Esteri

Da Torino a Monfalcone, le città si islamizzano: i centri anti-islamofobia

Raccolta di segnalazioni anche non penalmente perseguibili: il rischio di intimidazioni e censura. E di offrire ai radicalizzati obiettivi da abbattere. La lista di soli islamici alle comunali di Monfalcone

Lo Russo Torino (Ytube) Il sindaco di Torino Stefano Lo Russo con gli esponenti della comunità islamica (Giornata contro l'islamofobia 2023)

A Torino verrà costruita la seconda moschea più grande d’Italia, dopo quella di Roma: un complesso di 6 mila metri quadrati, con un minareto alto 20 metri, un salone di preghiera da mille posti, una biblioteca, uno studentato da 80 posti letto. Sarà, come tutte le moschee, anche un centro di formazione e socializzazione, culturale e politico. Costerà 17 milioni di euro e sarà in parte finanziata dal re del Marocco.

L’annuncio ha suscitato reazioni contrastanti. Più che altro, però, considerando che a Torino e nella città metropolitana vivono solo 50 mila musulmani e che di moschee ce ne sono già decine, si direbbe un progetto che non risponde a reali esigenze di fede. C’è da considerare invece, in positivo, che un complesso del genere è decisamente più facile da controllare. Il pericolo, di radicazione, di reclutamento al jihad, la sacra guerra islamica, è rappresentato più dalle moschee abusive, non formalmente riconosciute, che spesso ospitano imam che predicano l’islam integralista. Quelle devono essere individuate e smantellate.

Centri anti-islamofobia

Quella che deve preoccupare seriamente piuttosto è la decisione dell’amministrazione comunale torinese di aprire in città dei centri anti islamofobia. Non si capisce a che cosa possano servire dei centri dove si segnalano persone che hanno paura della religione islamica – e poi? – se non si conosce la definizione di islamofobia data dall’Alto commissariato Onu per i diritti umani:

Paura, pregiudizio e odio nei confronti dei musulmani, sentimenti che portano a provocazioni, ostilità e intolleranza e si manifestano attraverso minacce, molestie, abusi, incitamenti all’odio e intimidazioni verso musulmani e non musulmani, tanto nella vita reale che nel mondo virtuale del web. Motivata da ostilità istituzionale, ideologica, politica e religiosa, l’islamofobia trascende nel razzismo strutturale e culturale, prende di mira i simboli e le pratiche della fede islamica, percepisce la religione, la cultura e le tradizioni islamiche come una minaccia ai valori occidentali.

Sulla base di questa definizione l’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2022 ha istituito il 15 marzo una Giornata internazionale per la lotta all’islamofobia e, non contenta, nel 2024 ha chiesto la nomina di un inviato speciale Onu per meglio combattere l’islamofobia in tutte le forme e manifestazioni.

Il presupposto degli amministratori torinesi, in linea con i vertici delle Nazioni Unite, è che la “fobia” dell’islam sia solo frutto di stereotipi e pregiudizi che occorre abbattere: “conoscere allontana la paura – ha spiegato il consigliere metropolitano delegato alle politiche sociali e parità di genere, Rossana Schillaci, annunciando che sei centri islamici hanno aderito al progetto – e aiuta a percepire l’avvicinamento e la contaminazione come la strada migliore da percorrere”.

“Saremo la prima città italiana ad avere luoghi di raccolta di segnalazioni – ha detto il presidente della Commissione consiliare per il contrasto dei fenomeni di intolleranza e razzismo, Abdullahi Ahmed Abdullahi – la Città metropolitana organizzerà momenti di formazione, le comunità raccoglieranno le segnalazioni, il Comune promuoverà iniziative e i dati saranno raccolti in report annuali”.

A Reggio Emilia si chiama anti-razzismo

Ma anche Reggio Emilia ci ha pensato e ha aperto non un centro anti-islamofobia bensì uno sportello antirazzismo. Intende essere – si legge sul sito web del comune – “un luogo di ascolto tutelato per le persone vittime o testimoni di discriminazioni basate su nazionalità, origine, provenienza, religione, appartenenza culturale”.

Affidato alla gestione di una cooperativa, la Dimora d’Abramo, specializzata in accoglienza e mediazione culturale, ha il compito di “raccogliere segnalazioni, valutare la presenza di elementi discriminatori e aiutare le persone a individuare una soluzione adeguata, anche tramite il coinvolgimento di professionalità esperte in mediazione culturale e dei conflitti, consulenza legale e supporto psicologico”.

Insieme allo sportello è stato costituito un Osservatorio “per raccogliere tutte le segnalazioni discriminatorie, anche quelle che non sono penalmente perseguibili per la legislazione italiana, ma possono rappresentare un’aggressione verbale ingiustificata”. Entrambe le iniziative sono state fortemente volute dall’assessore alle politiche educative, Marwa Mahmud, di origine egiziana, militante Pd, secondo cui serviranno a prevenire e combattere tutte le discriminazioni, non solo quelle razziali.

L’idea ovviamente è che allo sportello si rivolgeranno degli stranieri, discriminati e aggrediti verbalmente da cittadini italiani razzisti, intolleranti e xenofobi. Però potrebbero esserci delle sorprese se allo sportello decidessero di ricorrere anche le donne immigrate quando subiscono limitazioni alle loro libertà personali, le ragazze immigrate che i genitori mortificano segregandole in casa e discriminandole rispetto ai fratelli, e quelle alle quali i famigliari impongono il velo islamico, un matrimonio combinato, un intervento di mutilazione genitale.

