A un anno dai massacri del 7 Ottobre, uno degli eventi più drammatici ed infami della storia contemporanea, l’esercito israeliano, usando i metodi tradizionali di combattimento rispettosi del diritto di guerra e, per quanto possibile dei principi umanitari (si pensi agli inviti preventivi alla popolazione civile a evacuare, alla collaborazione all’assistenza materiale alle popolazioni colpite, alla garanzia di zone “franche” non soggette a bombardamenti), sta vincendo la sua lotta contro le organizzazioni terroristiche islamiche radicali quali Hamas ed Hezbollah, forse i nemici più difficili da combattere oggi, e questo non può che essere motivo di soddisfazione, anche se amara perché le guerre portano sempre con sé morte e distruzione, anche a carico di persone innocenti.
Esiste però un’altra guerra, per fortuna meno cruenta, ma anch’essa molto importante, che non coinvolge solo gli israeliani, ma tutta la civiltà occidentale, una guerra che prima di tutto Israele, ma anche l’Occidente rischiano seriamente di perdere, quella delle parole.
L’uso distorto delle parole
Un episodio significativo: solo pochi giorni fa, in risposta ad un’azione militare israeliana, facente parte di una vasta offensiva diretta a distruggere le infrastrutture militari di Hezbollah situate in Libano, azione che ha portato a colpire alcune telecamere delle postazioni militari facenti parte delle forze di sicurezza dell’Onu presenti nella zona, il ministro della difesa italiano Guido Crosetto ha usato l’espressione “crimine di guerra”, espressione che, se riferita al danneggiamento di alcune telecamere, sia detto con il massimo rispetto l’esponente del nostro governo è decisamente assurda.
Intendiamoci, che un ministro difenda i militari italiani all’estero è giusto e doveroso, ma altrettanto doveroso sarebbe il ritiro da quella missione che ormai come sottolineato su Atlantico Quotidiano da Federico Punzi, ha fallito i suoi scopi e rischia di porre i soldati italiani in una situazione di pericolo, difficile da affrontare e a mio modesto parere, difficile da giustificare.
Rimane il fatto che l’infelice espressione che abbiamo citato, al di là del caso concreto e dei riferimenti personali, è indice (anche se fosse stata, come probabilmente è stata, solo una battuta troppo affrettata) di una mentalità diffusa, di un modo di esprimersi e di ragionare capaci di condizionare anche chi riconosce in linea di principio le ragioni degli israeliani, mentalità e modo di esprimersi che, quando sono fatti propri dalle frange più ideologizzate della nostra società e della nostra politica non solo portano quasi a scusare e da parte di alcuni anche ad esaltare i terroristi, ma rischiano pure di distruggere i concetti fondamentali sui quali si basano i ragionamenti e i giudizi che sono propri della cultura occidentale.
Giudizi che sono sempre imperfetti, ovviamente, ma che non possono essere rigettati e messi da parte tramite un distorto uso delle parole che ne stravolge il senso, e rischia di riportare il nostro mondo civile ad un’epoca di barbarie, nella quale quest’ultima finirebbe con il prevalere sulla civiltà faticosamente costruita in secoli di storia.
Tutto questo si inserisce nel cono d’ombra della cultura woke, che disprezza la civiltà occidentale, che come detto è imperfetta, fonte di ingiustizie, e nel caso di guerra anche di morti innocenti (si pensi a quanti tedeschi non responsabili del nazismo morirono durante la Seconda Guerra Mondiale), ma che è infinitamente migliore della barbarie dell’estremismo islamico che riporterebbe il nostro mondo ai suoi primitivi e selvaggi esordi.
Persino più indietro rispetto alla violenza ancora presente ad esempio nei poemi omerici, nei quali però già si intravede l’evoluzione verso una civiltà più rispettosa della dignità del nemico: si pensi all’episodio (Iliade, libro 24, versi 471 e seguenti) di Achille che restituisce il corpo di Ettore, il nemico ucciso, al padre Priamo per la sepoltura, commosso dal dolore di quest’ultimo, e lo si confronti con i canti e balli con cui molti affiliati ad Hamas hanno festeggiato la strage del 7 ottobre.
