In un certo senso aveva ragione il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres: Hamas e i suoi attacchi non arrivano dal nulla. Non vengono, però, dall’occupazione israeliana dei territori palestinesi, come erroneamente sostenuto da Mr. Ebollizione Globale. Vengono dalla precisa e proclamata volontà di cancellare Israele e sterminare gli ebrei. Volontà scritta nel suo statuto e rivendicata con orgoglio ad ogni occasione dalla leadership del movimento e dal suo principale sponsor: l’Iran.
Il falso dell’occupazione
Aver voluto in qualche modo giustificare gli attacchi di Hamas con l’occupazione israeliana è prima di tutto un falso storico. Come noto, è dal 2005 che Israele non occupa più la Striscia di Gaza, per decisione unilaterale del governo israeliano. Dagli Accordi di Oslo del 1993, inoltre, la gran parte della Cisgiordania è sotto il controllo dell’Autorità nazionale palestinese, un autogoverno di fatto. Come poi in questi decenni le autorità palestinesi abbiano utilizzato la loro ampia autonomia, e i miliardi di dollari di finanziamenti ricevuti sia da Stati Uniti ed Europa, anche attraverso l’Onu, che dagli Stati arabi, è tutt’altra questione che però andrebbe indagata.
Ma le parole di Guterres sono gravi perché forniscono agli occhi del mondo islamico legittimazione ad Hamas, stabilendo un legame tra la sua lotta e la causa per uno Stato palestinese. Legame che non esiste.
Mai come negli ultimi tre decenni i palestinesi hanno avuto l’autonomia e le risorse finanziarie per migliorare le proprie condizioni politiche ed economiche. Chiunque ne avesse avuto la minima volontà avrebbe compreso che quella era la strada per arrivare alla “liberazione”, ad uno Stato palestinese pienamente riconosciuto. Invece, i palestinesi hanno scelto di proseguire la guerra terroristica per cancellare Israele.
Il totem dei due Stati
Ma anche richiamare la cosiddetta “soluzione a due Stati” nel contesto attuale, come fanno ad ogni piè sospinto Usa e Ue, è nella migliore delle ipotesi ipocrisia o pigrizia intellettuale, nella peggiore un modo sottile per giustificare gli attacchi di Hamas, per stabilire un legame che non c’è tra essi, e il maggioritario consenso di cui gode nella popolazione di Gaza e West Bank, e la rivendicazione di uno Stato palestinese. Ma di sicuro non è di alcun aiuto nell’analisi, né quindi nella elaborazione di una soluzione politica.
L’Occidente per primo deve liberarsi del totem dei “due Stati”, se vuole contribuire alla pace e fare un favore ai palestinesi stessi. Certo che in linea teorica resta valida, ma quasi 90 anni dovrebbero bastare per accettare la realtà che l’onere della prova di volere la “soluzione a due Stati”, la cui premessa indispensabile è il riconoscimento del diritto all’esistenza di Israele, sta ai palestinesi, non ad altri.
La possibilità di uno Stato palestinese è stata in diverse occasioni nell’ultimo secolo davvero a portata di mano, ma i palestinesi e i loro padrini arabi hanno sempre tagliato quella mano, rifiutato, pensando che gli ebrei non avessero alcun diritto di vivere in Palestina e che prima o poi sarebbero riusciti a scacciarli. La “liberazione” non è mai stata intesa come liberazione dei territori entro i confini pre-67, né quelli del 1947, ma come liberazione della Palestina “from the River to the Sea”.
Quasi 90 anni di “no” palestinesi
A dimostrarlo, quasi 90 anni di rifiuti di uno Stato arabo in Palestina.
(1) Il rifiuto più recente e clamoroso è quello di Yasser Arafat, che nel 2000 ha respinto una proposta che prevedeva la nascita di uno Stato palestinese che avrebbe incluso il 97 per cento dei territori del ’67 (il 92 per cento della Cisgiordania e tutta la Striscia di Gaza), compresa Gerusalemme Est. Non era il 100 per cento, ma quanti Paesi avete visto restituire dopo negoziati il 97 per cento di territori conquistati in guerre che si sono visti scatenare contro?
