Nel corso della prima parte di questa analisi, abbiamo riportato parte di una lunga e dettagliata intervista concessa in estate da Angela Merkel ad Andreas Kluth del Washington Post, in cui l’ex cancelliera propone con decisione un paragone, pienamente avallato dal giornalista americano attraverso un’accurata profilazione parallela, tra se stessa e Neville Chamberlain, il primo ministro britannico famoso per la sua politica di appeasement nei confronti della Germania nazista.
Riprendiamo da dove eravamo arrivati, ossia dalla considerazione che sia necessario, in realtà, prendere atto di una profonda differenza nelle motivazioni che hanno animato i due personaggi.
In particolare, di come la stella polare nell’azione politica di Angela Merkel sia sempre stata la ricerca dell’immediato interesse economico per il suo Paese – e del consenso politico che ovviamente ne sarebbe derivato -, più di ogni altro aspetto.
Chamberlain: evitare la guerra
Volendo cercare di fornire una definizione dirimente alla questione, potremmo infatti dire che la differenza fondamentale tra le due figure sia la motivazione primaria che ne ha ispirato l’azione politica.
È più che lecito sostenere che Chamberlain avesse come unico obiettivo primario realmente quello di evitare la guerra per quanto possibile, il non farsi trascinare da Hitler in una nuova strage da decine di milioni di morti, ad appena vent’anni dagli spaventosi massacri di Verdun e della Somme.
In questo, poteva essere fin troppo ingenuamente convinto delle sue illusioni, poteva coltivare agli estremi il wishful thinking di ragionare con il Führer come con un normale capo di Stato di una nazione liberaldemocratica. Ma non era certamente animato dal desiderio di mantenere lo status quo allo scopo di fare affari con la Germania nazista.
E inoltre, per quanto potesse illudersi, nei mesi successivi all’accordo cercò di fare del suo meglio per preparare il Paese alla guerra, e non lo rese in alcun modo più connesso e meno che mai dipendente dalla Germania sotto ogni aspetto della sua vita economica e produttiva.
Merkel: fare affari con Putin
Che invece è esattamente quanto fatto da Angela Merkel settant’anni dopo. Non per connivenza ideologica con Putin, questa opzione va scartata con quanta più decisione e sicurezza. No, come sempre conviene fare ricorso al sempre prezioso rasoio di Occam: semplicemente, per convenienza. Convenienza economica, convenienza, di conseguenza, politica ed elettorale.
A parziale discolpa della Merkel va ricordato che le linee della politica energetica tedesca erano già state tracciate dal suo predecessore Schröder, per questo lautamente premiato dalla Russia con cariche dirigenziali in Gazprom e Nord Stream, ma questa non può essere in alcun modo una scusa.
In oltre 15 anni al governo, Angela Merkel non ha mai fatto nulla per dare alla politica energetica, economica, militare ed estera tedesca il minimo cambiamento. D’altronde, perché avrebbe dovuto? Il sistema sembrava funzionare bene, dal punto di vista tedesco.
Tanto bene da rendere la Germania una grande potenza esportatrice a livello mondiale, e da dare l’illusione che col suo mercantilismo potesse essere una forza di rilievo anche dal punto di vista diplomatico e politico.
La dipendenza dal gas russo
Ma qual è di preciso il sistema della Germania merkeliana? Piuttosto semplice, a dire il vero.
Essenzialmente, volendo semplificare, si reggeva tutto sul gas russo. Il gas proveniente dalla lontana Siberia, che, grazie agli accordi con Gazprom e alla realizzazione del famigerato gasdotto che collega (collegava) direttamente Russia e Germania passando sotto le acque del Mar Baltico, è arrivato per decenni direttamente a disposizione delle grandi fabbriche tedesche, un gas di altissima qualità a prezzi così bassi come non si erano mai visti.
Una svolta rispetto al carbone, una manna di proporzioni tali da rendere politicamente svantaggioso continuare a puntare sul nucleare, che pure aveva in passato garantito alla Germania una notevole autonomia energetica.
È proprio su questa grande disponibilità di energia a basso costo, unita alla stabilità monetaria e dall’assenza di inflazione a lungo offerta dall’euro (che hanno mantenuto bassi i salari, a fronte di elevata produttività), che si è fondata la strategia economica tedesca.
Questo sistema ha effettivamente permesso al Paese di divenire per decenni una grande potenza esportatrice e di godere di una conseguente notevole prosperità.
Da questo punto di vista, è facile comprendere come il mantenimento di questo status quo abbia rappresentato un’esigenza importante per l’elettorato tedesco, e come quindi la cancelliera si sia trovata nell’esigenza politica di non rischiare di comprometterla, a maggior ragione per un Paese come l’Ucraina, percepito dall’opinione pubblica tedesca come “un posto corrotto”, una terra “di oligarchi e malaffare” – parole di Merkel.
Lo scontro con Trump
Un altro fattore da tenere in considerazione è il fatto che Angela Merkel si sia trovata pressoché invariabilmente a guidare dei governi di Große Koalition, dovendo quindi tenere conto anche delle istanze care agli alleati di turno.