Molti sono i modi con i quali le parole vengono distorte e piegate in questa guerra del linguaggio da parte prima di tutti dei terroristi, e poi di riflesso anche da parte di molti occidentali imbevuti dell’ideologia postmoderna che priva i termini del loro significato oggettivo, derivato da secoli di errori ed esperienze degli uomini che hanno sviluppato e portato avanti la nostra cultura.
Palestina “libera” da Israele
Forse è impossibile enumerarli tutti, perché la realtà supera, come vedremo tra poco anche la fantasia dei migliori romanzieri e linguisti, ma si può provare a fare qualche esempio. Il primo esempio è rappresentato dal rovesciamento della “gerarchia” dei significati, che porta a stravolgere il senso di un termine. Come tutti possiamo constatare quasi ogni parola ha un significato principale, al quale è legata di solito una carica emotiva positiva o negativa, e alcuni significati secondari, dai quali in genere quella carica emotiva è assente. Prendiamo la parola “libero”, che evoca in chi la pronuncia e in chi ascolta il valore dell’autonomia e dell’indipendenza dall’oppressione e dal dominio di qualcun altro, soprattutto se riferita ad un popolo o ad uno stato.
Nel suo significato secondario, “libero” è invece sinonimo di “sgombro da” qualcosa, ad esempio dai rifiuti o dagli insetti nocivi. Il grande scrittore britannico, purtroppo profetico in molte delle sue creazioni, George Orwell (1903 – 1950) nelle ultime pagine del suo capolavoro “1984”, ipotizza un mondo futuro in cui il termine “libero” avrà solo il significato di “sgombro da”, perdendo del tutto il suo significato emotivo positivo, che si sarebbe estinto insieme al valore della libertà.
Orwell aveva certo una grande fantasia, pessimista (o “distopica” come si una dire) nell’immaginare mondi da incubo, ma nemmeno lui avrebbe mai pensato che un giorno il termine libero sarebbe stato realmente usato nel significato di “sgombro da”, ma avrebbe mantenuto una carica emotiva tale da giustificare manifestazioni e rivendicazioni analoghe a quelle che un tempo erano ricollegate al suo significato principale di “indipendente” dall’oppressione altrui. Sono sotto gli occhi di tutti le manifestazioni di piazza che innalzano striscioni con la scritta “Palestina libera”, con la precisazione da parte dei più zelanti “dal fiume (Giordano) al mare (Mediterraneo)”.
Questi slogan, che riprendono, consapevolmente o no poco importa, le tesi dei terroristi di Hamas, collegano il carattere emotivo positivo del termine, che spinge ad approvare la guerra contro Israele, con il significato di “sgombro da”, di modo che quando si inneggia alla Palestina libera, non si inneggia ad una nazione indipendente, ma ad un territorio sgombrato (liberato) dalla presenza degli israeliani, si inneggia cioè ad uno sterminio totale degli stessi, e quindi ad un genocidio, o nella migliore delle ipotesi ad una loro rimozione dal territorio, cioè ad una pulizia etnica.
Molte volte in passato i peggiori dittatori hanno parlato di pace mentre fomentavano la guerra, ma forse mai in precedenza si era giunti ad un tale stravolgimento dei concetti, ad un tale rovesciamento della realtà, provocata da quello svuotamento del significato delle parole che rappresenta l’eredità della cultura woke.
La banalizzazione delle parole
Un altro esempio è dato dalla banalizzazione delle parole, che si verifica quando un termine, anche in questo caso carico di un significato emotivo, viene esteso a situazioni superficialmente analoghe, ma in sostanza molto differenti da quelle che rientrano nell’ambito del suo uso in senso proprio. Accade ad esempio come quando noi diciamo che la vendita di un bene a un prezzo che riteniamo eccessivo è “un furto”.
Questo si verifica in genere con espressioni cariche di senso emotivo negativo, che richiamano al solo pronunciarle le peggiori azioni umane e che vengono abitualmente riversate sull’esercito e sui politici israeliani, talora con la benedizione (aberrante, mi si consenta di dirlo) delle istituzioni giuridiche internazionali, per condannare le loro azioni militari dirette a combattere il nemico terrorista.
