Difesa europea? I veri nodi dietro il confuso protagonismo di Macron

L’ambasciatore Sergio Vento: per i francesi il multilateralismo europeo solo un moltiplicatore della loro potenza. Ruolo Parigi sbilanciato e scenario industriale eterogeneo

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Dal discorso di Emmanuel Macron alla Sorbona alle aperture di Friedrich Merz e Ursula Von der Leyen al 36° congresso della CDU, la difesa europea sembra presentarsi come uno dei temi chiave su cui si dovrebbe giocare la partita sulla futura governance dell’Unione europea. Un tema però spesso più evocato che riempito di concreti aspetti programmatici, che prima di essere enunciato andrebbe calato sia nello scenario industriale europeo che nel contesto della difesa atlantica.

Per comprendere meglio i veri limiti e i nodi della difesa comune e meglio analizzare le principali sfide e metamorfosi dell’Ue alla vigilia delle elezioni abbiamo intervistato l’ambasciatore Sergio Vento, già consigliere diplomatico di quattro presidenti del Consiglio, ambasciatore italiano negli Stati Uniti, in Francia, all’Ocse e alle Nazioni Unite, profondo conoscitore dei limiti e delle potenzialità delle organizzazioni multilaterali e delle sismografie delle relazioni internazionali.

I veri nodi della difesa europea

FRANCESCO SUBIACO: ambasciatore Vento quali sono i veri nodi della difesa comune europea?

SERGIO VENTO: Si tratta di un aspetto che sta riscuotendo consensi nelle opinioni pubbliche europee, e da parte di forze politiche di diversa connotazione. Anche se poi passare dal consenso alla messa in opera di un sistema effettivo e coerente non sarà così facile.

Il tema della difesa comune europea si sta trascinando ormai dagli anni ’50 (prima ancora delle affermazioni di De Gaulle sull’autonomia strategica dell’Europa nel ’60-’61), quando fu bocciata alla Assemblea nazionale francese la CED nel 1954. Il discorso si riaffacciò poi negli anni ’90 sullo sfondo delle guerre jugoslave, trovando espressione nei trattati di Amsterdam e Nizza che promuovevano un sistema di forze di rapido impiego anche con effettivi importanti.

Purtroppo, non se ne fece nulla perché una difesa europea si sarebbe intrecciata e sovrapposta inevitabilmente con la difesa atlantica. Una problematica ancora attuale che non va sottovalutata.

Difesa atlantica o europea?

FS: Cosa potrebbe generare tale sovrapposizione?

SV: Una difesa europea autonoma dalla Nato porterebbe a comandi disgiunti e ad una difficile separazione tra i comitati militari della Nato e della Ue, con inevitabili conflitti di attribuzione e contraddizioni. Molti ufficiali europei svolgono funzioni di rilievo nei quadri Nato e dispongono di strutture di coordinamento che hanno una maggiore strutturazione e questo creerebbe delle diarchie “professionali” nella gestione degli interessi strategici del continente europeo.

L’autonomia strategica di cui Macron parla rischierebbe, quindi, di ostacolare una governance euroatlantica, ma anche di scontrarsi con difficoltà concrete. Nel suo già citato discorso alla Sorbona, Macron, con toni eloquenti e polemici, ha affermato che l’Europa “potrebbe morire se non reagisce”, cioè se non si posiziona con fermezza su alcuni temi di carattere industriale e tecnologico che dovrebbero essere strutturati secondo una prospettiva comunitaria. Ma ciò cozza con il reale quadro europeo. Si pone, infatti, un altro inevitabile problema: quello che riguarda lo scenario concreto del settore industriale.

I complessi militari industriali

FS: Quali sono le vere asimmetrie che gravano sui vari complessi militari-industriali nazionali che potrebbero minare una difesa comune?

SV: Il problema è che le posizioni dominanti tra i gruppi industriali della difesa, seppur cercano sovente un coordinamento intraeuropeo, si muovono su progetti e su sentieri strategici tra loro eterogenei se non concorrenti. Ad esempio, per quanto riguarda il settore dell’aeronautica gli europei si sono sempre approvvigionati da aziende europee come il tri-nazionale Tornado e Eurofighter (in cui giocò un ruolo cruciale la Gran Bretagna).

Ma allo stesso tempo la Francia, con Mirage prima, e Rafale oggi, non ha mai aderito a progetti comuni sul fronte militare strategico, anche se nella collaborazione con la Germania con il Système de combat aérien du futur, abbreviato in SCAF, si sta lavorando per creare un aereo di nuova generazione capace di essere uno sviluppo del Rafale. Ma ciò non cambia le rispettive bussole strategiche.

Per quanto riguarda il futuro sistema di combattimento terrestre, invece, la Germania ha, ad esempio, due gruppi industriali partecipanti mentre la parte francese ha instaurato una partnership tra il primo gruppo tedesco che produce Leopard 2 e Leclerc.

Il dibattito di una difesa europea ha poi visto emergere tutta una serie di nuovi fattori innovativi e dirompenti. Come i droni che sono diventati, improvvisamente, dopo la prima avvisaglia nel breve conflitto tra Armenia e Azerbaijan dell’estate 2021, i protagonisti del campo di battaglia.

Un discorso affine si potrebbe fare anche per l’artiglieria a lunga gittata. Nella missilistica (aria/aria e aria/terra) c’è poi MBDA (Matra, BAE Dynamics, Alenia), il principale consorzio per la difesa europea, che già da anni produce sistemi missilistici di grande qualità. Esistono quindi dei sistemi di protezione e proiezione, che si stanno sviluppando secondo un’ottica comune, ma lo scenario dei complessi industriali europei per la difesa appare assai eterogeneo e denso di asimmetrie.

