “lirica”, che non di rado si tramuta in frustrazione e velleitarismi poco sensati. Perseguendo, dietro a miti umanitari e orizzonti idilliaci, delle scelte che finiscono per frenare le opportunità che queste piattaforme ci offrono.

Il punto, infatti, è che il multilateralismo rimane “uno” strumento della politica estera, complementare a quello delle relazioni bilaterali classiche, e non un “destino” da seguire fideisticamente. Tra queste due dimensioni, bilaterale e multilaterale esiste, del resto, un rapporto di continuità, non di alternativa. Un aspetto troppo spesso dimenticato…

La dimensione multilaterale va, quindi, costruita, gestita e coltivata attraverso la lucida consapevolezza della sua portata reale. Nel multilateralismo non ci sono scorciatoie, regali, né risultati ideali. Bisogna, infatti, considerare le organizzazioni multilaterali (regionali o mondiali) come un mezzo, e non come un fine soprattutto perché si rischia di essere i soli a considerarle (in buonafede o in malafede) in questi termini.

Basti pensare al rapporto con l’Unione europea. In cui un certo pronunciato “eurolirismo” impedisce di vedere gli interessi concreti dei nostri partner, perdendo di vista il nostro interesse nazionale.

FS: Come si può superare questa tendenza?

SV: Occorre invece un approccio pragmatico, realista, concreto capace di vedere nel multilateralismo un’occasione e non un deus ex machina per piccoli calcoli. Ed in questo sarebbe opportuno seguire l’adagio di un grande maestro delle relazioni internazionali come Lord Palmerston che disse “foreign policy begins at home”, ovvero che la politica estera si prepara a casa propria, e non si improvvisa nelle conferenze internazionali.

Occorre evitare che il multilateralismo si traduca in una esportazione di responsabilità e in una importazione di influenze esterne. Per cui l’azione nell’arena internazionale deve essere la proiezione di forti e coerenti politiche interne (industriali, finanziarie, commerciali, strategiche e di sicurezza) che per essere efficaci necessitano di un solido e continuativo consenso all’interno del Paese e delle classi dirigenti.