È il caso principalmente del termine “genocidio”, che si riferisce, nel suo significato proprio, ad un’azione deliberata diretta a sterminare un popolo, una particolare etnia: lo subirono ad esempio in passato gli stessi ebrei da parte dei nazisti e gli armeni da parte dei turchi.
Dal genocidio si sono sempre tenute distinte le azioni di guerra anche quando le stesse hanno avuto un esito tragico, creando molte vittime tra la popolazione civile: infatti, per quanto esse siano state (e siano tuttora da un punto di vista storico) operazioni discutibili e per molti condannabili, nessuno ha mai usato il termine genocidio per descrivere i bombardamenti a tappeto degli alleati sull’Europa nazista o il lancio delle bombe atomiche sulle città giapponesi durante la seconda guerra mondiale.
Per quanto riguarda la guerra di Gaza si deve tenere presente inoltre che molte vittime civili sono dovute alle scelte deliberate dei miliziani di Hamas di collocare le loro basi militari in strutture ospedaliere o scolastiche (il rappresenta un crimine ai sensi del diritto di guerra), al fine imputare la loro morte all’esercito israeliano “genocida”. Per dare un senso del livello a cui può arrivare questa estensione aberrante dei concetti, si pensi che persino la cessazione dell’erogazione dell’acqua durante l’assedio di Gaza nei primi giorni del conflitto è stata qualificata “genocidio”, termine che finirebbe per ricomprendere sotto questa odiosa accusa tutti gli eserciti che nel corso della storia hanno assediato delle città.
A volte per smascherare questo uso perverso delle parole può essere utile la satira: pochi giorni dopo i massacri del 7 Ottobre e durante l’assedio di Gaza, il noto giornale satirico francese Charlie Hebdo raffigurò in una vignetta un terrorista islamico che, tentando inutilmente di lavarsi le mani sporche di sangue da un rubinetto da cui non usciva acqua, commentava: “La violenza degli israeliani ha raggiunto livelli inimmaginabili”.
Ancora su un piano diverso stanno i casi nei quali è la carica emotiva di un termine ad essere messa in discussione e ad essere rovesciata. Durante la ricorrenza dei massacri, molti israeliani hanno paragonato quanto avvenuto il 7 Ottobre di un anno fa all’Olocausto patito dagli ebrei da parte dei nazisti, usando un termine che evoca il dolore e la tragedia delle vittime innocenti provocate della violenza di un regime totalitario.
Da parte di molti, compresi – sorprende dirlo, ma l’oicofobia, il disprezzo della propria cultura e della propria nazione sono oggi ampiamente diffusi grazie alla cultura woke – alcuni pensatori ebrei, si è criticato aspramente l’uso del riferimento all’Olocausto in quanto il termine inciterebbe all’odio razziale, tramutando in tal modo la (tragica) valenza emotiva della parola da positiva in negativa e trasformando quest’ultima in una specie di insulto da osteria.
Crisi di civiltà
La guerra in Medio Oriente è distante da noi, ma quella delle parole ci riguarda tutti: se esse perdono il loro significato frutto di secoli di storia siamo tutti indifesi di fronte alle peggiori ideologie, compresa quella propria del radicalismo integralista islamico, ma non solo di fronte ad essa. È giusto segnalare che il tema è trattato in un recentissimo libro del giornalista e polemista britannico Brendan O’Neill, intitolato “7 October, Israel, and the Crisis of Civilisation” (il 7 ottobre, Israele, e la crisi della civiltà).
Tornando a dove siamo partiti, quale che sia il giudizio che si vuol dare sull’incidente militare che ha coinvolto l’esercito israeliano e le forze Onu, resta il fatto che, al di là delle intenzioni soggettive, se si accettasse di definire lo stesso come un crimine di guerra, si dovrebbe inventare un altro termine per descrivere gli esperimenti che il dottor Mengele eseguiva ad Auschwitz, perché le due cose sono abissalmente diverse.