In particolare, le sarebbe stato di fatto quasi impossibile – o perlomeno estremamente pericoloso dal punto di vista elettorale – andare contro il sentimento antimilitarista particolarmente diffuso nel Paese, e spesso rappresentato non solo dai rivali/alleati della SPD, ma anche da frange non minoritarie della CDU/CSU.
E così, i governi Merkel hanno di fatto continuato, spesso e volentieri accentuandola, la politica di progressiva diminuzione dell’apparato militare tedesco, sia per quanto riguarda il numero del personale che gli investimenti in armamenti.
Proprio su questo punto arrivò il più aspro scontro con l’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che pretendeva dai paesi membri Nato, Germania compresa, il rispetto della soglia minima di spesa militare fissata dagli accordi al 2 per cento del Pil.
Credo che in molti ricordiate: erano gli anni in cui gli Stati Uniti sembravano da un lato virare verso una sorta di isolazionismo, dall’altro richiamavano all’ordine gli alleati occidentali in modo spesso non gradito.
Erano i giorni in cui in molti, e non solo in Europa, mossi dalla diffidenza verso la presidenza Trump, ancor più che dall’ammirazione verso la cancelliera tedesca e la sua leadership “democristiana” nei toni e nelle intenzioni, additavano Angela Merkel come persona più potente al mondo e “vera leader del mondo libero”.
Sarà forse ingiusto giudicare i personaggi storici in parte in base alla fama che li circonda, ma è anche per questa immensa considerazione di cui ha goduto per anni, che si è tradotta in vasto potere sul sistema Europa, che credo sia doveroso sottoporre ad un bilancio l’era Merkel.
Merkel non è una moderna Chamberlain
È davvero possibile accostarla semplicemente a Chamberlain, come fa Kluth, definendo entrambi “politici intelligenti e sofisticati”, che “saranno ricordati per aver vacillato quando avrebbero dovuto tracciare una linea, per essere stati deboli quando avrebbero dovuto essere forti”? Non credo lo si possa fare, francamente, non se si tiene nella giusta considerazione tutto quanto ricordato finora.
Non si può parlare semplicemente di un momento in cui non si è mostrata la forza necessaria, nell’illusione di puntare a un bene superiore. Neville Chamberlain può probabilmente adattarsi alla definizione fornita da Kluth: chiamato a guidare un Regno Unito alquanto isolato in un momento estremamente difficile, ha preferito correre il rischio di rinviare una guerra che ancora con un po’ di ingenuità poteva essere considerata evitabile, al principale scopo di non dare il via all’ennesimo bagno di sangue, in un’Europa segnata dai fascismi, nazionalismi e revanscismi.
Angela Merkel, al contrario, ha retto le redini della Germania nei decenni in cui questa rappresentava a tutti gli effetti la locomotiva sia economica che politica dell’Unione europea, ha apertamente optato per una tattica attendista e di appeasement nei confronti della Russia di Putin, probabilmente anche per sforzarsi di salvaguardare la pace, ma certamente per poter continuare ad usufruire dei grandi vantaggi economici dati dal fare affari con la Russia stessa.
Nel breve tempo a sua disposizione, Chamberlain ha poi provveduto a rafforzare quanto possibile l’apparato militare britannico, e a rinsaldare i legami con la Francia, preparandosi al peggio, qualora si fosse dimostrato inevitabile, e una volta presone atto ha portato la nazione in guerra.
Al contrario, la Merkel non ha sfruttato il lungo periodo di prosperità economica in questo senso, anzi, si è di fatto opposta ad un rafforzamento militare della Germania e dell’Europa nel contesto della Nato, giungendo come massimo impegno ad inserire in un programma elettorale della CDU il raggiungimento del sopra citato limite del 2 per cento – proposito poi lasciato cadere al momento di formare l’ennesimo governo di coalizione.
Insomma, le differenze nell’atteggiamento tra i due leader appaiono evidenti. Angela Merkel ha segnato profondamente l’Europa contemporanea e il suo approccio sia alla politica economica che estera e di difesa, e le sue motivazioni, volte a un utilitarismo pragmatico e prettamente legato al contesto peculiare tedesco vanno tenute in considerazione.
Forse è presto per fornirne un giudizio storico complessivo, cosa che infatti mi guardo dal fare, ma è probabilmente altrettanto imperativo fare i conti con la sua figura, senza sentimenti eccessivamente partigiani di odio, ma nemmeno di adulazione – a differenza di quanto fatto finora, soprattutto in Italia.
È necessario per capire perché ci troviamo dove ci troviamo, e come possiamo definire il nostro futuro e le politiche che lo determineranno, possibilmente in modo condiviso a livello continentale e oltre, senza affidarsi unicamente a un solo leader locale, per quanto rassicurante, come fatto con Frau Merkel, che risponde a esigenze particolari più e prima che generali, e da esse viene condizionato.
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