Il confuso protagonismo francese

FS: Può farci qualche esempio?

SV: Il ruolo della Francia, ad esempio, è fortemente sbilanciato, poiché essa ha una forte e diversificata industria militare, un arsenale nucleare, un esercito di proiezione, ridimensionato dopo i rovesci politici nel Sahel, ma che ora viene riproposto per lo scenario ucraino. Nelle intenzioni del presidente francese il multilateralismo europeo è, quindi, soltanto un moltiplicatore della propria potenza indifferentemente dagli interessi degli altri Stati europei.

FS: Come valuta quindi l’ultimo discorso di Macron?

SV: Il discorso del presidente della Repubblica francese è puramente elettorale e funzionale per cercare di evitare il sorpasso del partito di Marine Le Pen. Si tratta di quel confuso protagonismo francese che abbiamo già visto emergere nel suo discorso sull’invio di truppe in Ucraina.

La metamorfosi della CDU

FS: Ciò come può essere calato nel quadro degli equilibri europei alla vigilia del voto?

SV: Il discorso del presidente francese rappresenta una presa di posizione forte, mostrando che Macron ha voluto dare a Renew Europe un ruolo guida rispetto al Partito Popolare Europeo proiettando le proprie ambizioni (inappagate) della politica interna verso la politica estera. Soprattutto, mentre il ruolo del suo partito sembra essere ridimensionato sia in sede interna che europea.

Macron sta cercando quindi di creare un’agenda per ricostituire una maggioranza di cui cercherà di essere il maggiore protagonista. Alla luce della metamorfosi della CDU tedesca che, dopo la sconfitta di Armin Laschet, sostenuto dalla componente centrista e filo-Merkel, vede un profondo mutamento. Merz cerca quindi una virata a destra per contenere l’emorragia di voti del mondo conservatore verso AfD. Un rimedio non molto efficace, che rischia di creare un inseguimento della destra tedesca da parte della CDU.

Il quadro tedesco vede anche una fuga di voti dalla SPD, sotto la debole guida di Olaf Scholz, verso una nuova formazione di sinistra, che si aggiunge a quella già verificatasi verso i Verdi, che sta indebolendo i socialdemocratici. Stiamo, infatti, assistendo non solo ad una crisi della precedente governance europea, ma della forma partito classica.

La crisi della forma partito

FS: Cosa emerge da questo scenario di crisi delle strutture classiche della politica europea?

SV: Emerge una crisi complessiva della forma partito, che si sviluppa parallelamente all’avanzata dei “movimenti” rispetto ai “partiti”. I veri protagonisti della politica francese, ad esempio, sono i movimenti come quello di Marine Le Pen, di Melanchon e dello stesso Macron.

Anche in Germania i partiti classici stanno subendo delle perdite e vere emorragie elettorali a vantaggio di nuovi movimenti, tra cui spicca AfD. In Italia abbiamo visto man mano nel tempo l’affermazione di molti movimenti che hanno iniziato a raccogliere consensi con l’avvio della cosiddetta Seconda Repubblica. Un fenomeno caratterizzato da forti personalismi, con le loro relative parabole, più o meno brevi, come fu con Berlusconi, Prodi, Renzi, Grillo, Conte, Salvini.

La traiettoria di tali movimenti anche su basi personali sembra inoltre molto atipica, effimera ed instabile, con parabole di consenso che passano rapidamente dal 33 per cento all’ 8, come nel caso della Lega di Matteo Salvini, o dal 4 per cento del 2018 al 29 attuale di Fratelli d’Italia. La forma partito, che è un elemento classico della democrazia rappresentativa, appare oggi più che mai messa in crisi e sostituita, con maggiore o minore intensità, da movimenti. Una problematica che risulterà decisiva nel confronto con i principali cambiamenti dirompenti in atto nello scenario europeo. Basti pensare alle metamorfosi del panorama politico del Regno Unito negli ultimi anni…

La porosità dell’Ue alle lobby

FS: Quale pensa sia un aspetto molto sottovaluto, ma cruciale sostanzialmente?

SV: Sicuramente il tema della porosità dell’Unione europea di fronte all’influenza delle lobbies e dei gruppi di pressione. Pensiamo alle contraddizioni della transizione verde e alle sue ricadute sul piano del mercato immobiliare, che finirebbe per avvantaggiare gli stessi interessi che sono costati all’Italia oltre 200 miliardi di euro con l’assurdo Superbonus del 110%.

Un aspetto imputabile al dogmatismo green che rischia di avere pericolose ricadute oltre che sul settore immobiliare anche su quello industriale e dell’automotive con il divieto di costruzione di automobili a combustione dopo il 2035.

Il tema della porosità ai gruppi di pressione investe altri aspetti cruciali, ad esempio, sul piano sanitario o su quello alimentare. Si tratta di processi che rischiano di minare l’autorevolezza della Commissione europea e dello stesso Parlamento europeo, che è stato investito da note vicende che ne compromettono l’autorevolezza e la credibilità.

Il trasferimento di poteri e decisioni dai singoli Stati ad una governance europea sovrastatuale, vulnerabile alle influenze dei gruppi di pressione, alimenta inoltre le campagne dei movimenti sovranisti ed identitari. Un problema che sarà il vero nodo politico sul quale si giocherà l’imminente competizione elettorale europea.

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