Il presidente Donald Trump non ha tempo né voglia di misurare le parole. Il 4 marzo, nel suo primo discorso al Congresso, elencando alcuni tagli decisi per mettere fine agli sprechi della cooperazione internazionale Usa, giustamente da lui definiti “enormi”, ha portato a esempio gli “otto milioni di dollari per promuovere la comunità LGBTQI+ nella nazione africana del Lesotho di cui nessuno ha mai sentito parlare”.
Come era prevedibile, il governo del Lesotho si è risentito. Il ministro degli esteri Lejone Mpotjoane ha definito “molto offensiva” l’osservazione di Trump e ha annunciato che una lettera ufficiale di protesta sarà inviata a Washington: “sono davvero scioccato – ha detto – che un capo di stato possa esprimersi così a proposito di un altro stato sovrano”.
Aiuti allo sviluppo e politica estera
L’incidente diplomatico ha distolto l’attenzione dalla questione centrale. Trump intendeva domandarsi e domandare che senso abbia, a che cosa serva e perché i suoi predecessori abbiano deciso di finanziare un costoso progetto in quel minuscolo stato africano di due milioni di abitanti.
Trump non è il primo a interrogarsi sul senso di certi finanziamenti a favore di altri Paesi e ad agire di conseguenza. Nel 2020 il premier britannico Boris Johnson ha fuso il Ministero degli esteri e il Dipartimento per lo sviluppo internazionale, formando il Ministero degli affari esteri, del Commonwealth e dello Sviluppo, anche lui con l’obiettivo, seppure poi perseguito con meno determinazione di Trump, di far coincidere cooperazione internazionale allo sviluppo e politica estera “per meglio tutelare gli interessi e i valori britannici”.
“Dobbiamo domandarci perché diamo allo Zambia gli stessi aiuti che diamo all’Ucraina – aveva spiegato Johnson – e perché diamo al Tanzania dieci volte più aiuti che ai sei Paesi dei Balcani occidentali”.
Cambiamento globale?
Il fatto nuovo, adesso, è che le decisioni prese dell’amministrazione Trump potrebbero segnare l’inizio di un cambiamento globale in materia di cooperazione internazionale e più in generale di rapporti nord-sud del mondo.
L’Unione europea ha già fatto sapere che terrà fede ai propri impegni umanitari, nel 2025 per un totale di 1,9 miliardi di dollari, un quarto dei quali destinati all’Africa, ma che non riempirà il vuoto lasciato dagli Stati Uniti. Le Nazioni Unite lamentano una crescente reticenza dei Paesi occidentali a finanziare le agenzie umanitarie delle quali sono i maggiori sostenitori: Oms, Alto commissariato Onu per i rifugiati, Unicef, Unaids (Programma delle Nazioni Unite per l’HIV e l’AIDS), e tutte le altre.
Anche i Paesi ricchi che aderiscono alla COP, la Conferenza Onu sui cambiamenti climatici, all’ultimo vertice, COP30, svoltosi a fine novembre 2024 in Brasile, si sono mostrati meno disposti a onorare gli impegni assunti, sempre più spesso disattesi e sostituiti da vaghe promesse.
Il G20 in Sudafrica: assenze pesanti
Un segnale è arrivato anche dal G20. L’annuale vertice del G20 si è svolto il 20 e 21 febbraio in Sudafrica che ne ha assunto la presidenza per il 2025. Il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa ha voluto farne l’occasione perché i Paesi ricchi prestassero attenzione alle preoccupazioni dei Paesi più poveri: “peggioramento delle disuguaglianze, azioni inadeguate sul cambiamento climatico e un sistema finanziario che favorisce gli istituti di credito rispetto ai debitori poveri”.
“Diversità, equità, inclusione” erano le parole chiave dell’agenda del vertice. Contava molto sulla presenza degli Stati Uniti. Ma il 6 febbraio il segretario di Stato Marco Rubio ha detto che non vi avrebbe partecipato per i problemi insorti tra il suo Paese e il Sudafrica in seguito all’approvazione nel Paese africano di una legge che consente l’esproprio di terre senza risarcimento e perché giudicava pessimo il programma concordato per il vertice.
Uno dei punti chiave dell’incontro era la richiesta di ridurre i tassi di interesse dei prestiti concessi ai governi africani, rinegoziarne e ristrutturarne i debiti, attuare altri provvedimenti intesi ad alleggerire il peso del debito estero africano e avviare una riforma globale del sistema finanziario internazionale per renderlo più favorevole ai Paesi indebitati.