(2) Ma i rifiuti partono da oltre sei decenni prima, addirittura il primo precede il piano di ripartizione Onu del 1947. Il primo “no” risale al 1937, quando il Gran Mufti di Gerusalemme Amin al-Husseini – sì, proprio lui, l’alleato di Hitler – rigettò il piano di ripartizione del mandato britannico della Palestina proposto dalla Commissione Peel, che assegnava circa l’80 per cento dei territori ad uno Stato arabo e la parte restante ad uno Stato ebraico. Ma altro che uno Stato, all’epoca il Muftì puntava allo sterminio degli ebrei con l’aiuto della Germania nazista.
(3) Dopo la Seconda Guerra Mondiale arriva la nota risoluzione 181 dell’Onu, un piano di ripartizione del mandato britannico di Palestina tra due nuovi stati, uno Stato arabo e uno Stato ebraico, quest’ultimo su un territorio molto minore di quello attuale e in gran parte desertico, con Gerusalemme sotto egida Onu. Il piano non era solo un’idea occidentale, era sostenuto anche dall’Urss.
Anche questa volta il Gran Muftì, ma soprattutto la Lega Araba, rifiutano. Oggi quello Stato arabo di Palestina avrebbe potuto celebrare i suoi 75 anni. Anziché limitarsi a rifiutare, gli Stati arabi lanciano una guerra contro Israele, che perdono rovinosamente.
(4) Ma già nel 1949 è a portata di mano un’altra occasione per la nascita di uno Stato palestinese. L’allora governo israeliano di Ben Gurion propone di riconoscere la linea dell’armistizio come i confini definitivi tra i due stati, uno Stato ebraico e uno Stato arabo, che avrebbe incluso Cisgiordania (con un territorio più grande di quello attuale) e Striscia di Gaza. Quando sentite invocare il ritorno ai famosi “confini del ’67”, ecco erano quelli offerti da Israele nel 1949. Gli Stati arabi e il Gran Muftì rifiutarono ancora una volta.
(5) Nel 1967 gli Stati arabi perdono rovinosamente un’altra guerra, la Guerra dei Sei Giorni, a seguito della quale Israele occupa, oltre al Sinai e alle alture del Golan, tutti i territori del mandato britannico. Si badi bene: non già della Palestina, che non è mai esistita in quanto stato. I territori che si dicono “occupati” non hanno mai fatto parte di uno Stato palestinese al quale sarebbero poi stati sottratti, né di uno Stato arabo. Per quattro secoli hanno fatto parte dell’Impero Ottomano e dal 1919 dell’Impero britannico.
Ma anche stavolta arriva un’occasione per far nascere uno Stato palestinese, o quanto meno una forma di autogoverno. Nel 1967-68 il governo israeliano avvia discussioni con la leadership palestinese e con quella giordana sulla base del Piano Allon, che prevedeva la restituzione di gran parte della Cisgiordania, ad eccezione di una fascia di sicurezza di 10 chilometri e di Gerusalemme Est, e di tutta la Striscia di Gaza. Con due opzioni: restituzione alla Giordania o ad un governo autonomo palestinese.
Difficile da digerire, perché la ripartizione rispondeva alle esigenze di sicurezza del vincitore, ma nel 1967, alla Conferenza di Karthoum, gli Stati arabi ribadivano: “nessuna pace con Israele, nessun riconoscimento di Israele, nessun negoziato con esso”.
Rifiuto di Israele più forte di tutto
Ovviamente non si pretende qui di aver esaurito la complessità di ciascuno dei passaggi ricordati, ma di aver per lo meno dimostrato come il dato territoriale e nazionale è da sempre stato secondario e minoritario nelle leadership arabo-palestinesi che si sono succedute, mentre preminente è il rifiuto totale di riconoscere l’esistenza di Israele, la sua sovranità su anche un solo fazzoletto di terra.
Ne avrebbe fatto le spese il presidente egiziano Anwar el Sadat, espulso nel 1979 dalla Lega Araba su richiesta di Arafat, e assassinato nel 1981, per avere firmato gli Accordi di Camp David in cui l’Egitto riconosceva Israele in cambio della restituzione del Sinai.
E non si può spiegare altrimenti il rifiuto di Arafat nel 2000, di fronte alla restituzione del 97 per cento dei territori del ’67 e di Gerusalemme Est. La volontà dei palestinesi di distruggere Israele e uccidere ebrei è più forte del desiderio di avere un loro Stato.
Non ha senso pretendere che Israele rispetti le risoluzioni Onu successive finché Stati arabi e palestinesi non riconoscono il principio alla base della risoluzione originaria, la 181, ovvero l’esistenza dei due Stati.