Servirebbe anche agli italiani insultati“italiani di merda”, l’espressione più comune – agli africani sub sahariani disprezzati dai nordafricani, a tutti gli africani e gli asiatici vittime di pregiudizi tribali. Magari fosse, e allora ci sarebbe la coda tutti i giorni, tra vittime e testimoni.

Sia a Torino che a Reggio Emilia sportelli e centri rischiano invece di diventare, fatto che molti considerano una certezza, occasioni di denunce infondate, ma da cui doversi difendere, e di intimidazione e censura.

La lista islamica di Monfalcone

Da Monfalcone infine arriva una notizia ancora più allarmante. La città, 30 mila abitanti, va al voto il 13 e 14 aprile per eleggere il sindaco. Circa un terzo della popolazione è immigrata, in gran parte musulmana. Tre quarti delle donne immigrate circolano indossando l’hijab o il niqab (due versioni del velo, una che copre il capo, l’altra che nasconde anche il volto salvo gli occhi).

È a Monfalcone che prima cinque, poi quattro e adesso tre studentesse vanno a scuola indossando il niqab, cosa che fa comprensibilmente discutere, per motivi di sicurezza prima che per altre ragioni, perché il niqab rende impossibile riconoscere chi lo indossa. Per questo ogni mattina prima di entrare in classe una professoressa le porta in un’aula e, alla sua sola presenza, le ragazzine si tolgono per un momento il velo per essere identificate.

Preoccupazione suscita poi, sempre per ovvi motivi di sicurezza, la presenza in città di due moschee abusive.

La notizia è che un cittadino di origine straniera, Bou Konate, senegalese, intende candidarsi alla carica di sindaco e presentarsi con una lista composta da soli immigrati. Tra chi milita a sinistra molti sono contrari, ma solo perché ritengono che toglierà voti alle liste di sinistra e favorirà quindi la vittoria della destra.

Chi invece, specie a destra, si preoccupa è perché teme che la candidatura sia il primo atto di un progetto della comunità musulmana che mira ad assumere il potere: come minimo, se non peggio, per far sì che i fedeli possano seguire, anche quando contrastano con le leggi e la morale italiane, le prescrizioni della sharia, la sacra legge dell’islam.

Su entrambi i fronti c’è chi non vede niente di male, anzi giudica un buon segno di integrazione il fatto che Bou Konate voglia partecipare attivamente alla vita sociale e politica della città. All’opposto altri, sempre sui due fronti, considerano la decisione di presentare una lista di soli immigrati, forse tutti musulmani, il segno evidente, certo, di una integrazione fallita, respinta o negata che sia.

Una comunità a parte

Sono loro ad avere ragione. Una lista elettorale di soli immigrati può anche non essere il primo passo verso la conquista del potere. Di sicuro però è il risultato di una mancata integrazione, il primo passo verso una sorta di sistema di apartheid che istituzionalizzerebbe uno “sviluppo separato” su base etnica e religiosa: una tendenza già in atto, evidente in molti immigrati nel modo di vestire e di mangiare, di frequentarsi, nella scelta dei quartieri in cui abitare, nel rifiuto o almeno nella minore importanza data da tanti a imparare bene la lingua italiana.

Nemmeno più nel Sudafrica dell’apartheid si formano liste elettorali e partiti composti da soli neri, bianchi e coloured. Persino nel partito DA, Alleanza Democratica, fondato e un tempo composto solo da bianchi, militano dei neri e vi ricoprono alte cariche. Che succeda in Italia porta a, o presuppone, un regime di “sviluppo separato” riconosciuto e accettato.

Una lista elettorale che discrimina, escludendoli, gli italiani autoctoni dovrebbe essere illegale. Se, per questo o per altri motivi, Bou Konate decidesse di rinunciare al suo progetto o vi fosse costretto, è comunque necessario affrontare, molto seriamente e con urgenza, il problema che l’idea di una lista di soli immigrati ha evidenziato, quello dell’integrazione. Condizione necessaria dell’integrazione è che le persone di origine straniera entrino nel mercato del lavoro e si inseriscano nel tessuto sociale.

Ma evidentemente non basta perché Konate è in Italia da tanti anni con la sua famiglia, ha un buon lavoro, ha già ricoperto cariche pubbliche, ha uno status sociale ed economico invidiabile e che nessuno gli contesta. Bisogna capire quindi che cosa lo induce a pensare, lui e chissà quanti altri, che gli immigrati, i musulmani costituiscano una comunità a parte che solo altri come loro possono rappresentare.

In Italia risiedono più di cinque milioni di stranieri, i musulmani sono quasi due milioni. La maggior parte di loro continuerà a vivere tra di noi. Molti sono già cittadini italiani e molti altri lo diventeranno. I musulmani radicalizzati sono relativamente pochi, di più sono quelli che per vari motivi si auto-emarginano e auto-escludono. Negli altri, i Konate, e negli italiani autoctoni è essenziale, per il bene e nell’interesse di tutti, smettere di instillare il seme della diffidenza, del risentimento, dell’ostilità, del disprezzo reciproco. L’apartheid è un rischio inaccettabile.

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