Una proposta in tal senso è stata presentata da nove ex capi di Stato africani. “Ora è più importante che mai che i membri del G20 lavorino insieme – ha dichiarato il presidente Ramaphosa nel discorso di apertura, invitando alla cooperazione multilaterale – è fondamentale garantire che i diritti e gli interessi dei vulnerabili non vengano calpestati dalle ambizioni dei potenti”.
Ma al vertice non mancavano solo gli Stati Uniti. Erano assenti anche i ministri delle finanze di Cina, Giappone, India e Canada e l’Unione europea non ha mandato i suoi massimi rappresentanti. Alcuni dei ministri presenti se ne sono addirittura andati prima della fine. “L’assenza di funzionari chiave sottolinea ulteriormente il calo dell’impegno per la riduzione della povertà in un momento in cui è più necessario – ha commentato Dirk Willem te Velde, docente presso la SOAS (Scuola di studi orientali e africani) di Londra – e il taglio degli aiuti è una notizia devastante”.
Un’opportunità per l’Africa
Quasi tutti sono di questo parere. Tra le poche eccezioni c’è quella dell’italiano Martino Ghielmi che da anni assiste gli italiani che intendono avviare delle attività economiche in Africa. Ghielmi sostiene che la sospensione degli aiuti, ma non solo per 90 giorni come prevede il decreto esecutivo di Trump, offrirebbe proprio all’Africa in particolare una opportunità importante. Può indurre gli africani – dice – a riconsiderare la loro dipendenza dal sostegno esterno e fungere da catalizzatore per un cambiamento necessario: “i leader africani dovrebbero essere responsabili dei loro Paesi. È ora di smetterla di andare con il cappello in mano a chiedere l’elemosina”.
I governi africani in effetti sono i più preoccupati per l’eventualità di una drastica riduzione e ridefinizione degli aiuti allo sviluppo, già certa per quel che riguarda l’apporto determinante degli Stati Uniti. Dalla fine della colonizzazione europea, a partire dagli anni 60 del secolo scorso, tutti a prescindere dalla sfera di influenza scelta, hanno fatto pesantemente affidamento su finanziamenti esteri destinati a progetti di sviluppo, assistenza umanitaria, gestione delle crisi e ordinaria amministrazione.
Di questa situazione di dipendenza si è discusso anche durante il 38° vertice dell’Unione Africana svoltosi nella capitale dell’Etiopia, Addis Abeba, dal 14 al 16 febbraio, durante il quale i 54 Paesi membri hanno eletto il nuovo presidente dell’organismo, Mahamoud Ali Youssouf, già ministro degli esteri di Gibuti.
È ora di cambiare, hanno convenuto i capi di stato e di governo presenti. Sotto la nuova presidenza – questo afferma il documento programmatico diffuso al termine del vertice – l’Africa deve ridurre in maniera significativa la propria dipendenza dagli aiuti stranieri.
Non si contano le volte che proponimenti simili sono stati proferiti, coralmente al termine di vertici internazionali oppure da singoli leader che orgogliosamente sostengono di voler fare a meno degli aiuti internazionali, soprattutto se offerti a determinate condizioni come il rispetto dei diritti umani, la lotta alla corruzione, la salvaguardia delle istituzioni democratiche. Però di solito, per non dire sempre, sono dichiarazioni alle quali non fanno seguito azioni concrete.
Durante la pandemia di Covid-19, ad esempio, alcuni paesi, tra i quali l’Uganda, il Kenya e il Sudafrica, hanno annunciato che intendevano costruire dei laboratori nei quali produrre i vaccini per non dover più dipendere dal resto del mondo. Poi però hanno chiesto – e ottenuto – i fondi necessari per costruirli, attrezzarli e farli funzionare.
Corruzione sistematica
A decenni dall’indipendenza e nonostante le ricchezze enormi di cui dispongono, i governi africani hanno tuttora assoluto bisogno di finanziamenti, doni, prestiti, investimenti esteri. È essenzialmente il risultato di decenni di corruzione eretta a sistema, persino ostentata, di malgoverno rivendicato come diritto scontato, dello scandaloso spreco pubblico e privato di risorse.
Dovrebbero cambiare molte cose in Africa perché il continente possa fare a meno degli aiuti internazionali. Gli Africani intenzionati a cambiare ci sono, ma non sono ancora abbastanza numerosi, non hanno la forza e il potere di imporsi. Eppure adesso, per la prima volta, gli africani forse dovranno davvero passare dai propositi di indipendenza e autonomia ai fatti, che lo desiderino o no.